Non vergognarti di chi sei

Cari sposi, nel nostro mondo, la scena evangelica ci parla di cose e oggetti a noi poco familiari. Chi, infatti, ha mai maneggiato una rete da pesca? Possiamo solo immaginarlo o magari averlo visto in televisione. Ma la pesca a reti era tra i mestieri più evidenti per Gesù, nativo di un villaggio vicino al grande lago di Genesaret.

Le reti menzionate nel Vangelo sono a strascico o da circuizione e potevano raggiungere una lunghezza di circa 100 metri, con un’altezza tra i 2 e i 4. Per questo motivo, il loro uso richiedeva più mani ed una barca capiente per essere tirate a riva. Composte di fibre naturali, come lino o canapa, necessitavano manutenzione costante per evitare rotture o deterioramenti per l’umidità. Tutto ciò fa capire quanto il pescare in tali condizioni fosse un’attività faticosa, solo per gente esperta ed abile.

Pietro era proprio uno di questi, non per nulla a capo della piccola ditta di pescatori. Oggi è seduto vicino alla riva e, con i suoi colleghi, mentre lavorava stava però ad ascoltare il Maestro nella sua predicazione. Lo faceva con attenzione e rispetto perché Gesù, fino a quel momento, aveva già fatto diverse guarigioni prodigiose. Che onore avere una tale persona vicino a sé!

Ma l’onore presto svanì con quella richiesta così ingenua: “prendi il largo e butta la rete”. Conoscendo il carattere un tanto fumino, gli deve aver provocato un misto di risata e di imbarazzo… Avrà pensato: “Siamo stanchi morti dopo una notte che ci è andata buca e poi lo sa anche un bambino che i pesci ci vedono benissimo. Di giorno, al primo movimento, scappano giù a fondo e chi li prende più? Mah! Come fa a non saperle ‘ste cose?

E poi avvenne l’incredibile. Mai visto un banco di pesci così grande in rete! Se Pietro aveva già intuito che Gesù fosse un grande, ora con quel fatto sconvolgente, gli viene la tremarella alle gambe e, da uomo schietto e diretto, cade in ginocchio davanti a Lui, in un misto di adorazione, riverenza, umiltà.

Che può dire una scena del genere per voi sposi? Lo capiamo bene mettendo in parallelo la prima lettura con il Vangelo. È la nostra povertà, il nostro limite, i peccati e le cadute che possono prima o poi farci sentire indegni di essere cristiani o perlomeno di ricoprire un ruolo o una responsabilità nella Chiesa. Come anche ottenere l’effetto di spegnere l’entusiasmo nella vita nuziale. E poi, se iniziamo a compararci con altre coppie che, a nostro parere, sono “migliori”, il gioco del demonio è riuscito e la tentazione di tagliare la tela è a portata di mano.

La Chiesa, almeno nel suo Magistero ufficiale, è invece molto chiara e realista. Dinanzi a situazioni simili Papa Francesco dice: “Non si deve gettare sopra due persone limitate il tremendo peso di dover riprodurre in maniera perfetta l’unione che esiste tra Cristo e la sua Chiesa, perché il matrimonio come segno implica «un processo dinamico, che avanza gradualmente con la progressiva integrazione dei doni di Dio” (Amoris laetitia, 122).

Non cadiamo però nell’errore di pensare che dobbiamo assecondare i nostri difetti. Sentirsi dire “mal comune, mezzo gaudio” non ha mai salvato nessuno dal pessimismo ma soprattutto non ha mai spinto a crescere e ad essere migliori persone se non ad appiattirsi e mettersi in parte.

Invece, guardando le due scene analoghe, di Isaia e di Pietro, essi sì ammettono di non essere degni; ma poi che succede? Riconoscono il primato della Grazia che è capace di purificare ed elevare l’umana debolezza. E questo li rimette in moto fino a dare totalmente la vita al Signore, nonostante tutto.

È commovente pensare che Pietro, fino agli ultimi giorni della sua vita – sebbene la Pentecoste pareva avesse aggiustato ogni cosa in lui -, non ha perso la livrea di testardo e codardo, come la celebre tradizione degli “Atti di Pietro” apocrifi ci attesta. Eppure, ce l’ha fatta, ha dato la vita a Cristo ed è per noi un modello di donazione totale.

Se anche voi siete tentati a volte di fermarvi, di parcheggiare il matrimonio perché “avete faticato tutta la notte e non avete preso nulla” siete nelle condizioni ideali per iniziare ad essere veramente discepoli di Gesù come coppia.

Finché non facciamo l’esperienza di Pietro non possiamo essere seguaci. Mi impressionano nel Vangelo i vari episodi di persone che volevano seguire Gesù che però Lui non accoglie, l’ultimo dei quali è stato l’indemoniato di Gerasa. Una volta liberato come sarebbe stato bello se anche lui, seguendo Gesù con gli altri 12, avesse detto a tutti: “Avevo una Legione di demòni addosso ma Gesù mi ha liberato!”. Ma questo criterio non è stato, evidentemente, sufficiente perché Cristo lo abbai voluto con sé. Nessuno è degno di stare vicino a Cristo e di seguirlo per il semplice fatto di volerlo.

Siate colmi di speranza, quella teologale, perché il dono del sacramento del matrimonio è la garanzia che Gesù oggi e sempre vi chiama a lanciare le reti, nonostante tutto. Sta a voi, come Pietro, essere fiduciosi e confidare nella sua Parola.

ANTONIO E LUISA

Questo racconto è il canto di resurrezione di tante coppie che hanno rifiutato di arrendersi al fallimento, che hanno scelto di lottare quando tutto sembrava perduto. Perché sì, a volte nella notte della vita getti le reti e torni a riva a mani vuote. Ti affanni, ti sforzi, eppure nulla cambia. Il cuore si appesantisce, la speranza si sbiadisce, e la tentazione di mollare tutto si fa assordante. Ma c’è chi resta. Chi non si lascia vincere dal vuoto. Chi si aggrappa alla promessa fatta all’altare, anche quando sembra solo un’eco lontana. E getta ancora le reti. Una volta in più. Non perché ha capito, non perché ha la certezza che funzionerà, ma perché non ha più nulla da perdere.

Gesù ha sempre amato trasformare il poco in abbondanza, la fine in un nuovo inizio. Lo ha fatto a Cana, quando l’acqua diventò vino. Lo fa nei matrimoni che sembrano esauriti, nei cuori che si sono persi, nelle promesse che sembrano svanite. Perché l’amore vero non è solo emozione: è fede. È gettare ancora la rete, credendo che Dio possa riempirla.

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