Fare memoria del bene: il tesoro nascosto del matrimonio

Questo è l’ultimo articolo dell’anno. E non poteva che essere un invito semplice, ma decisivo: fermarsi e fare memoria del bene ricevuto.

Quando un anno si chiude, siamo spontaneamente portati a ricordare ciò che è mancato: le discussioni, le incomprensioni, le fatiche che non avremmo voluto vivere. È un riflesso umano. Ma non è l’unico sguardo possibile. La fede ci educa a uno sguardo diverso, più vero e più fecondo: quello che sa riconoscere il bene ricevuto e custodirlo come una ricchezza per il futuro. Perché chi inizia un nuovo anno con riconoscenza, ama meglio. C’è un breve racconto che dice tutto questo con una forza disarmante.

Un sacerdote viene trasferito in una nuova parrocchia. Tra le prime famiglie che incontra ce n’è una molto presente nella vita comunitaria. Viene invitato a cena. Durante la serata resta colpito dall’intesa evidente tra i due sposi: uno di quegli amori che non hanno bisogno di essere esibiti, perché si percepiscono nei gesti, nei silenzi, negli sguardi.

Prima di congedarsi, il sacerdote fa una domanda diretta, quasi provocatoria: Ma anche a voi capita di litigare? Ci sono momenti di tensione e di crisi? Risponde lei, senza esitazione: Certo che sì, caro don. Ma abbiamo un segreto. Il nostro tesoro.

Si alza, entra in un’altra stanza e torna con un diario in mano. Vede questo quaderno? Qui annoto tutte le volte che mio marito mi ha voluto bene. Ogni gesto, ogni parola, ogni attenzione. E quando litighiamo, vado in camera, lo prendo, lo sfoglio. E mi torna subito il desiderio di fare pace. Di ricominciare.

Questo racconto è semplice. Ma è profondamente vero. E ci mette davanti a una domanda scomoda: noi cosa custodiamo nel cuore?

Diciamocelo con onestà: siamo bravissimi a ricordare le mancanze dell’altro. Le archiviamo con precisione. Le teniamo pronte. Le tiriamo fuori al momento giusto. E siamo altrettanto bravi a dare per scontato il bene: tutte le volte in cui nostro marito o nostra moglie ci ama davvero, si fa servizio, si fa cura, si fa presenza, si fa tenerezza. Quelle volte spesso scivolano via senza lasciare traccia. Eppure è proprio lì che si gioca la qualità di un matrimonio.

Non basta “fare memoria” in modo generico. Esiste un verbo molto più forte: ricordare. Un verbo che, nella sua etimologia, rimanda al cuore. Re-cordari: richiamare al cuore. Rendere presente oggi un bene che è stato donato ieri. Non come nostalgia, ma come forza attuale.

Ricordare significa riportare nel cuore tutte le volte che siamo stati guardati con amore. Tutte le volte che siamo stati accolti. Tutte le volte che una parola ci ha rialzati. Tutte le volte che il corpo dell’altro è stato casa e non pretesa. Tutte le volte che siamo stati perdonati. Tutte le volte che abbiamo sperimentato la bellezza di essere amati anche quando non ce lo meritavamo.

Questo non cancella le ferite. Ma impedisce alle ferite di diventare l’unica verità.

Costruire questo tipo di memoria significa creare un tesoro. Un capitale spirituale e affettivo da cui attingere nei momenti difficili. Perché arriveranno. Arrivano sempre. Ci saranno giorni in cui l’altro non sarà capace di darci nulla. Giorni in cui ci sembrerà povero, distante, faticoso da amare. È lì che il ricordo del bene diventa salvezza.

Quando attingiamo a quel tesoro, diventa più difficile lasciarsi dividere dal non-amore del momento. Perché sappiamo che l’amore c’è, anche se in quel tratto di strada non si vede. È custodito nei gesti passati che continuano a nutrire il presente.

Ecco perché questo ultimo articolo dell’anno non è un bilancio, ma un invito. Prima di entrare nel nuovo anno, fermatevi. Prendete il vostro “diario”. Anche solo simbolicamente. E chiedetevi: quale bene ho ricevuto?

Chi inizia così, non parte da zero. Parte da una ricchezza. E può amare con più libertà, con più verità, con più riconoscenza.

Antonio e Luisa

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Un sacco piccolo ma abitato

Dai «Discorsi» di san Bernardo, abate (Disc. 1 per l’Epifania, 1-2; PL 133, 141-143) Si sono manifestate la bontà e l’umanità di Dio Salvatore nostro (cfr. Tt 2, 11). […] Dio Padre ha inviato sulla terra un sacco, per così dire, pieno della sua misericordia; un sacco che fu strappato a pezzi durante la passione perché ne uscisse il prezzo che chiudeva in sé il nostro riscatto; un sacco certo piccolo, ma pieno, se ci è stato dato un Piccolo (cfr. Is 9, 5), in cui però «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2, 9). Quando venne la pienezza dei tempi, venne anche la pienezza della divinità. […] Nulla mostra maggiormente la sua misericordia che l’aver egli assunto la nostra stessa miseria. Signore, che è quest’uomo perché ti curi di lui e a lui rivolga la tua attenzione? (cfr. Sal 8, 5; Eb 2, 6). Da questo sappia l’uomo quanto Dio si curi di lui, e conosca che cosa pensi e senta nei suoi riguardi. Non domandare, uomo, che cosa soffri tu, ma che cosa ha sofferto lui. Da quello a cui egli giunse per te riconosci quanto tu valga per lui, e capirai la sua bontà attraverso la sua umanità. Come si è fatto piccolo incarnandosi, così si è mostrato grande nella bontà; e mi è tanto più caro quanto più per me si è abbassato. Si sono manifestate – dice l’Apostolo – la bontà e l’umanità di Dio nostro Salvatore (cfr. Tt 3, 4). Grande certo è la bontà di Dio e certo una grande prova di bontà egli ha dato congiungendo la divinità con l’umanità.

Nell’Ottava del Santo Natale la Chiesa ci offre approfondimenti sul mistero dell’Incarnazione tratta da vari santi, e così facendo ci insegna un metodo che questo mondo moderno ha dimenticato: la contemplazione. La modernità ci ha abituati al tutto e subito, ci vuole assuefatti al vivere al 100% le emozioni (cosa che fanno i bimbi piccoli) quali che esse siano… se questa mattina è Natale allora che festa sia, se il pomerigggio sei triste per un motivo qualsiasi allora vivi la tristezza del momento; oggi sei incavolato col vicino e allora che arrabbiatura sia, se il giorno dopo sei contento perché arriva il pacco di Amazon tanto aspettato allora evviva il pacco, nel frattempo resti arrabbiato col vicino ma con la gioia del pacco di Amazon, e via di questo passo. Senza tregua da un’emozione all’altra, da uno stato d’animo all’altro in un battibaleno, da un selfie all’altro senza far funzionare più nemmeno la memoria visiva di quegli attimi perché tanto li puoi rivedere sul cellulare.

Ma l’uomo ha bisogno di vivere con tutto se stesso, il cuore dell’uomo ha bisogno di starci dentro alle esperienze, ha bisogno di sedimentare nell’animo le cose fondamentali e belle della vita, di farle proprie, ha bisogno di nutrire cuore, corpo e anima, non ha bisogno del mordi e fuggi… questo lo fanno le galline beccando ora qui ora là con disinvoltura poiché per esse non fa differenza il “qui” o il “là”.

La Chiesa ci è madre e conosce bene il cuore dell’uomo, per questo ci insegna la via della contemplazione, la via del sedimentare, la via del serbare nel silenzio del cuore (alla stregua di Maria), la via del custodire nel segreto dell’anima… è la via che ci insegnano i santi, quella cioè della continua commemorazione, del continuo ri-cordare : deriva dal latino recordāri, formato dal prefisso re- (di nuovo, indietro) e cor, cordis, che significa “cuore”; letteralmente “ricordare” significa “richiamare al cuore”.

E cosa dobbiamo richiamare al cuore in questi giorni dell’Ottava? Il grande mistero dell’Incarnazione, esso è talmente grande che non potremo mai conoscerlo fino in fondo, perciò è necessario riportare al cuore giorno dopo giorno un aspetto del mistero che abbiamo celebrato. La Chiesa fa sempre così: non aspetta che l’uomo sia pronto (non lo sarà mai abbastanza) per celebrare un mistero poiché è infinito mentre la nostra natura è finita, ma glielo offre subito come realtà presente che salva, da accogliere e celebrare ma che poi ha bisogno giorno dopo giorno di essere assorbita e contemplata e vissuta.

Del resto noi sposi ne siamo un esempio vivo, la Chiesa non ci ha donato il Sacramento del Matrimonio come un premio alla fine di un percorso, alla stregua di una patente, ma ce lo ha offerto subito come realtà salvante all’inizio del percorso matrimoniale. Spetta a noi sposi poi il compito di non abbandonare questo dono nello scaffale dei dimenticati, di non lasciarlo lì ad accumulare la polvere, spetta a noi la fatica del ri-cordare continuamente il dono ricevuto.

Da quello a cui egli giunse per te riconosci quanto tu valga per lui, e capirai la sua bontà attraverso la sua umanità. San Bernardo qui ci insegna a guardare al nostro coniuge con questi occhi: riconoscere il valore del mio coniuge con gli occhi di quel Dio che si fa bambino pur di salvarci… Nulla mostra maggiormente la sua misericordia che l’aver egli assunto la nostra stessa miseria.

Con questo sguardo nel cuore, giorno dopo giorno, riusciamo a contemplare non solo la bellezza del coniuge che il Signore ci ha consegnato, ma anche la grandiosità di un Dio che preferisce farsi piccolo pur di abitare nel cuore degli uomini.

Dio Padre ha inviato sulla terra un sacco, per così dire, pieno della sua misericordia; un sacco che fu strappato a pezzi durante la passione perché ne uscisse il prezzo che chiudeva in sé il nostro riscatto; un sacco certo piccolo, ma pieno, se ci è stato dato un Piccolo (cfr. Is 9, 5), in cui però «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità».

Noi sposi sacramentati siamo presenza reale di Gesù l’uno per l’altra ed insieme per il mondo, dobbiamo quindi vivere come se fossimo quel sacco a cui allude san Bernardo, un sacco certamente piccolo, talmente piccolo da voler abitare in due sposi fragili ed imperfetti, ma un sacco che contiene un Dio vivo, una presenza che salva.

Coraggio sposi, sfruttiamo questi giorni dell’Ottava di Natale per aprire questo sacco.

Giorgio e Valentina

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Le emozioni autentiche: la porta d’ingresso alla verità di sé

Inizio oggi una serie di articoli per trattare le emozioni. Nel cammino personale, relazionale e spirituale c’è un passaggio decisivo che spesso viene sottovalutato: imparare a riconoscere le emozioni autentiche, chiamate in Analisi Transazionale anche emozioni primarie. Sono emozioni di base, universali, presenti in ogni essere umano: gioia, tristezza, rabbia, paura, disgusto e sorpresa. Non dipendono dal carattere, dall’educazione ricevuta o dal livello di maturità spirituale. Appartengono all’essere umano in quanto tale e precedono ogni costruzione culturale, morale o religiosa. Eppure, paradossalmente, sono proprio le emozioni che più fatichiamo a sentire e a nominare.

In Analisi Transazionale un’emozione autentica non coincide mai con l’impulsività o con una reazione incontrollata. Ha caratteristiche precise: è proporzionata alla situazione che la genera, è temporanea, non invade tutta la persona e orienta all’azione sana. La rabbia autentica segnala che un confine è stato violato; la tristezza autentica segnala una perdita; la paura autentica protegge la vita; la gioia autentica nasce dall’incontro vero; la sorpresa autentica ci rende disponibili all’azione inattesa di Dio e dell’altro; il disgusto autentico custodisce la dignità, aiutandoci a dire un no sano a ciò che non è buono per noi. Se ascoltate, le emozioni autentiche non distruggono, ma orientano. Il problema nasce quando non le riconosciamo o quando le sostituiamo con qualcos’altro.

Molti di noi non sono stati educati a sentire le emozioni, ma ad adattarsi. Da bambini abbiamo imparato molto presto che alcune emozioni non erano accettabili, non erano benvenute o mettevano a rischio il legame con le persone importanti. Così abbiamo iniziato a sostituirle.

In Analisi Transazionale queste sostituzioni si chiamano emozioni parassite: emozioni apprese, emozioni “di copertura”, che prendono il posto di quelle autentiche perché più sicure dal punto di vista relazionale. Succede allora che al posto della tristezza mostriamo rabbia, al posto della paura mostriamo controllo, al posto del bisogno mostriamo autosufficienza, al posto del dolore mostriamo distacco o ironia. Non è una colpa, è una strategia di sopravvivenza. Ma ciò che ci ha protetti da piccoli, da adulti spesso ci allontana da noi stessi e dagli altri.

Dal punto di vista cristiano questo tema è centrale, anche se spesso frainteso. La fede cristiana afferma l’unità della persona: corpo, psiche e spirito non sono compartimenti separati. Se Dio si è fatto carne, allora anche le emozioni diventano luogo di rivelazione. Nei Vangeli Gesù non appare mai emotivamente anestetizzato.

Davanti alla tomba di Lazzaro «Gesù scoppiò in pianto» (Gv 11,35): tristezza autentica, non trattenuta, non negata. Di fronte alla durezza dei cuori «guardandoli tutt’intorno con indignazione, rattristato per la durezza del loro cuore» (Mc 3,5), Gesù mostra una rabbia limpida, che nasce dall’amore ferito, non dal bisogno di dominare. Nell’orto degli ulivi prova paura e angoscia: «La mia anima è triste fino alla morte» (Mc 14,34), e chiede che il calice passi, mostrando che la paura autentica non è mancanza di fede, ma espressione piena dell’umanità.

Allo stesso tempo Gesù conosce una gioia profonda e condivisa: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Il disgusto autentico emerge quando Gesù smaschera ciò che è falsità e ipocrisia, come davanti ai sepolcri imbiancati e al tempio trasformato in mercato (cf. Mt 23,27; Gv 2,15-16): non disprezzo delle persone, ma rifiuto netto di ciò che corrompe la relazione con Dio e con l’uomo. Persino la sorpresa attraversa i Vangeli, quando Gesù si meraviglia della fede del centurione (Mt 8,10) o dell’incredulità dei suoi (Mc 6,6). Gesù vive emozioni autentiche, non emozioni parassite. Non le nega, non le moralizza, non le spiritualizza per difendersi.

Questo ha conseguenze enormi per la vita di coppia. Molti conflitti non nascono perché “non ci amiamo più”, ma perché non sappiamo più dirci l’emozione autentica. Dietro una rabbia aggressiva spesso si nasconde la paura di non contare, la tristezza per una distanza, il bisogno di essere riconosciuti. Quando una persona riesce a dire l’emozione vera, accade qualcosa di potente: l’altro non si sente più attaccato, ma coinvolto. L’emozione autentica non accusa, espone. E dove c’è esposizione vera, può nascere l’incontro.

Riconoscere le emozioni autentiche non è una tecnica psicologica da applicare né un esercizio di introspezione fine a se stesso. È un cammino di verità che tocca la storia personale, il Bambino interiore, la relazione e anche la fede. Dio non ci chiede di essere forti, ma di essere veri. Questo articolo vuole essere solo un’introduzione. Nei prossimi entreremo, una per una, nelle emozioni autentiche per comprenderle, riconoscerle e imparare a viverle senza distruggere noi stessi o la relazione. Perché la maturità emotiva non è smettere di sentire, ma sentire bene. E da lì, finalmente, amare meglio.

Antonio e Luisa

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Un modello non troppo lontano

Cari sposi, siamo nella gioia interiore perché il Natale ci ha ricordato che “la Sua non è un’apparizione fugace, Egli viene per restare e donare sé stesso” (Papa Leone, Messaggio e benedizione Urbi et Orbi 2025). Il senso profondo di questa solennità è che Gesù è con me sempre e non mi abbandona mai.

Oggi celebriamo un’altra festa che è collocata proprio a ridosso della Natività di Cristo per un motivo ben preciso. Infatti, questo tempo ci ricorda che il Figlio di Dio assume pienamente la condizione umana e la vive in modo concreto, all’interno di una famiglia reale, con relazioni, obbedienza, lavoro, crescita e quotidianità. La Sacra Famiglia manifesta che Dio nasce dentro una famiglia e la vita familiare diventa così luogo di santificazione.

E il Vangelo odierno ci mostra che la santità non è un’astrazione o fuga dalle circostanze in cui ci si trova ma è anzitutto la ricerca della volontà di Dio, di quel Progetto meraviglioso con cui Lui mi ha pensato da sempre. Oggi il focus è tutto su Giuseppe, un uomo che non parla ma si sforza di agire secondo questa volontà.

Il suo grande compito è di custodire, di proteggere Maria e Gesù non solo dalle insidie vere e proprie ma di creare un ambiente di vita degno, sicuro, accogliente. Quanto abbiamo bisogno noi maschi di guardare a quest’uomo davvero virile, completo, maturo! Quanto di Giuseppe ha preso Gesù: nella pazienza con cui ha gestito gli svarioni caratteriali di Pietro & Co., nella laboriosità con cui ha gestito per anni la medesima officina di falegname, nello spirito di preghiera con cui condiva le sue giornate fin dal mattino, nel profondo rispetto con cui ha trattato le donne che ha incontrato ogni giorno… e tanto altro.

Giuseppe ha saputo costruire piano piano la sua “casa” assieme a Maria per educare il loro Figlio e la bussola che l’ha guidato è sempre stata la volontà di Dio. Se per Gesù, il cibo era “fare la volontà del Padre mio” (cfr. Gv 4, 34) da un punto di vista umano questo l’ha imparato da Giuseppe.

Magari qualcuno pensa che la Sacra Famiglia sia un modello di vita esagerato e sproporzionato; tuttavia, è assai confortante constatare che per loro la ricerca e il compimento della Volontà di Dio non è stato mai facile e l’hanno realizzata spesso con fatica e – perché no? – con qualche perplessità, proprio come capita a noi.

Cari sposi, che la grazia del matrimonio, ulteriore segno che Gesù è veramente con voi e vi accompagna sempre, vi aiuti a vivere sempre attenti a restare e permanere nel Sogno che Dio ha pensato su voi come marito e moglie, come famiglia. Illuminanti e motivanti in tal senso sono le parole di Papa Francesco: “Maria, Giuseppe, Gesù: la Sacra Famiglia di Nazareth che rappresenta una risposta corale alla volontà del Padre: i tre componenti di questa famiglia si aiutano reciprocamente a scoprire il progetto di Dio. Loro pregavano, lavoravano, comunicavano” (Omelia 29 dicembre 2019).

ANTONIO E LUISA

San Giuseppe è un vero uomo. E noi uomini tutti, mariti e consacrati, fidanzati e single, possiamo prenderlo ad esempio. Essere uomo non solo piace alla nostre donne ma è ciò che Dio vuole da noi. Un uomo è capace di scelte definitive, un uomo non si risparmia per il bene delle persone che ama, un uomo è una persona di cui ci si può fidare, un uomo è capace di spostare lo sguardo da sè all’altro. Un uomo è capace di sacrificio e trae la sua gioia dalla gioia che riesce a donare a chi ha vicino. Se il paragone con Gesù ci pare troppo pensiamo a San Giuseppe e di quanto sia stato tutte queste cose quando ha portato in salvo e custodito la Santa Famiglia.

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Quando la rabbia non è rabbia

Una storia quotidiana per capire le emozioni parassite

Ogni anno, puntuale come il Natale stesso, arriva anche per noi il momento di andare a fare le compere. È una scena normale, quasi banale, e proprio per questo rivelatrice. Io entro nei negozi con una cosa ben chiara in testa: il budget. Luisa entra con un’altra chiarezza, più emotiva e relazionale: i doni, le persone a cui sono destinati, i gesti che raccontano amore più che numeri. Due sguardi diversi, entrambi legittimi, che ogni anno finiscono per incrociarsi nello stesso punto critico.

Succede così: a un certo momento, quando secondo me Luisa spende troppo, sento crescere dentro una tensione. Non è una rabbia esplosiva, non ci sono parole dure o accuse esplicite. È qualcosa di più sottile. Mi rabbuio. Mi chiudo. Parlo meno. Il tono cambia e, senza bisogno di dirlo, la distanza comincia a farsi sentire.

Luisa lo percepisce subito. Non lo vive come una questione di soldi, ma come un allontanamento emotivo, come se improvvisamente io fossi meno presente, meno in relazione. Negli anni passati questa dinamica ci ha portati spesso allo stesso esito: io convinto di avere ragione, lei ferita, entrambi con la sensazione di non esserci davvero incontrati.

Quest’anno, però, qualcosa è cambiato. Non perché la situazione fosse diversa, ma perché io lo ero. Da tempo sto studiando l’Analisi Transazionale e, in particolare, il tema delle emozioni parassite. In questo approccio si definiscono così quelle emozioni che impariamo a esprimere al posto di quelle autentiche. Non sono emozioni false nel senso morale del termine, ma sostitutive. Le utilizziamo perché sono più familiari, più accettate, spesso imparate molto presto nella nostra storia personale. È come se, crescendo, avessimo capito che alcune emozioni andavano bene e altre no, e avessimo trovato delle scorciatoie emotive per adattarci.

Così, invece di mostrare la paura, mostriamo rabbia; invece della tristezza, ironia; invece del bisogno, chiusura; invece della preoccupazione, irritazione. Le emozioni parassite non nascono per fare male, ma per proteggerci. Il problema è che, nelle relazioni adulte, producono quasi sempre l’effetto opposto: allontanano proprio la persona dalla quale avremmo bisogno di sentirci vicini.

Mentre camminavamo tra i negozi, ho sentito quella sensazione familiare salire dentro di me. Il corpo si irrigidiva, la voglia di parlare diminuiva, il silenzio prendeva spazio. Ma questa volta mi sono fermato. Mi sono fatto una domanda semplice, forse la più onesta che potessi farmi: “Ma io, davvero, sono arrabbiato?”. La risposta è arrivata chiara e inattesa. No, non ero arrabbiato. Quello che sentivo era preoccupazione. Preoccupazione per le spese, per l’equilibrio familiare, per il futuro, per quella responsabilità che sento profondamente mia. La rabbia non era l’emozione autentica, era solo l’emozione che avevo imparato a usare per non mostrare altro.

A quel punto ho fatto qualcosa di diverso dal solito. Non ho parlato di cifre, non ho fatto osservazioni sul “troppo” o sul “bisogna stare attenti”. Ho semplicemente detto la verità emotiva: “Sono preoccupato”. È sorprendente quanto una parola, se è quella giusta, possa cambiare completamente il clima. Luisa non si è difesa, non si è chiusa, non si è sentita accusata. Perché la preoccupazione non attacca, non giudica, non mette distanza. La preoccupazione chiede vicinanza. Da lì è nato un dialogo vero, non perfetto e non risolutivo, ma autentico. Un dialogo che non ci ha separati, ma avvicinati.

Questa esperienza, così semplice e quotidiana, mette in luce una dinamica che riguarda molti di noi. Spesso, proprio quando abbiamo più bisogno di essere accolti, mostriamo un’emozione che respinge. Quando abbiamo bisogno di rassicurazione diventiamo duri, quando abbiamo bisogno di essere capiti diventiamo silenziosi, quando abbiamo bisogno di vicinanza alziamo muri. Le emozioni parassite fanno esattamente questo: ci proteggono creando distanza, e così generiamo più dolore e più sofferenza di quanto sarebbe necessario.

Non è stata una svolta epocale. Una piccola vittoria. Ma quella sera non ci siamo persi, e per una coppia questo è già moltissimo. Riconoscere l’emozione autentica e darle voce è un atto di verità, e la verità, nel matrimonio come in ogni relazione significativa, non divide: costruisce. L’Analisi Transazionale non serve a diventare più controllati o più bravi, ma più umani. E a volte, per amarci meglio, basta imparare a dire non l’emozione che difende, ma quella che, finalmente, chiede di essere accolta.

Antonio e Luisa

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Natale: Un’Occasione per Rinnovare l’Amore

Il Natale è una festività che invita alla riflessione sulla speranza, sulla famiglia e sull’unità. Dio si fa uomo tra gli uomini, si manifesta nella forma più indifesa, un bambino. In un periodo dell’anno in cui si celebra la speranza e la rinascita, può esserci lo spazio per rinnovare le relazioni? anche quelle che sembrano difficili da riparare?

L’amore di coppia è uno dei legami più complessi e significativi che possiamo sperimentare. Quante volte, come Maria e Giuseppe, ci troviamo ad affrontare viaggi faticosi, costellati di incognite e imprevisti? Pensiamo, ad esempio, alla distanza tra Nazaret e Betlemme: un cammino di circa 130–150 chilometri che, a piedi o a dorso di un asino, richiedeva dai quattro ai sette giorni di viaggio. Se a questo aggiungiamo la gravidanza di Maria, non possiamo che ammirare la fiducia reciproca che univa i due e l’amore profondo necessario per affrontare un percorso fatto non solo di felicità e condivisione, ma anche di fatica, difficoltà e incomprensioni.

Sempre più spesso, nelle nostre esperienze di coppia, quando non conosciamo strumenti adeguati utili ad affrontare i momenti critici o quando perdiamo di vista il progetto iniziale della relazione, smarriamo le nostre coordinate interiori. In questo spazio di smarrimento trovano terreno fertile sentimenti come frustrazione, delusione e sconforto. Nei casi più dolorosi, tutto questo conduce alla separazione. Eppure, la separazione non è sempre l’unica strada possibile. In certi casi, può diventare anche un’occasione di crescita, di riflessione e persino di rinascita.

In questo cammino di riconciliazione, uno degli elementi più potenti è il perdono. Perdonare non significa dimenticare o negare il dolore causato da una ferita, ma compiere un atto di liberazione. Liberarsi dal rancore e dal risentimento permette una guarigione profonda, tanto in chi perdona quanto in chi viene perdonato. Il perdono, dunque, non è segno di debolezza, ma di grande forza. Richiede coraggio, perché implica il lasciar andare il peso di offese spesso profonde, per aprire lo spazio alla rinascita di qualcosa di nuovo.

Siamo Roberto e Daniela, ci siamo sposati 31 anni fa, quando eravamo due giovani pieni di sogni, pronti ad affrontare il mondo. Avevano scelto di camminare insieme, spinti dal legame profondo che ci univa, un legame che sembrava tanto naturale quanto l’aria che respiravano.

Le risate, i sogni e le promesse di un futuro insieme erano tutto ciò di cui avevamo bisogno per sentirci completi. I primi anni di matrimonio furono un’esplosione di felicità. Le giornate passavano velocemente, tra vacanze, progetti, e la costruzione di una casa piena di risate e amore. Poi, arrivarono i figli, tre meravigliosi bambini che resero la nostra vita ancora più ricca e piena di significato. La casa si riempì di voci, giochi, e le notti diventarono più lunghe, ma anche più dolci, perché il nostro amore cresceva nei piccoli gesti quotidiani.

Ma come il vento che cambia direzione senza preavviso, anche il nostro amore dovette attraversare tempeste. Con il passare degli anni, infatti, il tempo si riempì di doveri e responsabilità. Il lavoro, le esigenze quotidiane, e soprattutto il compito di essere genitori presero il sopravvento ed entrambi, cominciammo a perdere di vista noi stessi. La nostra relazione, che una volta era un rifugio di complicità e passione, divenne sempre più una routine. Eravamo più genitori che coppia, più organizzatori di vite altrui che amanti.

Iniziammo a perderci nei silenzi e nelle incomprensioni. Ogni giorno sembrava che le parole che un tempo erano piene di significato, ora fossero più difficili da trovare. I problemi, piccoli e grandi, non venivano più affrontati insieme. Le discussioni si facevano sempre più rare, ma anche più fredde.

Ad esempio, quando io, cercavo supporto, Daniela, stanca e distante, non riusciva ad offrirmi quel conforto che un tempo le veniva naturale. Non parlavamo più di ciò che davvero contava, e le emozioni rimanevano soffocate nei nostri cuori, senza mai trovare spazio per un confronto sincero.

Ogni discussione si trasformava in un silenzio pesante, che si estendeva giorno dopo giorno. La mancanza di comunicazione non era solo una questione di parole, ma di disconnessione emotiva e l’amore, che un tempo scorreva liberamente tra noi, sembrava essersi trasformato in una presenza distante e sfuggente. La crisi fu profonda, tanto da portarci a pensare che fosse arrivato il momento di separarci.

Siamo stati separati per tre anni. Eppure, proprio in quel periodo di profonda crisi, qualcosa è cambiato. Un giorno, quando sembrava che tutto fosse perduto, ad un passo dal divorzio, ci siamo incontrati. Ci siamo guardati negli occhi, e in quello sguardo c’era una risposta che nessuno di noi aveva mai veramente pronunciato. C’era ancora l’amore. E non solo amore, ma la consapevolezza che, nonostante tutto, eravamo ancora noi, quelli che si erano innamorati tanti anni prima.

Non è stato facile, ma abbiamo deciso di non arrenderci. Ed è stato allora che un amico comune ci ha mandato la locandina del weekend di Retrouvaille, a cui partecipammo senza troppe aspettative ma consapevoli che da soli non ce l’avremmo fatta.

Arrivammo al weekend con sentimenti di fiducia e speranza. Ci accostammo al programma con abbandono. Iniziammo a riprendere il dialogo che avevamo interrotto da troppo tempo e, addirittura, arrivare più in profondità, come forse mai avevamo fatto. Gli incontri successivi sono stati molto importanti; poco per volta, abbiamo iniziato a capire cosa non aveva funzionato nella nostra relazione e come usare gli strumenti per poter avere una vita di coppia piena, serena e forte.

Abbiamo scelto di non arrenderci, di riscoprirci, come se fosse il nostro “nuovo anno”. La magia non era sparita, era solo sepolta sotto le nostre paure, sotto il nostro silenzio. Abbiamo iniziato a parlarci di nuovo, a prenderci cura di noi stessi come coppia. Abbiamo ricominciato a ridere insieme, a ritrovare quella complicità che avevamo perso, come se stessimo riscoprendo un regalo che avevamo dimenticato sotto l’albero.

I nostri figli sono cresciuti, ma noi, siamo ancora qui, più forti che mai. Oggi, dopo 31 anni di matrimonio, ci rendiamo conto che il vero dono che possiamo fare l’uno all’altra è quello di esserci, ogni giorno, di continuare a scegliere di camminare insieme. La nostra storia non è perfetta, ma è la nostra, fatta di alti e bassi, di momenti di gioia e di sfide, ma sempre con la consapevolezza che l’amore non è solo un’emozione che arriva e va, ma una scelta che ogni giorno facciamo e difendiamo.

E così, in questo periodo natalizio, tra luci, calore e riflessioni sul futuro, abbiamo imparato che la vera magia non è solo quella di un giorno di festa, ma di un amore che cresce e si rinnova, anche nei momenti difficili. Oggi guardando alla nostra storia, ripercorriamo la vita di quel piccolo ed indifeso Bambinello, vedendola come un meraviglioso cammino pieno di significati profondi e universali, che si intrecciano con gioie, dolori, speranze e perdono.

Infatti, Gesù ha vissuto l’esperienza umana, che riflette la realtà di ognuno di noi: le attese, le sfide, i tormenti ma anche la forza della speranza. Egli ci ha insegnato che il perdono può guarire e che, anche nei momenti di sofferenza, la speranza non ci abbandona mai. La sua morte terrena non rappresenta la fine, ma con la risurrezione, segna il trionfo della vita, il rinnovamento e la possibilità di un nuovo inizio. Così, la vita di Gesù ci invita a non arrenderci mai e a superare le difficoltà con il cuore in pace, certi della sua presenza in mezzo a noi, sposo tra noi sposi.

Roberto e Daniela (Retrouvaille Italia)

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Un vero miracolo di Natale

Il mio augurio per un Natale Santo, sereno e autentico passa attraverso le parole di Maria Winowska, che fu amica di Giovanni Paolo II nonché apprezzata scrittrice. Tempo fa ha pubblicato questo racconto vero che le fu narrato da un parroco ungherese.

“Chiunque potrebbe prendermi per pazzo o per un esaltato – le disse P. Norbert – se non ci fossero trentadue scolaretti a testimoniare la verità dell’accaduto. Nella mia parrocchia in Ungheria, un piccolo paese di 1500 anime, da dove poi mi scacciarono, successe una volta un fatto strano.

La maestra elementare era una militante atea. Tutte le sue lezioni erano imperniate sul tentativo di eliminare Dio dalla vita di quei bambini, per farne dei giovani atei. Ogni occasione era buona per sminuire la nostra Santa Religione, deriderla e screditarla. I bambini intimiditi non osavano difendersi. Le loro famiglie erano credenti e fedeli nell’adempimento dei loro doveri religiosi. In genere, le sciocchezze con cui la maestra, signorina Gertrud, bombardava continuamente i bambini, non avevano un grande effetto su di loro. Io in parrocchia mi impegnavo con tutte le mie forze a sostenere spiritualmente i bambini per abituarli a ricevere spesso il Sacramento della Comunione.

E, caso strano, la signorina Gertrud sembrava avere un fiuto misterioso per individuare chi si era comunicato e queste sue “pecore nere”, come lei le chiamava, le trattava con sfrenata rabbia. Sembrava che lo avesse saputo da questa o da quella spia. Nella IV/a c’era Angela di dieci anni. Era molto intelligente e capace […] la maestra riversava su di lei la sua cattiva luna e la maltrattava in ogni modo.

La bambina sopportava tutto pazientemente però divenne visibilmente sofferente. «Senti Angela, ma non è troppo pesante?». «No, Signor Parroco. Gesù ha sofferto molto di più quando gli sputavano addosso. Questo non mi è ancora capitato». Il coraggio che dimostrava mi riempì di grande ammirazione. Angela non venne mai a lagnarsi da me del pessimo trattamento che riceveva, ma le sue compagne mi raccontavano piangendo degli attacchi della maestra. Dal lato del profitto, questa non poteva dire niente e così si inventava ogni giorno qualcosa di nuovo per toglierle la fede. […].

Poco prima di Natale, esattamente il 17 dicembre, la signorina Gertrud escogitò un piano crudele che, come lei pensava, avrebbe eliminato la fede inutile che impestava la sua scuola. Il fatto merita di essere raccontato in tutti i suoi particolari. Angela fu involontariamente coinvolta in un gioco di domande e risposte. «Che cosa fai se i tuoi genitori ti chiamano?». «Vado», rispose la ragazzina timidamente sottovoce. «Molto bene. Ti senti chiamare e vai subito, come fa una brava bambina. Che cosa succede se i tuoi genitori chiamano lo spazzacamino?». «Viene» rispose Angela […]. «Bene mia piccola. Lo spazzacamino viene perché c’è, perché è vivo».

Un momento di silenzio. «Tu vieni perché sei viva. Però, per esempio, i tuoi genitori chiamano la nonna che è morta. Verrà?». «No non credo». «Brava. E se chiamano Barbablù? Oppure Cappuccetto Rosso? Oppure Pollicino? Ti piacciono le fiabe, no? Allora cosa succederà?». «Non verrà nessuno, perché sono fiabe» […] «Molto bene – gongolò la maestra – mi sembra che oggi tu riesca a pensare più chiaramente. Dunque bambini vedete che qualsiasi vivente che esiste, viene se lo si chiama. E chi non viene quando è chiamato, o non esiste oppure non è più vivo. è chiaro, vero?

E adesso supponiamo di chiamare Gesù Bambino. C’è ancora qualcuno di voi che crede in Gesù Bambino?». Per un attimo tutto tace. Poi, alcune voci timide dicono: «Sì, sì…». «E tu, Angela, credi tu che Gesù Bambino ti senta se lo chiami?». Angela si sentì improvvisamente sollevata da un peso. Ecco dunque il tranello di cui non poteva immaginare la portata. Con grande slancio rispose: «Certo, credo che mi senta». «Molto bene, adesso facciamo un tentativo. Se Gesù Bambino c’è, entrerà se voi lo chiamate.

Chiamate dunque tutti insieme molto forte: Vieni, Gesù Bambino! Uno, due, tre, tutti insieme». I bambini abbassarono la testa e in un silenzio di tomba si sentì una risata satanica. «E qui vi volevo. Questa è la mia prova. Non avete il coraggio di chiamarlo, perché non esiste, come Pollicino, Barbablù, perché sono semplicemente delle favole… storie per vecchietti seduti di fronte al camino, storie che nessuno prende seriamente perché non sono vere».

I bambini, sconvolti, tacevano ancora. Angela era sempre muta e mortalmente pallida. Improvvisamente successe una cosa inaspettata. Angela saltò in mezzo alla classe, i suoi occhi lanciavano scintille: «Noi lo vogliamo chiamare! Ascoltate! Tutti insieme diciamo: “Vieni, Gesù Bambino!“». In un attimo tutta la classe si alzò. Con le mani giunte, sguardi invocanti e cuori gonfi di una smisurata fede gridarono: «Vieni, Gesù Bambino!». […]

La porta si aprì silenziosamente. Videro che una forte luce si concentrava sulla porta. Questa luce cresceva, cresceva, poi divenne un globo di fuoco. Ebbero improvvisamente paura, però tutto accadde così in fretta che non ebbero nemmeno il tempo di gridare. Il globo si aprì e dentro apparve un Bambino splendido come non ne avevano mai visto. Il Bambino sorrideva loro senza dire una parola. La Sua infinita presenza era una infinita dolcezza.

Non avevano più paura, c’era solo gioia. Durò… un momento? Un quarto d’ora? Un’ora? Le opinioni a questo punto stranamente erano diverse. Certo è che l’accaduto non superò un’ora di lezione. Il Bambino era vestito di bianco e sembrava un piccolo sole. La luce proveniva da Lui stesso. La luce del giorno sembrava scura al confronto. […] Quasi impazzita e con gli occhi che le uscivano dalle orbite, la maestra gridò: «E’ venuto, è venuto!», poi scappò e sbatté dietro di sé la porta.

Ad Angela sembrava di svegliarsi da un sogno. Disse semplicemente: «Avete visto, Gesù Bambino esiste. E adesso ringraziamo». Tutti si inginocchiarono commossi e recitarono un Padre Nostro, un’Ave Maria ed un Gloria al Padre. Poi uscirono dalla classe perché era arrivato il momento della pausa. La cosa si sparse molto in fretta. I genitori mi chiesero di interrogare i bambini ed io li interrogai singolarmente. Posso testimoniare sotto giuramento di non aver trovato nei loro racconti la benché minima contraddizione. E ciò che mi ha più sorpreso è che l’avvenimento non sembrò loro niente di straordinario. «Avevamo bisogno di aiuto – mi raccontò una delle ragazze – Gesù Bambino doveva venire ad aiutarci».

Gesù era venuto in loro aiuto. Angela, dopo la scuola, riprese la sua vita in famiglia ad aiutare la mamma.”

Santo Natale a tutti e a ciascuno,

Fabrizia Perrachon

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Come Vivere un Natale Sereno da Genitore Separato

E siamo così arrivati alla vigilia di Natale: stanotte è speciale per tutti i bambini, ma lo dovrebbe essere anche per i grandi; forse soprattutto per gli adulti, perché col tempo abbiamo imparato a riempire il Natale di tante cose e abbiamo spesso smesso di farci interrogare davvero da ciò che questa notte rappresenta.

Ho già scritto un mio pensiero su questa festa nell’articolo precedente, lo trovate qui, se siete interessati. Oggi però vorrei soffermarmi su una situazione particolare, che riguarda molte più persone di quante si pensi: chi affronterà il Natale da solo e in modo particolare per chi è separato e che vive quella condizione strana e dolorosa per cui i figli si hanno con sé ad anni alterni, un Natale sì e uno no.

Anch’io quest’anno sarò lontano dalle mie figlie, perché passeranno tutta la settimana con mia moglie. È una realtà con cui, prima o poi, ogni genitore separato deve fare i conti e non è mai semplice, neanche quando si cerca di essere “forti”, maturi, credenti. Conosco però separati che, nonostante tutto, riescono a vivere il Natale insieme al coniuge, proprio per il bene dei figli. A volte si ritrovano la sera della vigilia, altre per il pranzo di Natale: in alcuni casi c’è persino lo scambio dei regali, come se, almeno per qualche ora, la famiglia tornasse a essere riunita.

Penso sinceramente che questa possa essere una cosa molto bella, a patto che non sia forzata, che non crei tensioni e che venga vissuta come un momento sereno, senza recriminazioni, senza allusioni, senza il bisogno di chiarire questioni che non possono essere affrontate in quel giorno.

Non è un tornare indietro, non è fingere di essere ancora una coppia, ma è scegliere consapevolmente di essere ancora genitori insieme (dovrebbe valere anche per chi non è rimasto fedele alla promessa fatta). Qualcuno sostiene che questo comportamento non sia appropriato, perché rischia di “confondere” i figli e di far credere loro che la famiglia si sia magicamente ricomposta: io, invece, penso esattamente il contrario.

I figli non sono stupidi, sanno benissimo che mamma e papà non vivono più insieme. Sanno che ci sono state delle difficoltà, dei dolori, delle scelte, ma vedere i genitori che, almeno per una volta, riescono a stare nella stessa stanza senza farsi la guerra è un messaggio potentissimo: è dire loro, senza tante parole, “Tu sei più importante dei nostri rancori”.

Questo non è fingere, fingere sarebbe far credere che non ci sia stato amore, sarebbe negare che quei figli siano nati da un legame vero, profondo, totale. Fingere sarebbe cancellare la verità che c’è stata fra il tepore di quelle lenzuola, di quell’intimità che ha generato la vita. Il fatto che quell’amore si sia trasformato, ferito o addirittura spezzato, non può cancellare il bene che c’è stato e soprattutto non può eliminare il risultato che ha prodotto: dei figli, che portano impressa nella loro carne la storia dei genitori.

Eppure, spesso, gli adulti fanno una fatica enorme: non riescono a stare qualche ora con il coniuge con cui hanno fatto l’amore per anni, ma riescono senza problemi a partecipare a un meeting di due giorni con un capo ufficio che non sopportano, a una cena aziendale forzata, a una riunione interminabile per “non creare problemi sul lavoro”. È paradossale, ma è così: il lavoro non deve essere danneggiato, i figli invece… si arrangino.

Questa dinamica emerge in modo ancora più evidente nelle feste religiose dei figli. Quante volte mi capita di leggere discussioni in cui genitori separati chiedono: “Come facciamo per la prima comunione?”. E la risposta più frequente è il pranzo con la mamma e la cena con il papà o viceversa: due feste, due torte, due gruppi di parenti.

Ma ci rendiamo conto dell’assurdità del messaggio che si trasmette? È la festa della Prima Comunione, un Sacramento, l’incontro con Gesù e il messaggio chiaro che trasmettiamo è che la divisione è più forte di tutto e che neanche davanti all’Eucaristia si riesce a fare uno sforzo di unità, almeno per qualche ora.

Poi però ci stupiamo se quei figli, crescendo, si allontanano dalla Chiesa, se non vogliono più andare a Messa, se vivono la fede come qualcosa d’ipocrita o di vuoto. Forse hanno semplicemente capito che, per noi adulti, non era poi così importante e che non ci credevamo minimamente.

Il Natale, in fondo, è molto simile a ciò che vivono tante famiglie oggi: niente è perfetto, ma proprio lì Dio decide di entrare. Gesù nasce in una mangiatoia, non in una casa accogliente, nasce nel silenzio e nella povertà, in una famiglia che deve lottare, scappare e che non comprende tante cose che succedono.

Questo dovrebbe dire qualcosa anche a noi, soprattutto a chi vivrà il Natale nella solitudine, a chi avrà una casa silenziosa, a chi sentirà la mancanza dei figli in modo quasi fisico, a chi farà fatica persino ad apparecchiare la tavola. Non sempre è possibile stare insieme, ci sono situazioni troppo complesse, ferite ancora sanguinanti, rapporti talmente deteriorati che un incontro sarebbe solo distruttivo; anche per me non è mai stata una soluzione percorribile.

Il Natale non chiede perfezione, chiede verità e la verità, a volte, passa anche attraverso una solitudine offerta, una nostalgia portata davanti a Dio, una ferita che non viene nascosta. Gesù nasce anche lì, nasce in quella casa vuota, nasce in quel padre che guarda il telefono sperando in un messaggio dei figli, nasce in quella madre stanca che cerca di tenere insieme tutto, nasce dove c’è povertà, non dove tutto è in ordine.

Auguro a tutti, soprattutto a chi farà più fatica, un Natale vero e sereno: non un Natale da cartolina, non un Natale perfetto, ma un Natale in cui permettiamo a Dio di entrare proprio dove fa più male, perché è lì che Lui ha scelto di nascere. Buon Natale!

Ettore Leandri (Presidente Fraternità Sposi per Sempre)

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Nazareth: la famiglia, focolare di santità

Si avvicina il Natale e, quando penso alla Famiglia di Nazareth, vedo come Dio, nella pienezza dei tempi, abbia ricostruito attraverso questa piccola famiglia il progetto originario della creazione. Sicuramente Gesù è il nuovo Adamo, ma Giuseppe e Maria, su questa terra, con l’accoglienza del Dio fattosi carne, sono riusciti a rigenerare il progetto di famiglia che era stato distrutto con il peccato originale.

Nella pienezza dei tempi, Dio ha scelto nuovamente due persone umane, Maria e Giuseppe, per ricreare il focolare distrutto dal peccato di Adamo ed Eva. Dio ha voluto suggellare la nuova alleanza, la nuova promessa — Cristo il Salvatore — fidandosi nuovamente dell’uomo per venire alla Luce.

Dio poteva nascere in tanti modi e poteva giungere sulla Terra in tante maniere diverse, ma ha scelto di fidarsi di nuovo dell’uomo. Il Natale ci viene a dire che Dio non ha mai perso la fiducia nell’uomo.

“Colui che ci ha chiamati è fedele, non ci ha chiamati per un tempo, ma per sempre.” — Padre Pancrazio. La speranza, per cui, non risiede nella nostra fiducia in Dio, ma nella fede di Dio nell’uomo. Con il Natale l’uomo aspetta il ritorno di Dio sulla Terra; Dio invece aspetta l’uomo che torni al Cielo.

Per far questo abbiamo bisogno di una scala che congiunga il Cielo alla Terra, e la Famiglia di Nazareth — che la Chiesa ha voluto che si festeggiasse la prima Domenica dopo il Natale — è una scala perfetta per poter giungere a Dio. Maria e Giuseppe ci conducono a Gesù, e Gesù al nostro Padre che è nei cieli.

La famiglia, al centro della creazione, la famiglia ricostruita nel focolare di Nazareth, diventa per cui il luogo santo dove tutti siamo chiamati a passare. Oggi, in un mondo che sta rinnegando la famiglia, che sta cercando in tutti i modi di distruggere questo focolare, dobbiamo avere il coraggio di testimoniarlo con la vita (e poi anche con le parole): che si diventa santi se, e solo se, riusciamo a ricostruire la santità nelle nostre famiglie.

“Se il marito smania di lavare i piedi ai tossici, la moglie si vanta di servire gli anziani, e la figlia maggiore fa ferro e fuoco per andare al terzo mondo come volontaria, ma poi tutte e tre non si guardano in faccia quando stanno in casa, la loro è soltanto una controtestimonianza penosa.” — Don Tonino Bello

La santità delle nostre azioni esterne nasce dalla cura parsimoniosa delle nostre famiglie: da quanto amore, quanta gentilezza, quanta pazienza riusciamo a metterci nei gesti quotidiani. Da questo focolare di amore — come nella piccola famiglia di Nazareth — nasce la Chiesa. Sì, amici: la prima Chiesa, il primo corpo di Cristo, è la Famiglia.

La famiglia è profetica: ci mostra il volto di Cristo sull’umanità; ci mostra come due esseri, all’inizio sconosciuti, decidono di rinunciare alle loro libertà per poter generare nuova vita: una vita non solamente genetica, ma anche spirituale. Io immagino la porta della santa casa sempre semiaperta, pronta ad accogliere in quel focolare domestico tutti i viandanti stanchi. Il Vangelo ci parla della “vita pubblica” di Gesù, ma nulla o poco sappiamo della sua “vita privata”, durata ben trent’anni.

Quante volte Maria avrà accolto la vicina disperata, o Giuseppe avrà aiutato un suo amico in difficoltà economica. Quante volte Gesù avrà giocato con i bambini del vicinato e invitato a passare una giornata in compagnia di Maria e Giuseppe. La santa casa sarà stata, in quei trent’anni, già casa di accoglienza per afflitti e bisognosi, ancor prima che lo diventasse a Loreto. Quanta dolcezza, quanto amore si sarà riversato nella piccola Betlemme da quella umile famigliola.

Che i nostri focolari domestici diventino focolari di carità, dove gli afflitti e gli oppressi di questo mondo possano trovare una santa quotidianità fatta di gesti semplici e generosi. Non abbiamo bisogno di molto per ricreare questo sacro focolare: siamo così distratti dalle luci di questo mondo che pensiamo che solo chi ha tanto economicamente e materialmente può essere di aiuto agli altri. Ma se una famiglia possiede quel piccolo Gesù nel proprio cuore, se possiede un amore fatto di piccole cose e di gesti concreti di amore, ha già tutto per diventare un faro che irradia la luce di Cristo intorno a sé.

E allora, quando ci troveremo in questi giorni davanti alla mangiatoia, facciamoci una domanda semplice: che tipo di focolare sto costruendo io? Non un focolare perfetto, ma un focolare sincero. Un luogo dove ci si chiede perdono, dove si ricomincia, dove ci si guarda negli occhi e ci si benedice, anche quando costa. Il Natale non è solo una luce fuori casa, è una luce dentro casa. È Cristo che chiede spazio nelle nostre stanze, nei nostri silenzi, nelle nostre ferite, nelle nostre abitudini. E quando gli apriamo, anche solo un poco, Lui ricostruisce: ricostruisce il cuore, ricostruisce i legami, ricostruisce la famiglia.

Che Maria e Giuseppe ci insegnino la fedeltà nelle piccole cose, la pazienza dei giorni normali, la forza di un amore che non scappa. E che questo Natale trovi le nostre case non necessariamente “a posto”, ma aperte: aperte a Dio e aperte agli altri. Perché se in un focolare c’è Gesù, anche con poco, c’è già tutto. E da una famiglia che ama così, nasce davvero la Chiesa: una luce che non abbaglia, ma scalda; una luce che non giudica, ma accoglie; una luce che non fa rumore, ma salva.

Daniele Chierico

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Come due apripista

Dal «Commento su san Luca» di san Beda il Venerabile, sacerdote (1, 46-55; CCL 120, 37-39)  «Maria disse: L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore» (Lc 1, 46). Dice: il Signore mi ha innalzato con un dono così grande e così inaudito che non è possibile esprimerlo con nessun linguaggio: a stento lo può comprendere il cuore nel profondo. Levo quindi un inno di ringraziamento con tutte le forze della mia anima e mi do, con tutto quello che vivo e sento e comprendo, alla contemplazione della grandezza senza fine di Dio, poiché il mio spirito si allieta della eterna divinità di quel medesimo Gesù, cioè del Salvatore, di cui il mio seno è reso fecondo con una concezione temporale. […] «Come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre» (Lc 1, 55).

Si intende la discendenza spirituale, non carnale, di Abramo; sono compresi, cioè, non solo i generati secondo la carne, ma anche coloro che hanno seguito le orme della sua fede, sia nella circoncisione, sia nell’incirconcisione. Anche lui credette quando non era circonciso, e gli fu ascritto a giustizia. La venuta del Salvatore fu promessa ad Abramo e alla sua discendenza, cioè ai figli della promessa, ai quali è detto: «Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa» (Gal 3, 29).   È da rilevare poi che le madri, quella del Signore e quella di Giovanni, prevengono profetando la nascita dei figli: e questo è bene perché, come il peccato ebbe inizio da una donna, così da donne comincino anche i benefici, e come il mondo ebbe la morte per l’inganno di una donna, così da due donne, che a gara profetizzano, gli sia restituita la vita.

A poche ore dal Natale la Chiesa ci offre questo scritto del quale abbiamo preso la prima e ultima frase; la prima contestualizza il commento sull’inno del Magnificat, la seconda è quella che più ci è parsa adatta al nostro tempo.

Ultimamente stiamo assistendo a rivendicazioni della parte femminile della società a scapito di quella maschile, ovviamente ci sono state e ci sono esagerazioni da entrambe le parti, e queste avvengono quando si perde la bussola che orienta: l’antropologia cristiana. Nella corretta antropologia cristiana il maschile ed il femminile hanno medesima dignità, la quale si esprime e si manifesta con specificità peculiari per ciascuno dei due sessi, fermo restando che molte caratteristiche sono comuni. E’ questa la corretta visione che orienta il cristiano, perciò anche letture come quella sopra non prestano il fianco a ideologie varie proprio perché partono dalla visione che l’uomo è stato creato maschio e femmina, due sessi differenti in vista della comunione tra loro.

I due co-protagonisti dell’Avvento sono la Madonna ed il Battista, (non a caso un maschio ed una femmina) poiché sono posti come guide per noi, come due prototipi, come se fossero due bodyguard i quali fanno da apripista per il vip che deve passare in mezzo alla folla. Similmente ai bodyguard, i due apripista dell’Avvento non hanno attirato gli sguardi della gente su di sé, ma hanno aperto la strada al Figlio di Dio, ed ognuno dei due l’ha fatto con modalità singolari incarnate nella propria mascolinità e femminiltà.

[…] come il peccato ebbe inizio da una donna, così da donne comincino anche i benefici, e come il mondo ebbe la morte per l’inganno di una donna, così da due donne, che a gara profetizzano, gli sia restituita la vita. Questa ultima frase è carica di speranza per l’umanità intera, non serve sbandierare nessuna rivendicazione, perché semplicemente sta dicendo una verità. Il Signore ha disposto che sia la donna a custodire dentro di sè la vita nascente, e questo dato che potrebbe sembrare un mero dato biologico, apre la finestra sulla vita interiore, ci sta dicendo che la donna è posta come prima tenera culla non solo della vita corporale ma anche di quella spirituale. Certamente la Madre del Signore e santa Elisabetta avevano al loro fianco san Giuseppe e san Zaccaria, custodi e protettori a loro volta della propria sposa che portava in grembo la vita nascente.

San Beda ci dona un carico di speranza per il nostro futuro, poiché ci sta dicendo che la maternità, biologica o spirituale, ha un ruolo fondamentale per ridare al nosto mondo la vita, nel senso più ampio della parola.

Cari sposi, ma una donna come può portare una tale fardello da sola? Ha bisogno di un uomo che la protegga, la sostenga, la solleciti, la custodisca, e che la affianchi nel ridare a questo nostro mondo la vita bella che il Natale porta con sè.

Coraggio sposi, in questo tempo speciale tocca a noi sposi fare da apripista alla vita bella, alla Vita vera, così come hanno fatto il Battista e la Madonna, ed ognuno di noi lo può fare nella propria sponsalità, nel proprio matrimonio, nella propria mascolinità o femminilità.

Auguri di un Santo Natale.

Giorgio e Valentina

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Il Cantico dei Cantici: Un Amore Vivo e Reale

C’è sempre un momento, alla fine di un percorso intenso, in cui nasce una tentazione sottile: chiudere il libro, tornare alla propria vita e pensare che ciò che abbiamo letto sia bello, profondo, persino commovente… ma non reale. Una storia affascinante, sì, ma lontana dalla concretezza delle nostre giornate, dalle fatiche della coppia, dalla stanchezza, dai silenzi, dalle ferite che conosciamo fin troppo bene.

È qui che rischiamo di liquidare tutto come una favola. Un amore così? Troppo alto, troppo esigente. Roba da ingenui, da sognatori, da chi non ha mai fatto davvero i conti con la vita. E invece no. Qui sta il punto decisivo: noi siamo stati creati per un amore così. Non per una versione ridotta, prudente, difensiva dell’amore, ma per un amore pieno, totale, incarnato.

Dio non sbaglia i suoi doni. Non è avaro. Non ci ha messi accanto “quell’uomo” o “quella donna” per sopravvivere emotivamente o per accontentarci di stare un po’ meno soli. Ci ha pensati per la felicità. Una felicità reale, concreta, attraversata dal limite ma non schiacciata da esso. Se spesso il matrimonio ci appare povero, spento o deludente, non è perché il sogno di Dio sia irrealistico, ma perché noi, lentamente, abbiamo smesso di crederci. Ci siamo adattati. Abbiamo abbassato l’orizzonte. Abbiamo perso lo sguardo sulla bellezza e sulle potenzialità della relazione che ci è stata affidata. E così, quasi senza accorgercene, dilapidiamo il tesoro più grande della nostra vita.

Il Cantico dei Cantici non è un libro romantico nel senso superficiale del termine. È un testo profetico. Profetico nel significato più autentico: rivela il desiderio di Dio sull’uomo e sulla donna. Racconta un amore già redento. Un amore che non nega il corpo, il desiderio, la passione, ma li riporta alla loro verità più profonda. Dopo Cristo, nessun amore umano è più “solo umano”. Con la sua morte e risurrezione, Gesù ha redento il mondo e ha redento anche il nostro modo di amarci.

Il matrimonio, allora, non è semplicemente una cornice religiosa data a un legame affettivo. È il luogo concreto in cui la redenzione prende carne. Attraverso il matrimonio, Dio entra nella relazione e la guarisce dall’interno. Ci riporta alle origini, a quell’Eden in cui Adamo ed Eva vivevano una comunione piena, non perché fossero perfetti, ma perché erano trasparenti, affidati, uniti.

Questo non significa che il matrimonio sia una magia. Non esistono formule automatiche. La grazia non sostituisce la libertà né l’impegno umano. Gesù non fa tutto al posto nostro. Chiede collaborazione. Chiede scelte. Chiede uno stile. Vivere il matrimonio “alla presenza di Gesù” significa assumere il suo modo di amare: la tenerezza che non possiede, la misericordia che non umilia, la volontà ostinata di donarsi anche quando costa.

Dal punto di vista psicologico, questo significa uscire dalle dinamiche difensive, smettere di vivere la relazione come un campo di battaglia o come un contratto di reciproca soddisfazione. Significa imparare a riparare, a chiedere perdono, a rialzarsi. L’errore non diventa più motivo di rottura, ma occasione di crescita. La ferita non genera distanza, ma può trasformarsi in luogo di incontro. Il peccato è sconfitto non perché non sbagliamo più, ma perché non ha più l’ultima parola.

Allora potrò dire: io sono per il mio diletto e il mio diletto è per me. Non come slogan, ma come esperienza possibile. Imperfetta, certo, ma reale. Un amore che desidera, che cerca, che ricomincia.

Fare della propria vita un Cantico incarnato significa questo: permettere a Dio di rendere la nostra coppia una profezia vivente. Il mondo non ha bisogno di coppie perfette, ma di coppie vere, riconciliate, capaci di mostrare che l’amore può attraversare il limite senza spegnersi.

Un sacerdote ha detto una frase che coglie l’essenza del sacramento del matrimonio: Il matrimonio è un sacramento perché è il segno visibile del sogno invisibile di Dio. Dio ha scelto l’amore degli sposi per raccontare se stesso. Per questo gli sposi sono chiamati a vivere il loro “sacerdozio”: offrire la propria relazione come luogo di servizio, di cura, di sacrificio reciproco. Solo così diventano profeti dell’amore di Dio.

San Giovanni Paolo II lo ripete con forza: Famiglia, diventa ciò che sei. Sta a noi scegliere se restare due persone che stanno bene insieme o diventare davvero ciò che siamo chiamati a essere: luce, speranza, fuoco. Chiara Corbella Petrillo lo dice senza sconti: La logica è quella della croce: regalarsi per primi senza chiedere nulla. Altrimenti non è vocazione, ma semplice accompagnarsi fino alla morte.

Sta a noi decidere se vivere o semplicemente sopravvivere. Se essere fuoco o accontentarci delle ceneri.

Antonio e Luisa

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Il dono natalizio della fede

Cari sposi, oramai è prossimo il giorno di Natale, l’Avvento è agli sgoccioli. L’attesa è compiuta e tutta la Parola di oggi ci colloca già nell’anticamera di Betlemme. E allora quale miglior preparazione immediata che riascoltare una delle “annunciazioni” di Gesù, rivolta a Giuseppe?

Se ci immedesimiamo nelle sue circostanze, possiamo solo restare ammirati e stupiti dalla fede che dimostra davanti a un fatto di per sé drammatico e sconcertante. Una fede, infatti, che non veniva affatto spontanea in un frangente del genere.

Difatti, secondo la prassi ebraica di allora, Maria era già formalmente sua moglie per aver iniziato il kiddushin con cui si erano scambiate le promesse tra loro e solo mancava la celebrazione con il banchetto affinché il matrimonio fosse completo. Proprio in questo lasso di tempo, Giuseppe viene a sapere della gravidanza di Maria, subendo durissimo colpo al cuore e sperimentando una profonda delusione nei suoi confronti. Eppure, egli agisce in modo del tutto diverso da quello che nel suo milieu sarebbe stato usuale.

Anche se avesse optato per la soluzione più soft, di certo, però, la notizia del tradimento della moglie prima o poi sarebbe trapelata trasformandosi inesorabimente in una macchia disonorevole e scandalosa, un’infamia traumatica, che avrebbe senz’alcun dubbio precluso per sempre a Maria un nuovo matrimonio e condannandola ad una triste solitudine per il resto dei suoi giorni.

Eppure, Giuseppe, in fin dei conti, compie un gesto eroico: sfidando l’evidenza si fida di Dio e accoglie Maria così com’è, dimostrando una fede profondissima, speculare a quella della sua consorte qualche mese prima. Questo ci mostra come la volontà di Dio passa per vie a noi il più delle volte ignote. Ma è proprio quando Lui ci scombina i piani e noi, comunque, ci fidiamo che poi accadono meraviglie!

Il Signore vuole dirci che è con questa fede che ci possiamo approcciare al Natale e solo se noi ci sintonizziamo con l’atteggiamento di Maria e Giuseppe possiamo incontrare personalmente Gesù. Al contrario sarà di certo una gran bella festa tradizionale, tra panettoni, torroni e panpepato, però senz’anima, senza una vera conversione.

Sul versante nuziale questo ha un’importante ricaduta, perché il matrimonio cristiano è di più di un semplice innamoramento tra uomo e donna, reso stabile dal patto. Richiede anch’esso un atto di fede non minore di quello di Giuseppe e di Maria nei confronti della Presenza di Dio tra di loro.

Lasciamo perciò che sia San Giovanni Paolo II a ricordarci quanto sia importante la fede vissuta, una fede che getti luce sullo sguardo reciproco tra gli sposi, per non ridursi nel tempo a fissarsi nei difetti reciproci:

“Il momento fondamentale della fede degli sposi è dato dalla celebrazione del sacramento del matrimonio, che nella sua profonda natura è la proclamazione, nella Chiesa, della Buona Novella sull’amore coniugale: esso è Parola di Dio che «rivela» e «compie» il progetto sapiente e amoroso che Dio ha sugli sposi, introdotti nella misteriosa e reale partecipazione all’amore stesso di Dio per l’umanità. Se in se stessa la celebrazione sacramentale del matrimonio è proclamazione della Parola di Dio, in quanti sono a vario titolo protagonisti e celebranti deve essere una «professione di fede» fatta entro e con la Chiesa, comunità di credenti. Questa professione di fede richiede di essere prolungata nel corso della vita vissuta degli sposi e della famiglia: Dio, infatti, che ha chiamato gli sposi «al» matrimonio, continua a chiamarli «nel» matrimonio” (Familiaris consortio 51).

Quanto dice il Papa si riflette anzitutto nella fede genuina di Giuseppe e di Maria. Infatti, come Giuseppe ha guardato con fede Maria, anche nell’ora della prova e viceversa Maria ha visto nella fede Giuseppe come l’uomo che avrebbe rispettato la sua scelta verginale, parimenti voi sposi siete chiamati ad usare il grande dono della fede per vedervi come parte di un Progetto più grande di voi, uno sguardo che il buon senso non riuscirà mai a raggiungere. Perciò, solo nella luce proveniente da quella Grotta avrete quella sicurezza e certezza di essere sulla strada giusta e la conferma di vedervi secondo gli occhi di Dio.

ANTONIO E LUISA

Ci si sposa quasi sempre con un’idea in testa: come dovrebbe essere il nostro matrimonio, la nostra famiglia, persino noi stessi come sposi. Poi la vita arriva, sorprende, spiazza, mette alla prova. È successo anche a noi. E lì si capisce una cosa decisiva: l’ideale, se non incontra il reale, diventa una fuga. Il matrimonio non è costruire la famiglia perfetta, ma imparare a stare nella realtà così com’è. È cercare Gesù nel qui e ora, nelle fatiche, nei limiti, nelle gioie imperfette. È ritrovarsi davvero, e insieme ritrovare Cristo, non nell’idea, ma nella vita vissuta.

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L’Iper-Razionale. Quando la testa protegge il cuore

Oggi affrontiamo il terzo stile di adattamento. Dopo il compiacente e il controllante, oggi l’iper-razionale.  Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. Se vivi accanto a un coniuge Iper-Razionale, probabilmente lo riconosci subito: è una persona lucida, riflessiva, capace di mantenere la calma quando le emozioni rischiano di travolgere tutto. Non alza la voce, non si lascia andare agli eccessi, non reagisce d’impulso. Di fronte a un problema, pensa. Analizza. Ordina. E spesso trova soluzioni.

Nell’Analisi Transazionale questo stile è chiamato Iper-Razionale. È uno degli adattamenti più silenziosi e meno appariscenti, ma anche tra i più fraintesi. Perché dall’esterno può sembrare distacco, mentre dentro è spesso protezione. L’Iper-Razionale non ha scelto la testa al posto del cuore per superiorità o freddezza: lo ha fatto perché, molto presto nella sua storia, ha imparato che sentire era rischioso.

Spesso è cresciuto con messaggi impliciti come: “Non provare troppo”, “Le emozioni creano problemi”, “Pensa, così sei al sicuro”. Da bambino ha scoperto che la mente poteva diventare un rifugio affidabile quando il mondo emotivo era confuso, intenso o doloroso. Così ha imparato a governare la realtà con il pensiero. È stata una strategia intelligente. Gli ha permesso di stare in piedi, di funzionare, di non andare in pezzi.

Nel matrimonio questo adattamento porta doni reali. Un partner Iper-Razionale è spesso una roccia nei momenti difficili. Quando tu sei travolto dalle emozioni, lui resta lucido. Quando il conflitto rischia di esplodere, lui lo raffredda. Porta ordine dove c’è caos, chiarezza dove c’è confusione. È affidabile, costante, coerente. E questo è un grande bene per la coppia.

La sua logica non è assenza di amore. È, al contrario, una forma di cura. È come se dicesse: “Fammi capire, fammi mettere in ordine, così posso proteggere ciò che conta”. Anche spiritualmente, questo stile custodisce una virtù preziosa: la prudenza, la capacità di discernere, di non farsi guidare solo dall’emotività del momento.

Il problema nasce quando la testa diventa l’unico linguaggio possibile. Perché l’amore non vive solo di comprensione, ma anche di condivisione emotiva. E qui emerge la fatica dell’Iper-Razionale. Le emozioni, soprattutto quelle dolorose, lo mettono in difficoltà. Gli sembrano confuse, sproporzionate, ingestibili. Così tende ad analizzarle invece di attraversarle. A spiegarle invece di sentirle. A parlarne come concetti più che come esperienze.

Tu, come coniuge, potresti sentirti solo davanti a questo muro silenzioso. Potresti pensare: “Non ti coinvolgi”, “Non mi senti davvero”, “Ti tieni sempre un passo indietro”. Ma la verità è più profonda e più tenera: l’Iper-Razionale sente molto, spesso più di quanto mostri. Solo che non ha imparato come stare dentro a ciò che sente senza paura.

Spiritualmente assomiglia a Nicodemo: cerca Dio con la mente, fa domande, ragiona, ma fatica ad abbandonarsi. Eppure l’amore — umano e divino — chiede anche fiducia, esposizione, rischio.

Se hai sposato una persona così, il tuo ruolo è delicato. Non sei chiamato a smontare la sua corazza, ma a renderla non più necessaria. Evita di forzarlo con frasi come “Devi sentire di più” o “Sei freddo”. Per lui sono accuse che lo spingono a chiudersi. Aiutalo invece a sentire che può fare piccoli passi emotivi senza essere travolto. Usa parole chiare, concrete. Dagli tempo. Non interpretare la sua calma come disinteresse: spesso è un modo per non perdersi. Valorizza ogni tentativo di apertura, anche minimo. Crea spazi di intimità tranquilli, non drammatici. L’eccesso emotivo lo manda in allarme.

L’Iper-Razionale cresce quando si sente accolto così com’è, mentre impara — lentamente — a scendere dalla testa al cuore. Il suo cammino non è diventare emotivo o impulsivo, ma integrare. Lasciare che il cuore parli senza essere subito corretto dalla mente. Imparare a nominare un’emozione senza spiegarla. A lasciarsi consolare. A pregare non solo pensando Dio, ma sentendosi tenuto da Lui.

È il cammino del Salmo 131: un’anima pacificata, non perché capisce tutto, ma perché si affida. Quando questo accade, l’amore dell’Iper-Razionale diventa una forza straordinaria: stabile, saggia, ma finalmente anche tenera. Non più una testa che protegge il cuore dalla vita, ma una testa che aiuta il cuore a respirare.

Antonio e Luisa

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Capaci per la Sua potenza

Dalla «Lettera a Diognèto» (Cap. 8, 5 – 9, 6; Funk 1, 325-327) […] Dopo aver tutto disposto dentro di sé assieme al Figlio, permise che noi fino al tempo anzidetto rimanessimo in balia d’istinti disordinati e fossimo trascinati fuori della retta via dai piaceri e dalle cupidigie, seguendo il nostro arbitrio. Certamente non si compiaceva dei nostri peccati, ma li sopportava; neppure poteva approvare quel tempo d’iniquità, ma preparava l’era attuale di giustizia, perché, riconoscendoci in quel tempo chiaramente indegni della vita a motivo delle nostre opere, ne diventassimo degni in forza della sua misericordia, e perché, dopo aver mostrato la nostra impossibilità di entrare con le nostre forze nel suo regno, ne diventassimo capaci per la sua potenza. […]

Nell’Ufficio di qualche giorno fa, ci è stato proposto uno stralcio di questa “Lettera a Diogneto”, dal quale noi abbiamo estrapolato solo qualche riga che ci aiuterà nella riflessione odierna.

Non è raro per noi incontrare coppie che ci confidano le proprie debolezze di singoli o di coppia, le proprie incapacità a far decollare il proprio matrimonio e, spesso, ci troviamo spiazzati al primo momento. Quando in una coppia sorgono problemi non bisogna aver paura di andare da qualcuno, poiché questo qualcuno esterno alla coppia è libero da coinvolgimenti affettivi, libero anche da dinamiche interne alla coppia che rendono il suo sguardo sulla situazione più lucido.

Dopo un primo momento spiazzante bisogna prendersi un poco di tempo per analizzare con calma varie questioni. Per gli sposi questo primo momento potrebbe sembrare come una montagna invalicabile, potrebbe spaventare un po’, ma la paura a volte tira brutti scherzi, perciò è necessario astenersi da giudizi affrettati e mettersi in una condizione di ascolto. Essa è una condizione che va oltre il mero udire, e richiede anche l’adesione del cuore.

Di solito noi non cominciamo mai col dispensare consigli e/o tattiche di comunicazione tra i due e/o strategie per far funzionare la coppia, la prima cosa che facciamo è quella di ricordare ai due proprio che sono in due, cioè che sono una coppia, che sono un sacramento vivente, che Dio li ha pensati insieme fin dall’eternità per essere il Suo amore incarnato maschile per lei e femminile per lui.

Cari sposi, il nostro impegno deve essere il massimo possibile, ma da soli non combineremmo niente (cfr. Gv 15.5 : “[…]senza di me non potete far nulla“), ci vuole la potenza salvifica di Dio Amore, la potenza del Santo Spirito che infonde nella nostra umanità maschile e femminile il Suo Amore, ci vuole la Redenzione operata dal Figlio che porta su di sè i nostri peccati e ci trasferisce nel Suo Regno: dopo aver mostrato la nostra impossibilità di entrare con le nostre forze nel suo regno, ne diventassimo capaci per la sua potenza.

Tutto questo non è indolore, però è possibile, con Lui l’impossibile diventa possibile, con la Sua potenza un marito burbero diventa una fonte di tenerezza, una sposa acida diventa amabile. Questi miracoli sono Grazie del Sacramento del Matrimonio che la Madonna non vede l’ora di spandere su noi sposi.

Coraggio! Manca poco al Natale.

Giorgio e Valentina

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Aspettare il Natale quando si è nel dolore

Concludiamo oggi, con questo articolo, la trilogia dedicata all’attesa del 25 dicembre. Lo abbiamo fatto prima con la riflessione “Aspettare il Natale con il coniuge“, poi con “Aspettare il Natale con i figli“. Oggi lo facciamo con la terza tappa: la più difficile ma quella da cui possono nascere i frutti più abbondanti e inaspettati.

Aspettare il Santo Natale quando si è nel dolore è forse una delle prove più grandi della fede. L’Avvento, che per molti è un tempo di gioia, di speranza e di preparativi festosi, per chi vive una sofferenza profonda può apparire come un tempo stonato, in cui le luci del mondo sembrano ferire più che consolare. La malattia, il lutto, la vedovanza, la perdita di un figlio, la precarietà del lavoro, la solitudine: tutte queste ferite rischiano di rendere difficile l’attesa del Natale. Ci si chiede come poter celebrare la nascita di Gesù quando dentro il cuore sembra esserci solo il buio.

Eppure, proprio in queste situazioni di dolore, il senso più vero del Natale si rivela in tutta la sua forza. Cristo non è venuto nel mondo per i sani, i forti o i felici, ma per i poveri, gli ultimi, i sofferenti, coloro che portano un peso che sembra insopportabile. Nasce in una grotta, non in un palazzo; viene alla luce in una famiglia semplice e perseguitata, non tra i privilegiati. L’Emmanuele, il Dio-con-noi, sceglie di condividere fino in fondo la fragilità umana: il freddo, la povertà, l’incomprensione, l’insicurezza. Attendere il Natale nel dolore significa allora ricordare che Dio non è lontano, ma entra proprio nelle nostre ferite, si siede accanto a noi, piange con noi, cammina con noi.

Il lutto o la mancanza di una persona cara rendono particolarmente difficile questo tempo. La sedia vuota a tavola, il silenzio che sostituisce la voce amata, il vuoto che nessun dono potrà colmare: tutto sembra gridare l’assenza. Ma il Natale, vissuto nella fede, annuncia che la morte non ha l’ultima parola. Il Bambino che nasce a Betlemme è lo stesso che, un giorno, morirà e risorgerà per aprire a tutti la vita eterna.

Attendere il Natale è un esercizio di speranza: credere che coloro che ci hanno preceduto non sono perduti, ma vivono già nella luce di Dio, e che la nostra attesa non sarà vana perché un giorno saremo nuovamente insieme. Anche la malattia o la disoccupazione portano con sé un senso di impotenza e di fallimento.

Si ha l’impressione che tutto il mondo festeggi, mentre dentro si è prigionieri della stanchezza o della preoccupazione. In queste situazioni, l’Avvento ci invita a un’attesa umile e vera: non aspettare che le cose si aggiustino per trovare pace, ma accogliere Cristo così come siamo, con le nostre ferite aperte. Dio non ci chiede di essere forti per incontrarci: viene come un Bambino proprio per mostrarci che la sua forza si manifesta nella debolezza. La grotta di Betlemme diventa allora immagine del cuore ferito: povero, spoglio, fragile ma pronto ad accogliere la Vita nuova.

In vedovanza o dopo la perdita di un figlio, il Natale può sembrare insopportabile, perché la gioia familiare appare irrimediabilmente spezzata. Eppure, proprio qui il mistero dell’Incarnazione assume la sua dimensione più consolante: Dio entra nel dramma dell’uomo, non lo osserva da lontano. Guardiamo a Maria stessa, la Madre, conoscerà la spada del dolore che le trapasserà l’anima. Guardiamo a Giuseppe, che porterà nel cuore la fatica di proteggere la sua famiglia nella precarietà. Non c’è lacrima che il Figlio di Dio non abbia in qualche modo condiviso. E la fede ci dice che, nella notte più buia, la luce di Cristo continua a brillare, anche se flebile, come una piccola fiamma che nessuno potrà spegnere.

Aspettare il Natale nel dolore significa allora vivere un’attesa che non è fatta di frenesia o di feste quanto piuttosto di silenzio, di preghiera, di affidamento. È imparare a sostare davanti al presepe con il cuore ferito e dire: Signore, non ho nulla da offrirti se non la mia sofferenza ma Tu sei venuto proprio per questo: per prendere su di Te il peso del mio dolore e trasformarlo in speranza. È riconoscere che la nascita di Gesù non elimina magicamente le nostre croci, piuttosto le illumina con la certezza che non siamo soli.

Il Santo Natale, anche nel dolore, non smette di essere promessa. È l’annuncio che Dio ha scelto di abitare la fragilità, che la notte non è eterna, che la luce vince sempre sulle tenebre. È l’invito ad attendere non con la gioia facile e rumorosa del mondo ma con la speranza silenziosa di chi sa che, anche nel pianto, Dio si fa vicino. Così, quando arriverà la notte santa, anche chi porta dentro una ferita potrà sussurrare con fede: «Ecco, il Signore è venuto non sono più solo».

Fabrizia Perrachon

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Il dolore e il perdono: un amore autentico in Osea

Accusate vostra madre, accusatela, perché lei non è più mia moglie e io non sono più suo marito. Tolga dalla sua faccia i segni delle sue prostituzioni e dal suo petto i segni del suo adulterio… (Os 2,4)

Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. (Os 2,16)

Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, nella fedeltà, e tu conoscerai il Signore. (Os 2,21-22)

La Scrittura non ha paura di mostrare l’amore nel suo punto più fragile. La storia di Osea e Gomer non comincia con parole tenere, ma con un’accusa dura, quasi brutale. C’è rabbia, c’è umiliazione, c’è la ferita aperta dell’infedeltà. Non viene censurata. Non viene spiritualizzata. Viene detta.

Ed è proprio questo a renderla sorprendentemente vera anche oggi. C’è una forma di infedeltà che non fa rumore. Non esplode in uno scandalo, non arriva subito all’adulterio conclamato, ma scava lentamente. È l’infedeltà quotidiana: lo sguardo che si ritrae, la presenza che si spegne, l’altro che smette di essere scelto. Come l’acqua che scorre sotto un ponte, può sembrare innocua, ma alla lunga è capace di far crollare anche i matrimoni più solidi.

Il testo di Osea intercetta questa verità profonda: l’infedeltà non è solo un atto, ma un processo. E quando diventa manifesta, mette la coppia davanti a un bivio che la nostra cultura conosce bene: condannare o chiudere un occhio. Vendicarsi o normalizzare. Tagliare o tollerare.

Osea sceglie una terza via, che è la più faticosa: restare senza negare il dolore.

Dal punto di vista psicologico, Osea è un uomo attraversato da una rabbia autentica. Non la rimuove. Non la maschera di spiritualità. La esprime. In termini di Analisi Transazionale, potremmo dire che il suo Bambino ferito prende voce: chiede giustizia, riconoscimento, riparazione. Sarebbe pericoloso saltare questo passaggio. Un perdono che non attraversa la rabbia è fragile, perché non nasce dalla verità.

Ma Osea non resta lì. Sotto la rabbia, ascolta qualcosa che ancora vive: l’amore. E qui avviene il passaggio decisivo allo Stato dell’Io Adulto. Non perché il dolore sparisca, ma perché l’Adulto permette di non essere governati né dal Genitore Punitivo (“non meriti nulla”) né dal Bambino Vendicativo (“ti farò pagare”). L’Adulto sceglie nella realtà, non nell’impulso.

La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Il deserto, nella vita di coppia, non è una punizione ma uno spazio di verità. È il tempo in cui cadono le illusioni, i copioni relazionali, le complicità superficiali. È il luogo in cui non si può più mentire, né all’altro né a se stessi. Solo lì può riemergere la bellezza originaria del legame.

Il perdono, infatti, non è un atto eroico né una scorciatoia morale. Se fosse dato solo “perché bisogna farlo” o per sentirsi migliori, diventerebbe un gesto forzato, persino superbo. Psicologicamente, sarebbe un perdono contaminato dal bisogno di controllo o dalla paura dell’abbandono.

Il perdono vero è una proposta di futuro. Non cancella il passato, ma dice: la tua colpa non esaurisce chi sei. Per questo non può essere vissuto da soli. Chi ha tradito è chiamato ad accoglierlo non come un lasciapassare, ma come una responsabilità nuova.

Spesso chi ha tradito si sente imperdonabile. Ed è proprio qui che il perdono dell’altro diventa profezia: riapre la possibilità di credere ancora nell’amore. Non ingenuo, non cieco, ma più adulto e più vero.

Osea non racconta una favola. Racconta un amore che rifiuta la scorciatoia. Un amore che non confonde il perdono con la debolezza, né la giustizia con la vendetta. Un amore che sceglie di restare umano, perché solo così può diventare davvero divino.

Antonio e Luisa

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Litigate da adulti o da bambini?

Ci sono conflitti di coppia che non nascono da grandi differenze di visione o da problemi oggettivamente irrisolvibili. Nascono piuttosto da un movimento interiore silenzioso: due adulti che, sotto pressione, smettono di abitare la loro maturità e si incontrano nello Stato dell’Io Bambino. È una dinamica molto più frequente di quanto si pensi e, proprio perché spesso inconsapevole, può diventare profondamente logorante.

Quando entrambi i coniugi restano nel Bambino e scivolano nella competizione, il conflitto cambia natura. Non è più un luogo di confronto, né un’occasione di crescita. Diventa una lotta per affermare il proprio dolore, una ricerca di conferme che passa attraverso la contrapposizione. In quei momenti il problema concreto passa in secondo piano: ciò che conta è non perdere, non cedere, non sentirsi meno dell’altro.

L’Analisi Transazionale ci aiuta a dare un nome a ciò che accade, mentre l’esperienza cristiana del matrimonio ci ricorda che ogni crisi può diventare un passaggio di maturazione, se accolta con verità.

Il Bambino interiore di ognuno, in sé, non è il nemico. Anzi. È la parte della persona in cui abitano le emozioni, i bisogni, la sensibilità, la capacità di affidarsi e di gioire. È anche il luogo delle ferite più antiche. Il problema nasce quando, davanti a una frustrazione o a una delusione, questa parte prende il comando senza il sostegno dello Stato Adulto. La nostra parte adulta è quella che sta nel presente, nel qui ed ora.

Nella vita di coppia capita spesso che un litigio esploda in modo sproporzionato rispetto all’evento che lo ha scatenato. Non perché ciò che è accaduto sia davvero così grave, ma perché sotto la superficie si è attivata una competizione tra gli Stati Bambino. Succede soprattutto quando uno o entrambi si sentono trascurati, non ascoltati, non riconosciuti.
È in questo passaggio che il confronto rischia di trasformarsi in una gara. Quando entrambi restano nel Bambino, la discussione smette di riguardare ciò che è successo e diventa una competizione affettiva: chi soffre di più, chi ha dato di più, chi è stato più ferito. Ognuno protegge il proprio dolore come un territorio da non cedere. Ascoltare l’altro diventa pericoloso, perché viene vissuto come una perdita di posizione.
In quei momenti il coniuge, pur essendo la persona più amata, viene percepito interiormente come un avversario, quasi come un “nemico” da cui difendersi. Ed è proprio qui che le parole di Gesù – «amate i vostri nemici» – smettono di essere un ideale astratto e rivelano tutta la loro concretezza. Non parlano solo dei nemici esterni, ma di quel passaggio interiore in cui l’altro, ferendoci, smette di apparirci come alleato. Amare in quel momento non significa negare il dolore, ma scegliere di non reagire secondo la logica della competizione. Significa interrompere la spirale del Bambino ferito e fare spazio a uno sguardo più adulto, capace di custodire la relazione anche quando l’altro ci appare, per un istante, come chi ci sta togliendo qualcosa.

In questa dinamica l’altro non è più un compagno di cammino, ma un rivale. E la relazione, lentamente, si inaridisce. Eppure, sotto questa competizione, c’è quasi sempre un bisogno semplice e profondissimo: essere visti, essere riconosciuti, essere amati. Un bisogno legittimo, che però il Bambino non sa esprimere in modo diretto. Così, invece di dire “ho bisogno che tu mi ascolti”, accusa. Invece di dire “mi sento fragile”, si irrigidisce. Invece di chiedere vicinanza, crea distanza.

È un paradosso che molte coppie conoscono bene: più si cerca amore nel modo sbagliato, più si ottiene l’effetto opposto. Perché allora è così difficile uscire da questa dinamica? Perché, in quel momento, restare nel Bambino sembra più sicuro. Uscirne significa abbassare le difese, rinunciare ad avere ragione, esporsi al rischio di non essere accolti. Il Bambino preferisce una sofferenza conosciuta a una vulnerabilità nuova. E così la coppia resta bloccata, anche quando entrambi stanno male.

Ma una relazione non può crescere se resta prigioniera di questa logica. Due Bambini che competono non costruiscono intimità: accumulano risentimento. La via d’uscita non passa dalla repressione delle emozioni, ma dall’attivazione dello Stato dell’Io Adulto. L’Adulto non nega ciò che il Bambino sente, ma se ne prende cura. Traduce l’emozione in parola, il bisogno in richiesta, la ferita in dialogo. È la parte capace di fermarsi, di fare un passo indietro, di scegliere.

Nel matrimonio cristiano, questo passaggio è anche un atto spirituale. Significa scegliere la comunione invece della rivendicazione, la mitezza invece della reazione impulsiva. Significa credere che il legame vale più dell’ego.

È importante ricordarlo: basta che uno solo dei due rientri nell’Adulto perché la dinamica cambi. Non è debolezza, ma una forma alta di responsabilità e di leadership affettiva. Il cambiamento vero avviene quando la coppia smette di chiedersi chi ha ragione e inizia a domandarsi che cosa sta succedendo tra loro. È lì che il conflitto smette di essere un campo di battaglia e può diventare, lentamente, un luogo di verità.

Il conflitto Bambino–Bambino non è un segno di fallimento, ma un segnale. Dice che ci sono bisogni non ascoltati e ferite che chiedono parola. Crescere come coppia significa imparare a custodire il proprio Bambino interiore senza lasciargli il volante nei momenti decisivi. Perché l’amore maturo non è quello che non litiga mai, ma quello che, anche nel conflitto, smette di competere e torna a scegliersi, ogni giorno.

Antonio e Luisa

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Riscoprire il Fuoco nel Tuo Matrimonio

Il fuoco ci richiama le fiamme. Fiamme dell’inferno ma anche dello Spirito Santo. Spirito Santo che è Amore. Il fuoco racconta anche l’amore. Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. La riflessione come sempre è tratta dal nostro libro Sposi sacerdoti dell’amore (Tau Editrice).

C’è una parola che attraversa tutta la Scrittura e, se sappiamo ascoltarla, attraversa anche la vita degli sposi. È una parola semplice, concreta, ma potentissima: fuoco. Prima di concludere questo percorso che ci ha accompagnati nella bellezza – e nella fatica – dell’amore sponsale, è necessario fermarsi qui. Non per aggiungere concetti, ma per lasciarci interrogare nel profondo.

Nella Bibbia il fuoco non è mai neutro. Non è solo un elemento naturale. È segno di una Presenza viva. Nel libro dei Numeri, un fuoco illumina l’Arca durante la notte: Dio non dorme, veglia, guida anche quando tutto intorno è buio. A Mosè Dio si rivela in un roveto che arde senza consumarsi: un fuoco che non distrugge, ma chiama; che non annienta, ma custodisce. È un Dio che si manifesta senza imporsi, che attrae senza violentare. Nel Vangelo, però, Gesù va ancora oltre e pronuncia parole che disturbano: Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già acceso! (Lc 12,49).

Che cosa desidera davvero Gesù? Non il conflitto fine a se stesso, ma un amore rimesso al centro. È come se dicesse: sono venuto a riaccendere ciò che si è spento, a sciogliere ciò che si è irrigidito, a ridare vita a cuori che hanno imparato a sopravvivere invece che ad amare. Il fuoco di cui parla Gesù è il desiderio di Dio di tornare ad abitare il cuore dell’uomo, non come idea, ma come esperienza viva.

La domanda allora diventa inevitabile: questo fuoco arde anche in noi? Si sente nella nostra vita? Nel nostro matrimonio? Illumina, scalda, mette in movimento? Oppure è diventato una brace tiepida, appena percettibile, che non disturba e non riscalda più nessuno?

Nel matrimonio questa domanda è decisiva. Perché l’amore sponsale non è chiamato solo a funzionare, ma a testimoniare. I figli, le persone che vivono accanto a noi, chi incrocia la nostra quotidianità: guardandoci, possono intuire qualcosa di come Dio ama? O vedono solo due persone stanche che resistono, che si adattano, che fanno il minimo indispensabile?

Un fuoco che non scalda e non illumina non è davvero fuoco. E qui la Parola di Dio ci colpisce con una forza disarmante attraverso il messaggio alla Chiesa di Laodicea, nell’Apocalisse: Tu non sei né freddo né caldo… poiché sei tiepido, sto per vomitarti dalla mia bocca (Ap 3,15-16).

La tiepidezza non è il peccato clamoroso. È molto più sottile. È l’abitudine, il “si è sempre fatto così”, il vivere accanto invece che insieme. È quando l’amore non ferisce più, ma nemmeno guarisce. È quando non si litiga più, ma neppure ci si cerca davvero.

La Chiesa di Laodicea assomiglia terribilmente alle nostre chiese domestiche. Alla casa di Antonio e Luisa. Alla tua casa. Ognuno può mettere il proprio nome. È lì che Gesù dice: Ecco, sto alla porta e busso. Non sfonda, non obbliga. Bussa. Attende.

Alla fine della vita non saremo giudicati sull’efficienza, sul successo o sulla perfezione. Saremo giudicati sull’amore. Possiamo immaginare quelle domande che bruciano più di qualsiasi accusa: Hai amato tua moglie? Sei stato fuoco per lei o solo presenza tiepida? Hai messo altro prima della tua vocazione di sposo? Hai capito che da solo eri troppo povero per amare davvero e che avevi bisogno della mia grazia? Ti sei lasciato educare, purificare, trasformare?

Sono domande che non servono a colpevolizzare, ma a svegliarci ora. Perché se il fuoco dello Spirito non viene custodito, alimentato, scelto ogni giorno, il matrimonio entra lentamente in agonia. Non muore all’improvviso: si spegne per mancanza di ossigeno, di verità, di dono.

Questo fuoco è stato incarnato in modo luminoso nella vita di Chiara Corbella Petrillo, quando diceva: «L’amore ti consuma ma è bello morire consumati come una candela che si spegne solo quando ha raggiunto il suo scopo».

Qui l’immagine cambia: non più il roveto che non si consuma, ma la candela che sì, si consuma. E proprio così compie la sua missione. Una candela nuova, perfetta, intatta, è bellissima. Ma è spenta. Non scalda, non illumina. Una candela accesa invece perde la sua forma, cola, si accorcia, si segna. Eppure diventa viva. Diventa utile. Diventa bella.

Sapete quando una sposa o uno sposo sono davvero belli? Non quando sono impeccabili, ma quando sono stanchi e ancora capaci di tenerezza. Quando la giornata li ha consumati eppure non ha indurito il cuore. Papa Francesco lo ha detto con chiarezza: preferisco famiglie con il volto stanco per i sacrifici piuttosto che volti imbellettati incapaci di compassione.

La bellezza autentica non teme il tempo che passa, le rughe, i segni lasciati dalla vita. È la bellezza di chi si è lasciato consumare dall’amore. Una luce che non viene solo dalla persona, ma è riflesso della luce di Dio. Essere fuoco significa questo: consumarsi per amore. Per il coniuge, per i figli, per chi incontriamo. Solo così il matrimonio diventa profezia. Solo così racconta Dio. In un mondo stanco, disilluso e spesso tiepido, una coppia che arde davvero può ancora illuminare la strada e ridare speranza.

Antonio e Luisa

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La gioia di essere profeti

Cari sposi, la medicina è concorde nell’affermare che la risata ha un potere curativo sul corpo perché stimola la produzione di endorfine, serotonina e dopamina, ovvero i neurotrasmettitori associati al piacere, alla motivazione e al benessere.

Oggi la Liturgia ci invita alla gioia, che è ben di più di una semplice risata ma in un certo senso la comprende. La Chiesa, nella sua saggia pedagogia, ci aiuta prepararci ancora meglio al Natale con un’attenuazione del carattere penitenziale dell’Avvento, che nei primi secoli aveva un’impostazione più marcatamente ascetica. Essa segnala che la celebrazione del Natale è ormai vicina e invita a una gioia anticipata, pur nel contesto dell’attesa, soprattutto dopo il tono più severo della domenica scorsa.

Da un punto di vista scritturistico dove emerge la gioia? Non pare che né Giovanni il Battista, né Giacomo invitino esplicitamente ad essa. La gioia è la conseguenza di un’attesa spasmodica che viene esaudita. Provate a pensare cosa avete sperimentato arrivando al termine di uno snervante periodo di studi, oppure alla conclusione dei lavori di costruzione della propria casa, o dell’esito positivo delle analisi dopo anni di cure…

Giovanni Battista è l’ultimo di una serie numerosa di profeti – dai 16 canonici ai 27 includendo quelli che non hanno lasciato scritti – spalmati in un tempo di quasi 1000 anni di storia. Che enorme sospensione vi era in Israele nei confronti del Messia! E Giovanni lo vede, lo tocca, ci può parlare! Da qui la gioia grande: colui di cui hanno parlato da Samuele in poi, passando per Ezechiele, Geremia, Naum, è finalmente tra noi.

È in definitiva la gioia di una Presenza che però in apparenza non è abbagliante, non suscita grande scalpore, passa quasi inosservata. È lo stile di Dio, che vuole agire in medias res, senza dare nell’occhio se non di chi ha uno sguardo di fede.

Per questo, la gioia dell’attesa che celebriamo oggi, è anche la gioia di voi sposi nel rendervi conto di vivere in Cristo per una singolare grazia che avete ricevuto nel matrimonio. Anche voi sposi infatti siete profeti di Cristo. Lo afferma con chiarezza Giovanni Paolo II:

«I testi dei Profeti hanno grande importanza per comprendere il matrimonio come alleanza di persone (ad immagine dell’alleanza di Jahvè con Israele) e, in particolare, per comprendere l’alleanza sacramentale dell’uomo e della donna nella dimensione del segno. Il “linguaggio del corpo” entra – come già in precedenza è stato considerato – nella struttura integrale del segno sacramentale, il cui precipuo soggetto è l’uomo, maschio e femmina”» (Udienza 19 gennaio 1983).

Cioè, mentre i profeti prima di Cristo parlavano soprattutto per annunciare la venuta di Cristo, voi sposi con il vostro amore, con i vostri corpi, con la vostra vita annunciate che Gesù è in mezzo a noi. Si tratta di un dono grande da ricordare ogni giorno e il Natale a sua volta ve lo rammenta, che Gesù si è fatto carne in mezzo a voi.

ANTONIO E LUISA

Essere luce del mondo e profeti dell’amore non significa essere perfetti, ma autentici. Lo siamo proprio nelle nostre fatiche, fragilità e ferite. Una famiglia senza difetti non sarebbe credibile né d’aiuto: sarebbe distante dalla vita reale. La vera testimonianza nasce da come viviamo le relazioni, da come trasformiamo le fragilità in accoglienza, il limite in perdono, la fatica in dono d’amore. Proprio così diventiamo sale della terra. Molte coppie sono luce per altre senza saperlo, convinte di non essere abbastanza. Spesso guardiamo a ciò che manca, dimenticando il valore e la forza che già possediamo.

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Santa Lucia: una donna integra e libera

Oggi la Chiesa fa memoria di Santa Lucia, giovane martire di Siracusa, amatissima soprattutto dai bambini. Per me – Antonio – questo giorno ha un significato ancora più personale: è anche il giorno del mio compleanno. E forse è per questo che, fin da piccolo, Lucia ha abitato la mia immaginazione con la sua luce limpida e ferma. Ma più cresco, più mi accorgo che la sua storia custodisce una verità essenziale della nostra fede: l’importanza del corpo.

In un mondo che spiritualizza tutto o, al contrario, riduce tutto a biologia, Lucia ricorda che il cristianesimo è una fede incarnata. La novità più destabilizzante di Cristo non è un’idea, ma un fatto: Dio si fa carne. Non appare come spirito evanescente o energia cosmica, ma come un uomo con un volto, una voce, delle mani, delle lacrime. Questa non è un’aggiunta secondaria: è la rivoluzione. Se Dio ha assunto un corpo, allora il corpo non è più un “guscio”, ma parte integrante della persona.

La cultura greco-latina tendeva a separare nettamente anima e corpo; Cristo invece ricompone, tiene insieme. La Bibbia già lo suggeriva: l’uomo nasce dal soffio e dalla polvere, dal cielo e dalla terra. E Gesù lo mostra continuamente: ama attraverso il corpo. Con lo sguardo che rialza Pietro, con la mano che tocca il lebbroso, con le lacrime sulla tomba di Lazzaro, con il pane spezzato nell’Ultima Cena. Non c’è gesto di Gesù che non passi attraverso la carne. Persino il tradimento avviene con un bacio. E la croce, il trono dell’amore, è un’offerta totale del corpo e del sangue.

La scelta di Lucia: una logica d’amore che il mondo non capiva

Dentro questa verità si comprende il coraggio radicale di Lucia. Lei desiderava appartenere totalmente a Cristo, e sapeva che questa donazione non poteva avvenire “solo” nell’anima: doveva passare dal corpo. Per questo rifiutò con fermezza un matrimonio imposto, pur conoscendo il rischio della persecuzione. Non fu incoscienza, ma lucidità. I suoi contemporanei probabilmente la giudicarono irragionevole: Perché non sposarsi e poi dedicarsi comunque a Dio? Lucia, però, aveva intuito una cosa che la fede cristiana insegna da sempre: non si può donare il cuore senza donare il corpo. La persona è una unità.

La sua verginità non fu disprezzo del matrimonio, ma risposta a una chiamata unica. La vocazione, in fondo, funziona così: ti chiede tutto. Non perché Dio sia esigente, ma perché l’amore vero non tollera le mezze misure. Chi si dona a Cristo nella verginità dice: “Il mio corpo è per Te”. Chi si dona nel matrimonio dice: “Il mio corpo è per te, sposo o sposa, segno vivo dell’amore di Dio”.

La lettura psicologica: il corpo come luogo della verità

Anche l’Analisi Transazionale ci aiuta a capire questo punto. Il Corpo, nella TA, è spesso il luogo in cui si rivelano i nostri “copioni”: tensioni, adattamenti, paure, gesti automatici. Il Bambino Adattato può usare il corpo per compiacere; il Genitore Normativo per controllare; l’Adulto, invece, lo riconosce come luogo della relazione vera, libera, responsabile.

Lucia è un esempio di Adulto integro: riconosce ciò che sente, decide con coerenza, non si lascia manipolare né dalle pressioni sociali né dalle paure interiori. Il suo corpo diventa l’espressione più limpida della sua libertà. E questo vale anche per noi sposi: nella vita matrimoniale il corpo può diventare luogo di fusione immatura, di ricatto affettivo, o di donazione adulta. Dipende da quale parte di noi sceglie di guidare.

La vocazione degli sposi: amare Dio dentro una carne che parla

Nella mia storia personale – come marito di Luisa – ho capito una cosa decisiva: posso amare mia moglie con tutta l’anima solo se la amo con tutto il corpo. Non esiste un corpo “neutro”, come se l’intimità fosse un’appendice. Nel matrimonio, il corpo è linguaggio sacramentale: dice ciò che le parole non possono dire. Dice: “Io sono tuo. Totalmente, liberamente, fedelmente”.

Se il mio corpo non fosse suo, il mio cuore non riuscirebbe mai a essere realmente suo. È la logica dell’alleanza biblica: “Saranno una sola carne” non è poesia, è teologia. È morale cattolica allo stato puro. La fedeltà non è un limite: è il grembo in cui nasce la libertà dell’amore.

Il corpo come tempio: la lezione finale di Lucia

Viviamo in un mondo che spesso fa due operazioni opposte: idolatra il corpo o lo disprezza. Lo usa come merce, lo consuma, lo espone, lo baratta. Santa Lucia ci ricorda invece la verità più semplice e più alta: il corpo è sacro perché è abitato dallo Spirito Santo.

E proprio perché è sacro, va custodito. Lucia preferì sacrificare la propria vita piuttosto che consegnare il corpo a un amore non autentico. Non fu fanatismo, ma intelligenza spirituale: ciò che è prezioso si protegge. La castità cristiana nasce da qui: non dalla paura, ma dalla coscienza del valore. E allora capisco ancora meglio la grande lezione di Lucia: il corpo è talmente prezioso che merita di essere donato una sola volta, totalmente, definitivamente, a chi abbiamo promesso amore eterno – nel matrimonio o nella verginità consacrata. Questo è l’amore maturo. Questo è l’amore che illumina. Questo è l’amore che salva

Antonio e Luisa

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Il controllante: la roccia che non può sbagliare

Oggi entriamo nel secondo stile di adattamento. Dopo il Compiacente, incontriamo il Controllante. A differenza di quanto il nome potrebbe far pensare, il Controllante possiede moltissime qualità preziose. Il punto decisivo, però, è che queste risorse siano orientate dalla verità dell’amore e non governate dalla paura dell’abbandono. Il Controllante pensa: Devo essere impeccabile e forte per valere. Sostiene tutto. Ma sotto la corazza vive la paura di non bastare. Clicca qui per leggere quanto già pubblicato.

Chi vive accanto a un coniuge controllante lo sa: c’è una forza dentro questa persona che organizza, struttura, dirige, tiene insieme. Una forza che, nei momenti di confusione, regge la casa, prende decisioni, non molla. E questo, nel matrimonio, è un dono vero. Perché la vita familiare non è fatta solo di emozioni: ha bisogno anche di concretezza, di responsabilità, di qualcuno che non scappi quando tutto diventa pesante.

L’Analisi Transazionale chiama questo stile adattamento “Persecutor” o “Controllante”. Non è un’etichetta morale, non indica un cattivo carattere. Descrive semplicemente un modo di reagire allo stress: governando la realtà, riducendo l’imprevisto, tenendo tutto sotto una precisione severa che dà sicurezza.

Dietro questa modalità, quasi sempre, c’è una storia. Spesso il Controllante è stato un bambino che ha imparato presto che l’amore e l’approvazione passavano dalla prestazione. “Sii bravo”, “Non sbagliare”, “Conta su te stesso”, “Non deludere”. Messaggi che, nel tempo, diventano una seconda pelle. Così la persona cresce con una convinzione silenziosa: per essere degna devo essere impeccabile. Per sentirmi al sicuro devo tenere tutto sotto controllo.

E questo, nella vita di coppia, si traduce in un partner affidabile, preciso, responsabile. Uno che difficilmente lascia le cose al caso. Uno che spesso “regge” quando l’altro vacilla. Ma anche uno che può faticare con la spontaneità, con la leggerezza, con la vulnerabilità. La sua corazza è l’efficienza. Finché controllo, non ho bisogno di sentire la paura.

È importante che tu, che gli stai accanto, non smarrisca mai questo sguardo: sotto la rigidità c’è quasi sempre una ferita. Dietro l’inflessibilità, una fragilità mai autorizzata a mostrarsi. Dietro la durezza, un cuore che teme il giudizio e il fallimento.

La luce del Controllante, nella coppia, è grande. È la stabilità, la direzione, la capacità di portare avanti le cose anche quando costano. È la forza di chi non scappa dalle responsabilità. C’è qualcosa di profondamente evangelico in questa postura: ricorda Giuseppe, l’uomo giusto che protegge, che agisce, che regge il peso delle scelte senza clamore. È una forza preziosa, anche sul piano spirituale: dice fedeltà, costanza, senso del dovere.

Ma ogni dono, se non viene abitato dalla grazia, può diventare una trappola. Quando la paura prende il posto della fiducia, la forza si irrigidisce. E allora il controllo diventa eccessivo, la precisione diventa perfezionismo, la determinazione diventa inflessibilità. Il partner controllante può iniziare a correggere troppo, a notare prima gli errori che i passi avanti, a faticare a lasciare spazio. Può sembrare freddo, distante emotivamente. Può vivere le emozioni come una debolezza da reprimere. E spesso giudica se stesso con una durezza che poi, inevitabilmente, ricade anche sulla relazione.

Tutto questo non nasce dall’arroganza. Nasce dalla paura. Una paura antica, profonda, spesso mai nominata. Spiritualmente, il volto del Controllante assomiglia molto a quello di Marta: una donna buona, generosa, forte, ma così affannata dal fare da smarrire, per un attimo, la possibilità di lasciarsi amare. “Marta, Marta…”, le dice Gesù. Non per rimproverarla, ma per invitarla a un riposo più profondo. Anche il Controllante ha bisogno, prima o poi, di sedersi. Di deporre le armi. Di non dover dimostrare continuamente di essere all’altezza.

Nel cuore del Controllante c’è un desiderio grande di essere amato, ma anche il timore che, se si mostrasse fragile, potrebbe perdere valore. Vuole essere visto, ma mostra soprattutto la parte forte. Vuole essere accolto, ma teme che la sua debolezza diventi un varco per essere ferito. Per questo costruisce strutture, regole, confini rigidi. Si protegge governando.

Ma l’intimità vera nasce solo dove c’è spazio per la fragilità. E Dio stesso entra sempre dalle crepe. Il Controllante lo intuisce, ma lo teme: affidarsi è troppo rischioso. Eppure, senza questo abbandono, non può esserci una comunione piena né con Dio né con te.

Se tu vivi accanto a un partner così, il tuo ruolo è delicato e prezioso. Puoi diventare, senza forzare, un luogo di libertà. Per chi ha sposato un Controllante, la prima vera sfida è non entrare in una lotta di potere. Inutile cercare di “vincerlo” sul suo stesso terreno: il controllo. Serve invece fermezza unita a mitezza. È importante mettere confini chiari, senza accusare, ma anche senza sottomettersi. Aiuta molto riconoscere e valorizzare apertamente il suo impegno, così da non fargli sentire che deve meritarsi l’amore con la prestazione. Allo stesso tempo, è sano non delegargli tutto: condividere le responsabilità è un modo concreto per dirgli che non è solo. Piccoli gesti di fiducia, scelte fatte insieme, spazi in cui anche l’errore è consentito, aiutano lentamente il Controllante a rilassare la presa. Non perché smetta di essere forte, ma perché impari a non dover essere forte da solo.

Crea piccoli spazi di verità, dove possa abbassare la guardia senza sentirsi smascherato. Mostra, con la vita, che essere imperfetti non distrugge il legame. Ricordagli, con gesti più che con discorsi, che la grazia vale più della prestazione.

Il cammino del Controllante è un passaggio dalla perfezione alla fiducia, dal controllo alla comunione, dal fare al lasciarsi amare. Quando scopre che può essere fragile senza perdere valore, quando osa chiedere aiuto, quando accetta che non tutto dipende da lui, allora nasce una nuova qualità dell’amore. Un amore meno rigido, più umile, più reciproco. Un amore che non controlla per paura, ma guida con mitezza.

Aspettare il Natale con i figli

Aspettare il Natale con i figli è una delle esperienze più intime e feconde per una famiglia cristiana. Non si tratta solo di accompagnare bambini e ragazzi nella gioia dei canti, delle luci e dei doni, ma di insegnare loro, passo dopo passo, che dietro a quel mistero di festa vi è la presenza viva di Dio che si fa carne e viene ad abitare in mezzo a noi. È un compito educativo e spirituale che impegna profondamente i genitori, chiamati ad essere i primi testimoni della fede. In questo senso, l’Avvento non è soltanto un tempo liturgico della Chiesa quanto piuttosto una vera scuola di vita domestica, in cui i piccoli imparano a conoscere il volto di Cristo attraverso i gesti semplici e concreti vissuti in casa.

Attendere il Santo Natale con i figli significa anzitutto trasmettere loro il senso dell’attesa, che è così estraneo alla cultura dell’immediatezza. Oggi i giovani, e finanche i giovanissimi, sono spesso abituati a ottenere tutto subito, a colmare ogni desiderio con un clic o con un regalo anticipato. Ma l’Avvento educa al contrario: insegna che la gioia più vera matura lentamente, che il cuore si prepara con piccoli passi, che il desiderio stesso è un dono perché ci apre all’accoglienza di Qualcuno che viene. Ogni candela accesa della corona d’Avvento diventa allora per i figli una lezione silenziosa: la luce cresce man mano, come cresce l’attesa nel cuore, fino a esplodere nella Notte Santa. Non per niente, in spagnolo si chiama “Noche buena”, la notte buona.

La famiglia cristiana, in questo tempo, è chiamata a fare della propria casa un luogo di preparazione spirituale. Non bastano le decorazioni e l’albero addobbato se manca l’anima della festa ma, soprattutto, la consapevolezza del suo protagonista. Pregare insieme, leggere i racconti evangelici dell’infanzia di Gesù, recitare il Rosario – magari in forma semplice – costruire il presepe passo dopo passo, aggiungendo ogni giorno un dettaglio, sono gesti che insegnano ai figli che il Natale non è favola o mito ma il mistero centrale della nostra fede. Maria e Giuseppe, con il loro viaggio verso Betlemme, diventano figure di riferimento: genitori che, con fiducia, accolgono la volontà di Dio e conducono il loro Figlio alla vita.

Aspettare il Natale con i figli significa anche educarli all’amore concreto. I bambini possono essere aiutati a comprendere che Gesù nasce nella povertà, che viene come dono gratuito, che sceglie la semplicità e non lo sfarzo. Questo può tradursi in piccoli gesti quotidiani: rinunciare a qualcosa per aiutare chi è nel bisogno, preparare insieme un pacco dono per una famiglia povera, visitare un anziano solo o un malato, dire una preghiera speciale per chi soffre. Così i figli scoprono che la carità non è un optional ma la via per accogliere davvero il Bambino Gesù.

Il Natale, vissuto così, diventa un’esperienza di comunione. I bambini non sono solo destinatari passivi di doni e sorprese ma protagonisti attivi della preparazione, custodi di un’attesa che coinvolge tutta la famiglia. I genitori, con pazienza e amore, diventano come pastori che guidano i piccoli verso la grotta di Betlemme, aiutandoli a comprendere che in quel Bambino si manifesta l’amore eterno di Dio. Anche la liturgia, celebrata insieme nella comunità parrocchiale, diventa un momento centrale: portare i figli alla Messa di Natale significa introdurli nel cuore stesso del mistero, mostrando loro che la vera festa non è attorno all’albero ma davanti all’altare, dove Cristo continua a nascere per noi nell’Eucaristia.

Infine, attendere il Natale con i figli è un’occasione per i genitori di riscoprire la loro stessa fede. I bambini, con la loro spontaneità e il loro stupore, aiutano gli adulti a ritornare all’essenziale, a guardare con occhi nuovi il presepe, a riconoscere la grandezza nascosta nella semplicità. La famiglia, in questo cammino, diventa davvero una piccola Chiesa domestica: luogo in cui la Parola si fa carne non solo nel ricordo liturgico bensì nella vita quotidiana, nei gesti d’amore che uniscono genitori e figli.

Così, quando giunge la notte di Natale e il Bambino di Betlemme si dona ancora una volta al mondo, i figli non saranno solo spettatori di una tradizione ma autenticamente partecipi di un mistero. Saranno pronti a capire che quel piccolo neonato è il Dio che salva, Colui che viene a portare pace, gioia e luce. E i genitori, vedendo brillare nei loro occhi lo stupore della fede, sapranno che l’attesa condivisa ha portato frutto: Cristo è nato davvero non solo nella grotta ma nel cuore della loro famiglia.

Fabrizia Perrachon

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E anche quando sembra che tutto sia finito, Dio sta nascendo

Il Natale ci sorprende sempre, anche quando pensiamo di averlo già capito. Torna ogni anno con la forza di un avvenimento che non può essere abitudinario, perché ci mette davanti all’Incarnazione, al Dio che entra nella storia con la fragilità di un bambino e con l’umiltà di chi sceglie di non imporsi.

Ma il Natale, se lo lasciamo parlare, non ci chiede soltanto di contemplare una nascita, ci costringe a volgere lo sguardo anche al fine, al compimento, alla direzione ultima della nostra vita. Non basta chiedersi quando è nato Gesù, occorre chiedersi perché è nato e per chi è nato; e, di riflesso, occorre domandarsi a cosa siamo chiamati noi, quale fine ci attende e verso Chi siamo invitati a camminare. Fra l’altro il Natale è anche molto vicino alla fine dell’anno, quindi in un tempo di bilancio e riepilogo della nostra vita.

Il presepe non è soltanto la rappresentazione di un inizio, è la rivelazione di un percorso. Quel Bambino che riposa nella mangiatoia porta già con sé il segno della croce: non perché il Natale sia triste, ma perché la luce che sfolgora nella notte di Betlemme è la stessa luce che illuminerà il calvario (infatti, i re magi porteranno anche la mirra che veniva utilizzata per la sepoltura).

Nel Natale contempliamo la dolcezza di Dio che si fa vicino, ma non possiamo ignorare che quella vicinanza è venuta per condurci verso la Pasqua, verso una vita che trova senso solo se orientata a ciò che non finisce.

Ed è proprio dentro questo movimento tra inizio e fine che si colloca anche l’esperienza di chi vive la ferita della separazione con fedeltà. Il Natale è la festa della famiglia anche se il coniuge se n’è andato? Assolutamente sì! Perché la mancanza della moglie o del marito richiama la Presenza.

La famiglia, agli occhi di Dio, non è quella perfetta, ma un vincolo inciso nella carne e nello spirito, una chiamata che non viene cancellata dalle fragilità umane. I separati fedeli, con la mancanza del coniuge accanto a loro, indicano a Chi bisogna guardare: è un’assenza che richiama la Presenza. Non una ferita che paralizza, ma un varco, una feritoia attraverso cui passa una luce diversa.

La mancanza dell’altro non diventa negazione dell’amore, ma suo compimento in una forma diversa, non più rivolto prevalentemente verso una persona, ma verso tutti. Certo, il coniuge che manca pesa molto, come negarlo, ma l’amore non cessa e si trasforma in una fedeltà che non si appoggia solo sulle forze umane, bensì su un legame che trova radice in Dio stesso. In questo, essi vivono in modo tutto particolare ciò che il Natale insegna a ogni cristiano: Dio viene anche dove non c’è spazio, anche dove sembra tutto chiuso, anche dove la storia sembra essersi spezzata.

Il Natale ci chiede di guardare con verità la nostra vita e di riconoscere che ciò che vediamo non è tutto. Ci sono aspetti che ci sfuggono, promesse che ancora non comprendiamo, dolori che faticano a trovare un significato: ma se contemplato con fede, il Natale ci ricorda che l’inizio illumina il fine e che il fine dà senso all’inizio. La nascita di Cristo non elimina il dolore, ma lo attraversa, non cancella le mancanze, ma le trasfigura, non evita la croce, ma la prende su di sé.

E proprio per questo ci rivela che anche una famiglia ferita resta famiglia, anche una tavola incompleta resta luogo santo. La loro esperienza ci ricorda che fede e fedeltà non sono virtù astratte, ma scelte concrete, spesso faticose, che trovano senso solo se orientate a un Amore più grande, che non delude e non tradisce. Nel loro custodire la promessa nuziale – una promessa che per molti appare “interrotta”, “incompiuta”, “impossibile” – essi mostrano una via di speranza che non dipende dagli eventi, ma dal cuore con cui si donano. E così, anche nella notte, possono diventare una piccola Betlemme: un luogo dove Dio può nascere ancora.

Davanti alla mangiatoia, in silenzio, comprendiamo che il vero dramma dell’uomo non è ciò che gli manca, ma ciò che non desidera più: ciò che veramente salva è la Presenza di Dio e tutto nella vita, anche ciò che ferisce, può diventare luogo d’incontro con Lui, se lo lasciamo entrare.

Il Natale allora ci educa a guardare avanti, a non temere ciò che verrà, a vivere il tempo non come una minaccia, ma come un dono, a lasciarci trasformare da quel Bambino che ha scelto di abitare la nostra fragilità per condurci alla pienezza. Non si nasce per restare nella culla, si nasce per camminare verso il fine: il fine è l’abbraccio del Padre, la comunione che non finisce, la gioia che nessuno potrà togliere.

Così, contemplando il Natale, possiamo capire qualcosa in più della nostra vita: che ogni passo, anche il più faticoso, può portarci verso la luce, che ogni ferita può diventare luogo di rivelazione, che ogni mancanza può trasformarsi in attesa e che proprio quando sembra che qualcosa sia finito, in realtà la Presenza sta nascendo.

Ettore Leandri (Presidente Fraternità Sposi per Sempre)

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Una promessa con una premessa

Dal «Commento sui salmi» di sant’Agostino, vescovo ​(Sal 109, 1-3; CCL 40, 1601-1603) ​Dio stabilì un tempo per le sue promesse e un tempo per il compimento di esse. Dai profeti fino a Giovanni Battista fu il tempo delle promesse; da Giovanni Battista fino alla fine dei tempi è il tempo del loro compimento. Fedele è Dio, che si fece nostro debitore non perché abbia ricevuto qualcosa da noi, ma perché ci ha promesso cose davvero grandissime. Pareva poco la promessa: Egli volle vincolarsi anche con un patto scritto, come obbligandosi con noi con la cambiale delle sue promesse, perché, quando cominciasse a pagare ciò che aveva promesso, noi potessimo verificare l’ordine dei pagamenti. Dunque il tempo dei profeti era di predizione delle promesse. […]. Ma era poco per Dio fare del suo Figlio colui che indica la strada: rese lui stesso via, perché tu camminassi guidato da lui sul suo stesso cammino.

Sovente troviamo nell’Ufficio testi di sant’Agostino e, come sempre, ci illuminano con la sapienza ed insieme la semplicità con cui sono esposte le verità della nostra fede divina, e sembra proprio che per santi di questo calibro risulti assai semplice rendere fruibile ai comuni fedeli la lettura di così alte intuizioni teologiche.

Il fulcro della nostra riflessione di oggi è sul tema della promessa di Dio, ovviamente Agostino si concentra sulla promessa del tanto atteso Messia, e la Chiesa non può che aiutarci nell’Avvento con letture di questo genere, ma noi vogliamo ricordare altre promesse legate alla seconda parte del testo che abbiamo riportato.

La promessa a cui ci riferiamo è quella che riguarda il sacramento del Matrimonio, ma non è quella che i due fidanzati si scambiano diventando così neosposi, insomma non è quella che si legge in chiesa, non è la formula del consenso anche se in realtà parte da lì. Il consenso infatti ad un certo punto recita così : “con la Grazia di Cristo, prometto di…”, come a dire che io, uomo o donna, prometto sì ma con la Grazia di Cristo, cioè non voglio essere da solo o da sola in questa promessa, non sarò l’unico attore di questa promessa, non voglio tutto sulle mie spalle, non è solo una promessa umana, ma una promessa con una premessa che è la Grazia di Cristo.

Se proviamo a dirla col suo significato contrario si capisce molto meglio: senza la Grazia di Cristo non voglio promettere... gli sposi sacramentati quindi non si arrischiano a promettere qualcosa che sanno benissimo di non riuscire a mantenere con le sole forze umane.

E qual è dunque la promessa di Dio? La grazia sacramentale, cioè la promessa di aiutare gli sposi con ogni mezzo necessario per vivere la loro condizione di sposi. Gli sposi sacramentati hanno la sicurezza di ricevere da parte del Signore tutti gli aiuti per affrontare le varie prove che la loro condizione di vita necessita, in ogni ambito ed in ogni situazione storica. Cari sposi, abbiamo un’assicurazione sulla vita nel vero senso della parola, coraggio!

Giorgio e Valentina

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Nulla vale più dell’amore

Siamo ormai alla fine del Cantico. Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. La riflessione come sempre è tratta dal nostro libro Sposi sacerdoti dell’amore (Tau Editrice).

L’amata: Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne avrebbe che disprezzo.

Sono parole durissime. Parole che non lasciano sconti. Il Cantico dei Cantici va dritto al centro della questione: l’amore non si compra. Mai. Con nulla. Neppure con tutto.

Questo versetto dialoga in modo sorprendente con l’Inno alla carità di san Paolo: «E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per essere bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova» (1Cor 13,3). È come se la Scrittura, dall’Antico al Nuovo Testamento, ci dicesse la stessa cosa con parole diverse: puoi avere tutto, puoi anche perdere tutto, ma se non ami davvero non hai nulla.

Se credo che l’amore possa essere equiparato alle ricchezze materiali, allora non ho capito né la vita né me stesso. Non posso comprare neppure un grammo d’amore con tutte le ricchezze del mondo. L’amore sta su un altro piano. È realtà eterna, perché viene da Dio. «Dio è amore» (1Gv 4,8). Tutto il resto passa.

I beni materiali, quando diventano un fine, creano l’illusione di riempire il vuoto che portiamo dentro. Ma qualcosa di finito non potrà mai colmare un desiderio di infinito. È una legge dell’anima. Possiamo riempire le giornate, non il cuore. Possiamo saziare i sensi, non il desiderio profondo di essere amati per davvero.

Per questo questo versetto del Cantico non parla solo ai ricchi. Parla a tutti. Tutti abbiamo le nostre “ricchezze”. Non sono sempre lingotti d’oro. A volte sono molto più piccole e molto più pericolose: la carriera, l’immagine, il successo, l’indipendenza, il tempo per noi, la partita di calcetto, le uscite con gli amici. Possono persino essere cose buone: un servizio in parrocchia, un gruppo di preghiera, un impegno ecclesiale. Ma quando diventano un alibi per fuggire dalla relazione che Dio ci ha affidato, allora smettono di essere un dono e diventano una fuga.

L’amore di Dio va cercato prima in casa. Prima nel volto della moglie, del marito, dei figli. Poi fuori. Altrimenti rischiamo una forma sottile di spiritualità disincarnata: cerchiamo Dio ovunque tranne lì dove Lui ci ha già messi. È una tentazione antica: cercare il sacro per non affrontare il concreto.

Il Cantico è spietato: alla fine, di tutte queste “ricchezze”, non ne avremo che disprezzo. Non perché siano cattive in sé, ma perché non possono reggere il confronto con ciò che conta davvero.

Questo versetto ci invita a un cambio di logica: dalla logica del possesso alla logica del dono. L’amore, se non è messo al primo posto, non è amore. Diventa uno strumento tra gli altri per cercare la nostra soddisfazione. E allora la relazione sponsale finisce sullo stesso piano della carriera, del tempo libero, degli interessi personali. Ma un amore così, prima o poi, non regge la fatica. Quando il costo supera il beneficio, si scappa. E la separazione diventa una conseguenza “logica”. Ma è davvero amore questo?

Anche io, lo dico con molta verità, sono partito male con Luisa. Avevo un desiderio sincero di vivere il matrimonio secondo Dio, secondo la Sua legge, mettendo l’insegnamento della Chiesa come bussola per le nostre scelte. Eppure non decollava. Restava tutto faticoso. Attraversavo momenti di dubbio, di aridità, di sofferenza. A un certo punto ho messo in discussione tutto: la mia scelta, la relazione, perfino la decisione di avere subito due bambini. Stavo male. Mi sentivo in gabbia. Mi sentivo incastrato.

Mi ero sposato a 27 anni. Un’età normale, ma non più tanto nei nostri tempi. Guardavo i miei amici: vivi, spensierati, senza responsabilità, spesso ancora “serviti e riveriti” in casa. Io invece tornavo la sera stanco, carico di doveri. E non riuscivo più a vedere la bellezza di quel matrimonio in cui avevo creduto quando avevo detto il mio sì.

Poi, a un certo punto, ho visto una differenza che mi ha disarmato. Ho visto in Luisa una pace. Una pace che non veniva da me. Anzi, in quel periodo probabilmente ero per lei più motivo di preoccupazione che di gioia. Era una pace che nasceva da una scelta più radicale della mia. Lei aveva messo il nostro matrimonio prima di ogni altra cosa. Si donava totalmente a me e ai nostri figli. Anche quando io ero tutt’altro che amabile. Anzi, proprio allora dava ancora di più.

Ed è lì che ho capito. Io ero un po’ come il giovane ricco del Vangelo: «Gesù, fissandolo, lo amò… ma quello se ne andò triste, perché aveva molte ricchezze» (cfr. Mc 10,21-22). Non stavo dando tutto. C’era una parte di me che non voleva rinunciare ai privilegi della vita da single. Non volevo rinunciare a quelle che credevo essere le mie ricchezze: gli amici, il calcetto, la tranquillità quando rientravo a casa.

Guardavo la mia vita come una lunga rinuncia a ciò che avevo prima. Ero così concentrato su ciò a cui avevo detto di no, da non assaporare ciò che avevo detto di sì. Non riuscivo a scorgere la meraviglia di una donna che si offriva totalmente a me, che faceva di Cristo il centro di tutto. Il dono più grande che Dio mi aveva fatto io lo vivevo come una perdita.

Solo quando ho fatto anch’io quel salto interiore, tutto è cambiato. Non ho dovuto rinunciare a tutto, come temevo. Ho mantenuto il mio sport, gli amici. Ma hanno trovato il loro posto giusto. Non più al centro. La priorità è diventata la mia famiglia.

Ed è qui che il Cantico diventa carne nella vita: quando l’amore passa davvero al primo posto, tutto il resto si ordina. Quando invece l’amore viene dopo, anche le cose buone diventano un peso. Alla fine, il versetto dice una verità semplice e vertiginosa: puoi dare tutto per avere molte cose, ma non potrai mai dare qualcosa per comprare l’amore. L’amore non si compra, si accoglie. Non si possiede, si riceve. Non si trattiene, si dona. E solo chi ha il coraggio di mettere l’amore prima delle proprie “ricchezze” scopre che non sta perdendo nulla, ma sta finalmente cominciando a vivere.

Antonio e Luisa

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Gelosia nuziale

Cari sposi, uno dei brani di musica classica che preferiva mio papà era il “Dies Irae” di Giuseppe Verdi, tratto dalla sua Messa da Requiem, composta in occasione della morte dell’amico Alessandro Manzoni. Chi l’ha ascoltata non può sobbalzare nell’udire la descrizione uditiva del Giorno del Giudizio Universale con immagini potenti, la tromba che risveglia i morti, la natura stupita e la resurrezione delle creature per rispondere al giudice, mentre il libro della vita svela ogni peccato e nulla resterà impunito.

Leggere la Liturgia odierna e in particolare il Vangelo ci riporta un po’ a questo clima drammatico di sapersi destinati a un giudizio che metterà in luce ogni momento e ogni atto della nostra vita. Ma la figura di Giovanni il Battista, con il suo tono sferzante e sfidante, può sembrare forse stridente con il clima un tanto “sdolcinato” del Natale.

È allora l’occasione per capire meglio cosa si intende per “ira di Dio”. Sappiamo che l’ira di Dio non va intesa come uno sfogo irrazionale e passionale di vendetta o collera emotiva, come ahimé accade a noi quando arriviamo al limite. Ricordiamo cosa dice il Catechismo al riguardo, cioè che Dio non è “adirato” come l’uomo, perché “attribuire a Dio emozioni come la collera non significa che Dio provi tali sentimenti, ma che la sua giustizia rifiuta il male” (CCC 370; cfr. CCC 211, 277).

Quindi l’ira va capita come una manifestazione della Sua santità e giustizia intrinseca in risposta al peccato di ogni persona. Se vedessimo un figlio piccolo azzannato da un cane, come sarebbe la nostra reazione? D’istinto, avremmo una risposta energica davanti a un pericolo imminente: tale è l’ira di Dio, cioè la Sua radicale ripugnanza e opposizione verso tutto ciò che è peccato e ingiustizia.

Ecco come Benedetto XVI chiarisce spesso il significato dell’“ira” biblica: l’ira di Dio è la reazione della sua santità contro il male… non è un sentimento, ma la giustizia che si oppone all’ingiustizia (Udienza generale, 9 maggio 2012). In questo senso, Giovanni Battista, rivolgendosi ai Farisei e Sadducei, li mette in guardia contro il Giudizio che Dio sta per eseguire, invitando a una pronta conversione e a frutti degni di penitenza per sfuggirvi (Mt 3,8).

È molto interessante notare che l’ira di Dio ha un legame con la gelosia di Dio nel vedere che il suo popolo si allontana dall’Alleanza. Tale è senso ultimo degli avvertimenti di Giovanni Battista, il quale, come tanti suoi predecessori, si pensi a Osea, Isaia, Geremia…, hanno utilizzato la metafora sponsale per far comprendere al popolo come la pensa e soprattutto cosa prova Dio nei confronti di Israele: Dio è lo Sposo che ama la Sposa, anche quando questa è infedele e si allontana da Lui. Il peccato della Sposa è causa di profonda “passione” e gelosia nel Cuore divino. In ciò consiste l’ira, come lo sforzo e la volontà di riconquistare ogni persona ad un rapporto di vero amore con Sé.

In questo senso cari sposi, vediamo così l’invito del Battista alla conversione. Non è l’ennesimo dovere che ci autoimponiamo in occasione dell’Avvento, della serie: “stavolta sì che miglioro la mia vita!”. Piuttosto è la naturale conseguenza del sentirmi amato, atteso, voluto, desiderato dallo Sposo Gesù.

L’Avvento per voi sposi può essere l’occasione per cogliere con un accento diverso e più intenso il modo concreto con cui Gesù vi ama e che sia proprio questo a smuovere la vostra volontà e lasciarsi trasformare da Lui. Il Signore è instancabile nell’attendere il nostro “sì”, come ci ricorda Papa Francesco:

E ricordiamoci ancora una cosa: con Gesù la possibilità di ricominciare c’è sempre: mai è troppo tardi, sempre c’è la possibilità di ricominciare. Abbiate coraggio, Lui è vicino a noi e questo è un tempo di conversione. Ognuno può pensare: “Ho questa situazione dentro, questo problema che mi fa vergognare…”. Ma Gesù è accanto a te, ricomincia, sempre c’è la possibilità di fare un passo in più. Egli ci aspetta e non si stanca mai di noi. Mai si stanca! E noi siamo noiosi, ma mai si stanca.

ANTONIO E LUISA

Le parole di don Luca ci ricordano, come sposi, che l’Avvento è un tempo prezioso per rimettere Gesù davvero al centro della nostra vita e del nostro matrimonio. È un invito a tornare alla sorgente, a custodire e approfondire non solo la relazione di coppia, ma prima ancora quella personale con il Signore. Perché solo da un amore ricevuto ogni giorno può nascere un amore donato senza fatica. Quando Cristo non è un dovere ma una presenza viva, anche il donarci l’uno all’altro smette di essere un peso e diventa risposta grata, gioiosa, libera al Suo amore che ci precede e ci sostiene.

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Ma non ti annoi sempre con la stessa donna?

Qualche tempo fa un amico mi ha confidato un episodio che mi ha profondamente colpito. Questo amico fa parte del Rinnovamento nello Spirito, vive la sua fede senza nasconderla, nemmeno sul posto di lavoro. È sposato, ha quasi cinquant’anni, tre figli, e negli ambienti che frequenta viene spesso etichettato come quello “strano”. Strano perché crede, prega, sceglie. Ma anche strano in un modo che attrae: perché porta con sé la luce di una scelta radicale.

Un giorno un collega, suo coetaneo, non sposato, abituato a vivere di relazioni brevi, di avventure e di consumo affettivo, gli si avvicina con una domanda tanto diretta quanto rivelatrice: Ma tu non ti stufi di fare l’amore sempre con la stessa donna? Non è sempre uguale? Non ti stanchi di lei, visto che il tempo non migliora certo il corpo, ma lo rende solo più vecchio e meno attraente?

Ho voluto riportare questa domanda perché, pur nella sua rudezza, è una delle domande più diffuse del nostro tempo. È la domanda di una cultura che riduce l’amore a prestazione, la sessualità a stimolo, il corpo a oggetto. È la domanda di un Io Bambino che cerca il piacere immediato, che teme la frustrazione, che fugge la profondità per non sentire il vuoto. Che non sa entrare in una intimità profonda e autentica.

Rispondere seriamente a questa domanda significa prima di tutto chiarire cosa intendiamo quando diciamo “fare l’amore”. Perché spesso si confonde l’atto sessuale con l’amore stesso. Ma fare l’amore, almeno per me, ad un livello prima ancora che sacramentale, è dare corpo, carne, voce e respiro a ciò che io e mia moglie ci portiamo dentro ogni giorno. È rendere visibile, attraverso il corpo, una comunione che nasce molto prima, nello sguardo, nell’ascolto, nella pazienza, nel perdono, nella scelta quotidiana di restare.

Come potrei stancarmi di questo? Ogni volta è diverso, perché noi siamo diversi. Ogni volta è più vero, perché l’amore nel tempo si purifica, attraversa crisi, si spoglia di illusioni e diventa più essenziale. Non più fondato sull’idealizzazione, ma sulla conoscenza reale dell’altro. Ed è qui che l’Analisi Transazionale ci aiuta a leggere in profondità ciò che accade: si passa dal bisogno infantile di essere appagati al desiderio adulto di donarsi. Dal “prendo per me” al “mi offro a te”.

Nel gesto dell’intimità coniugale entrano anni di storia: entrano le tenerezze e le stanchezze, i litigi e i perdoni, le parole dette e quelle taciute, le paure condivise, le preghiere sussurrate, i figli messi a letto, le mani che si cercano quando tutto pesa. Non entra solo il corpo. Entra tutta la persona. Per questo non è mai uguale. Perché non siamo mai gli stessi.

Il piacere, allora, non è più una semplice reazione chimico-muscolare, una scarica di pochi secondi che poi però lascia spesso il vuoto. Il piacere vero diventa il sentirsi abitati dall’altro. È l’esperienza di essere “a casa” dentro qualcuno. È la gioia profonda di un’unità che non si può comprare, non si può simulare, non si può improvvisare. È un piacere più lento, più pieno, più spirituale perché è anche psicologico e affettivo.

Resta però l’obiezione finale, la più crudele e la più sincera: Ti piace ancora anche se invecchia? Qui si tocca uno dei grandi misteri dell’amore sponsale. Sì, invecchiamo, tutti e due non solo lei. I corpi cambiano. Le forze diminuiscono. Il tempo lascia i suoi segni. Ma accade qualcosa di sorprendente: gli occhi vedono il cambiamento, il cuore vede la bellezza. E non è una bugia romantica. È una trasformazione dello sguardo.

La Psicologia ci direbbe che ciò che vediamo è sempre filtrato dalla nostra storia emotiva. La Fede ci dice che l’amore vero educa lo sguardo a vedere come Dio vede. Io non vedo solo ciò che mia moglie è ora nel corpo. Io vedo tutto ciò che è stata per me: la ragazza che mi ha scelto, la sposa che mi ha accolto, la compagna che ha sofferto con me, la madre che ha generato la nostra famiglia. Questa immagine interiore non appassisce. Anzi, si approfondisce.

È questo che l’uomo di oggi spesso non comprende: crede che la bellezza sia ciò che stimola, mentre la bellezza più vera è ciò che rimane. È la bellezza che nasce dal legame. È la bellezza che cresce dentro una fedeltà. È la bellezza che solo due sposi possono vedere l’uno dell’altra, perché è fatta di carne, memoria, intimità e alleanza.

E qui ritorna anche la dimensione morale e spirituale: la fedeltà non è una rinuncia al piacere, è la sua trasfigurazione. Non è un limite imposto, ma uno spazio protetto in cui l’amore può diventare pienamente umano. L’uomo che si annoia è spesso un uomo che non ha imparato ad andare in profondità. L’uomo che consuma è un uomo che ha paura di restare. L’uomo che resta, invece, scopre ogni giorno un mistero nuovo.

Per questo, se oggi mi chiedessero se ci si stanca di amare sempre la stessa donna, io risponderei che ci si stanca solo di ciò che non si ama davvero. Io oggi più di ieri non desidero che mia moglie. Nonostante il suo corpo sia oggettivamente invecchiato. L’amore vero, quello che attraversa gli anni, non toglie il desiderio: lo purifica, lo umanizza, lo rende eterno. E forse è proprio questo il miracolo più grande del matrimonio.

Antonio e Luisa

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E se Elodie si fosse accorta di essere preziosa

Episodi come quello che ha coinvolto recentemente Elodie durante un concerto (vai alla notizia), al di là del rumore mediatico e delle opposte tifoserie, toccano corde molto più profonde di una semplice disputa tra libertà. C’è chi ha difeso il diritto dell’artista di mostrarsi come vuole, chi quello del reporter di riprendere ciò che è pubblico. Tutto legittimo, sul piano tecnico. Ma io sento che lì si muoveva qualcosa di più intimo, più fragile, più vero. In quel gesto di indignazione, nato proprio nel momento in cui l’inquadratura ha invaso le parti più intime del corpo, io non riesco a vedere solo rabbia o contraddizione. Io ci leggo un moto dell’anima, un sussulto della coscienza che dice, quasi senza filtri: «Io sono preziosa».

Elodie, come tante persone sotto i riflettori, vive dentro un ruolo. Un ruolo che dà successo, visibilità, potere, consenso. Ma i ruoli – lo sappiamo tutti, anche nella nostra vita quotidiana – possono diventare abiti che stringono. All’inizio proteggono, poi soffocano. Si può essere guardati da milioni di persone e, dentro, sentirsi nudi nel modo sbagliato. Si può essere applauditi e, nello stesso tempo, non sentirsi davvero visti. Per questo io non leggo quella reazione come incoerenza, ma come una crepa nel personaggio, uno spiraglio in cui per un attimo è emersa la persona. Come se, proprio lì, qualcosa dentro avesse detto: non sono solo un corpo da consumare, sono una persona da rispettare.

E allora, con profondo rispetto, nasce una domanda che non vuole essere un’accusa ma una carezza della verità: se davvero una persona sente di essere preziosa, prima o poi nasce anche il desiderio di custodire quella preziosità. Non basta chiederne il riconoscimento quando viene ferita. Custodire significa anche interrogarsi su come ci si offre allo sguardo degli altri. Significa, a volte, scegliere di esporsi meno, di raccontarsi in modo diverso, forse anche di perdere consenso, perdere follower, perdere una parte di successo. Sono scelte che fanno male. Ma spesso sono proprio le scelte che salvano l’anima.

Su questo tema, così delicato e così controcorrente, Papa Francesco ha pronunciato parole di grande luce nell’udienza generale del 18 novembre 2020, ricordando la Beata Karolina Kózka, una ragazza di sedici anni che ha dato la vita pur di non subire una violenza. Disse ai fedeli: «Con il suo esempio, ancora oggi indica, specialmente ai giovani, il valore della purezza, il rispetto per il corpo umano e la dignità della donna».

Karolina, come Maria Goretti, è una testimonianza sconvolgente per la mentalità di oggi. Due ragazze giovanissime che avevano una certezza limpida nel cuore: il loro corpo non era una cosa, era parte di loro stesse. Violare il corpo era violare tutta la persona. E proprio perché si sentivano infinitamente preziose, hanno avuto la forza di dire no anche quando il prezzo era la vita. Non erano moraliste. Erano innamorate della propria dignità.

Oggi, molte ferite nascono proprio da qui: il corpo viene spesso usato come moneta di scambio per ottenere attenzione, visibilità, amore, approvazione. Si pensa: Mi mostro, così valgo. Ma è una bugia sottile e crudele. Perché, alla lunga, questo uso del corpo lascia solchi profondi nell’anima. Illude di dare potere, e invece toglie libertà. Illude di dare amore, e spesso lascia solitudine. Per questo dovremmo aiutare i nostri figli – e anche noi adulti – a riscoprire la bellezza del pudore e della castità.

Il pudore non è vergogna. Il pudore è amore per il proprio mistero. È dire: io non sono tutto per tutti. È protezione della propria intimità, che non è qualcosa da esibire, ma da donare. Solo a chi è disposto a camminare con me per la vita. Avere pudore significa sapere quanto si vale. Significa trattarsi con rispetto prima ancora di chiederlo agli altri.

La castità, poi, non è una negazione del corpo, ma la sua verità più alta. È custodire il linguaggio potente dei gesti, perché dicano davvero ciò che il cuore vuole dire. Perché il corpo parla. Nel sesso il corpo dice: sono tuo, tu sei mia, siamo una cosa sola. Ma queste parole sono vere solo quando il cuore è disposto a dirle per sempre. Altrimenti restano gesti che promettono ciò che la vita non mantiene.

Per questo Papa Francesco ci richiama con tanta forza a purezza, pudore e castità: non per imporre regole, ma per insegnarci ad amare senza perderci. Senza tradire noi stessi. Senza ridurre il nostro valore allo sguardo degli altri.

E allora, tornando a Elodie, io continuo a leggere in quel suo gesto un segnale buono, fragile e vero insieme. Voglio illudermi che sia così. Come un’anima che, per un attimo, ha detto: io valgo più di così. Se quella crepa nel personaggio diventasse un cammino di custodita verità, anche a costo di perdere qualcosa, sarebbe un gesto di coraggio immenso. Perché la vera libertà non è poter fare tutto. È poter scegliere ciò che salva. È scegliere chi voglio essere. E avere il coraggio di restare fedele a quella scelta.

Antonio e Luisa

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Aspettare il Natale con il coniuge

Aspettare il Santo Natale con la propria moglie o con il proprio marito è un’esperienza che, se vissuta nella fede e con fede, acquista un significato che va ben oltre la semplice preparazione esteriore alle feste. È un tempo di grazia, un cammino interiore che la coppia può percorrere insieme, vivendo l’Avvento non come una stagione qualunque ma come un’occasione preziosa per rinnovare la propria fedeltà, rinsaldare il vincolo sacramentale e riscoprire la bellezza del “noi” davanti al mistero dell’Incarnazione.

Il Natale, infatti, non è soltanto memoria di un evento accaduto duemila anni fa quanto piuttosto sentire la presenza viva di Dio che continua a venire incontro all’uomo, facendosi vicino nella quotidianità degli sposi. Prepararsi insieme significa imparare a riconoscere questa venuta di Cristo nella vita coniugale: nel gesto semplice del condividere un pasto, nel sostegno reciproco quando la stanchezza o le preoccupazioni si fanno sentire, nella preghiera fatta a due, magari la sera, quando il silenzio della casa sembra favorire l’ascolto del cuore.

Ogni momento può diventare attesa, ogni gesto può essere un segno di quell’apertura al Bambino che nasce. Per una coppia cristiana, l’Avvento è anche un invito a purificare lo sguardo. Il mondo circostante tende a ridurre il Natale a un tempo di consumo e di frenesia, ma gli sposi credenti sanno che la vera attesa non si misura dalle decorazioni o dai regali, bensì dalla capacità di farsi accoglienti a Cristo, che viene nella fragilità e nella povertà.

Attendere il Natale con la moglie o con il marito diventa, allora, un allenamento spirituale, come prendersi per mano e decidere insieme di dare priorità alla preghiera, al perdono, alla riconciliazione. E se anche in questo periodo emergessero tensioni o fatiche è proprio nel “qui e adesso” che si può cogliere l’occasione per vivere la carità reciproca, ricordando che il matrimonio è un sacramento che rende presente l’amore di Cristo per la Chiesa.

La figura di Maria, Madre di Dio, illumina questa attesa. Lei, che ha custodito nel suo grembo il Verbo fatto carne, diventa modello di ogni sposa e di ogni coppia cristiana. Guardando a Lei, gli sposi imparano ad accogliere la vita con gratitudine e a dire il loro “sì” a Dio nei momenti semplici della quotidianità.

Ugualmente se guardiamo a San Giuseppe, “uomo giusto” per eccellenza, che ha accolto senza giudicare, diventando autentico sostegno per la nuova famiglia. Aspettare il Natale con il coniuge, dunque, significa anche guidare dallo sguardo amorevole dei Santi Sposi, pregando perché il Bambino che nasce renda la propria casa un luogo di pace e di speranza.

Il giorno di Natale, la coppia può vivere con particolare intensità l’Eucaristia, sapendo che quella mangiatoia in cui giace il Figlio di Dio non è altro che il segno di un amore che si dona completamente. Ed è lo stesso amore che gli sposi sono chiamati a riflettere, l’uno verso l’altro, nella loro vita matrimoniale. La celebrazione liturgica si trasforma così in culmine e un punto di partenza nello stesso momento: la coppia, che ha atteso insieme, riceve ora la gioia di Cristo che viene a rinnovare il legame e a rafforzare la missione di famiglia cristiana nel mondo.

Aspettare il Natale con la moglie o il marito, in questa prospettiva, non è soltanto un tempo di dolcezza domestica o di preparativi familiari. È un itinerario spirituale a due voci, in cui lo sguardo dell’uomo e quello della donna si uniscono per contemplare lo stesso mistero.

È un’occasione per ritrovare la profondità della vita di coppia e riconoscere che, proprio nella fedeltà quotidiana e nella condivisione sincera, si fa spazio a Dio che viene. Natale, allora, non sarà semplicemente un giorno di festa ma autenticamente un Santo Natale, conferma che Cristo continua a nascere nel cuore degli sposi che lo attendono insieme, con fede, speranza e amore. Perché la culla più bella ed accogliente è il noi sponsale, reso nuovo e fecondo dall’amore incarnato, Verbo che salva il mondo

Fabrizia Perrachon

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Il compiacente: non può mai deludere

Iniziamo oggi il percorso attraverso i sei adattamenti di personalità. Qui puoi leggere l’introduzione generale alla serie. Lo faremo con uno sguardo particolare: quello dell’altro, del coniuge, di chi vive accanto a una persona con uno specifico adattamento. Come aiutarlo ad essere più libero e amato nella relazione? In questo primo articolo entreremo nella vita di chi ha sposato un Pleaser, una persona dallo stile compiacente.

Il Compiacente: la persona che vive per non ferire, per non disturbare, per non creare attriti. Quella che, quasi naturalmente, antepone i bisogni dell’altro ai propri.

Se vivi accanto a un partner così, forse ti sei accorto che è una persona dal cuore grande. Intuisce i tuoi stati d’animo, capta le tensioni prima ancora che tu le esprima, cerca di smussare gli angoli, di ricucire ciò che si lacera. È spesso la colonna silenziosa della coppia, quella che mette pace quando l’aria si fa pesante, che abbassa i toni quando tutto sembra pronto a esplodere. Con lui o con lei è facile sentirsi accolti, compresi, sostenuti.

Eppure, proprio dentro questa bontà si nasconde talvolta una fragilità profonda. Non sempre ciò che appare come dono nasce dalla libertà. A volte nasce dalla paura.

Il Compiacente porta dentro una frase antica, impressa senza parole nella propria storia: “Solo se non deludo nessuno, allora sarò amato”. Da bambino ha imparato che per mantenere il legame era necessario essere buono, adattarsi, non creare problemi. Così oggi, nel matrimonio, continua a proteggere la relazione come meglio sa: rinunciando a parti di sé. Dice “va tutto bene” anche quando dentro qualcosa si spezza. Minimizza i propri bisogni. Si scusa facilmente, anche quando non ne avrebbe motivo. Teme il conflitto come se fosse una minaccia alla relazione, non come una possibilità di crescita.

Se lo ami davvero, prima di tutto è importante che tu non patologizzi questo suo modo di essere. La sua sensibilità è un dono. La sua capacità di ascolto è una ricchezza. Il suo desiderio di pace è un carisma prezioso. Dentro c’è un riflesso di quel Cristo mite che non spezza la canna incrinata. Ma il problema nasce quando questa mitezza smette di essere scelta e diventa automatismo. Quando la bontà non è più libertà, ma strategia di sopravvivenza.

C’è un rischio serio: che il tuo partner, a forza di mettere te al centro, perda se stesso. Che costruisca un amore fatto di silenzi invece che di verità. Che confonda il “dare la vita per l’altro” con il “scomparire per l’altro”. E questo, anche sul piano spirituale, non è Vangelo. Dio non ci chiama a svuotarci della nostra identità per essere amati. Non c’è amore vero senza verità. Non c’è comunione quando uno dei due smette di esistere per paura di perdere l’altro.

Dietro molti comportamenti del Pleaser c’è un bisogno antico: essere accolto senza condizioni. Un bambino interiore che ha imparato presto che l’amore si guadagna. Ma l’amore cristiano, quello che fonda il matrimonio, non funziona così. L’amore non si merita: si riceve. È la logica del Padre che corre incontro al figlio, non perché è stato perfetto, ma perché è figlio. Ed è proprio qui che il tuo partner, senza saperlo, sta ancora camminando: nel passaggio dalla paura di non essere amato alla fiducia di esserlo comunque.

Tu, come coniuge, hai un ruolo delicatissimo in questo cammino. Amare un Compiacente non significa solo beneficiarne la dolcezza, ma anche custodire la sua libertà. Significa creare uno spazio sicuro in cui possa esprimersi senza temere di perdere il tuo amore. Per lui o per lei è fondamentale sentire – non una volta, ma nel tempo – che può dire “no” senza che questo rovini la relazione. Che può essere in disaccordo senza essere abbandonato. Che può mostrarsi fragile senza essere sminuito. Che la sua voce pesa quanto la tua.

Attenzione, però, a un rischio sottile: approfittarsi della sua disponibilità senza volerlo. Il fatto che dica sempre sì non significa che lo desideri davvero. A volte dice sì perché ha paura di deludere. E l’amore cristiano non utilizza mai le paure dell’altro per stare comodo. Al contrario, si prende cura proprio di ciò che nell’altro è più vulnerabile.

Se vuoi davvero aiutarlo a crescere, non spingerlo con durezza. Rassicuralo. Sii fermo nella verità, ma tenero nel modo. Incoraggialo a parlare, anche quando temi di sentire cose scomode. Ringrazialo quando esprime un bisogno, non solo quando si adatta. Mostragli con i fatti che non deve guadagnarsi il tuo amore.

Il cammino del Pleaser non è smettere di essere buono, ma imparare a essere buono nella libertà. Come Cristo, che ha amato fino in fondo, ma senza perdere se stesso. E quando questo avviene, anche il vostro amore cambia volto: non è più un amore costruito per paura del conflitto, ma un amore fondato sulla verità. Quella verità che magari fa tremare all’inizio, ma che, alla fine, rende davvero liberi entrambi.

Antonio e Luisa

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