La Quaresima è appena iniziata e, come ogni anno, siamo invitati a dedicare maggiore – ma soprattutto migliore – tempo alla preghiera e alla vita dell’anima, alleggerendo l’attaccamento al mondo con qualche digiuno e qualche rinuncia, i famosi “fioretti” che hanno profumato di fede la nostra infanzia.
Per alcuni, però, non c’è distinzione tra il tempo liturgico che stiamo vivendo e l’esistenza quotidiana, troppe volte nominata, vissuta e percepita come una Via Crucis. Quest’espressione latina indica propriamente il “cammino della croce” ossia il tratto di strada percorso da Gesù, flagellato e coronato di spine, sotto il peso del patibulum, lo strumento di tortura e di morte più crudele al tempo dei Romani. Non ci interessa, in questo momento, disquisire se il Figlio di Dio portò solo la trave orizzontale, quella più corta, o l’intera struttura di legno.
Quello su cui desideriamo riflettere è il senso di un cammino doloroso che molte, forse troppe, coppie si trovano a percorrere. Dal “giorno del sì” al “giorno del forse”, per alcuni, è un attimo. E da lì al “giorno del no” il passo è ancora più breve. Ma perché, vale la pena chiedersi, per tanti sposi la vita coniugale sembra una vera e propria Via Crucis? Perché marito e moglie, che dovrebbero amarsi lungo il corso della vita, si ritrovano su un Calvario che non riescono ad evitare? O si sentono addirittura inchiodati a una croce dalla quale vorrebbero solo scendere?
È proprio riflettendo sul senso della preghiera quaresimale per eccellenza che sono andata a riprendere un librettino di parecchio tempo fa, intitolato “Via Crucis per gli sposi e le famiglie”, edito da Shalom [1]. Lo scoprii nei primissimi anni di matrimonio e mi colpì molto, lo trovai una “genialata”, qualcosa che non conoscevo ma di cui capivo l’estrema utilità. Non perché la nostra unione stesse attraversando una crisi ma perché consapevoli che, se non coltivato e nutrito – di Dio, innanzitutto – anche il matrimonio che sembra edificato sulla roccia più solida rischia di franare come un castello costruito sul bagnasciuga.
E che magari anche i piccoli litigi, le occhiate più acide del solito e qualche risposta al vetriolo, sommate nel tempo, possono causare danni irreversibili. Al contrario, pubblicazioni come questa riescono a far riflettere la coppia sui motivi che rischiano di far vivere il sacramento dell’amore nuziale come un tormento che lo svuota e snatura completamente. Se in Quaresima si prega di più e meglio, ben vengano simili strumenti, in grado di dare un po’ di luce a chi si sente di brancolare nel buio.
Invece che baci, chiodi. Invece che coccole, spine. Invece che abbracci, ferite. Perché? Perché un uomo e una donna devono arrivare a trattarsi così male, a umiliarsi così, a distruggersi così? Come scrisse Don Giuseppe Brioschi nell’introduzione, “Praticare la Via della Croce tra le mura domestiche assume un valore e un significato particolare: è proprio la famiglia, nel quotidiano percorso educativo della convivenza e dell’amore (tra marito e moglie, tra genitori e figli e tra fratelli), la vita ordinaria che conduce la persona umana alla contemplazione dei misteri della vita, della morte, della Resurrezione. […] Tutte le famiglie del mondo portano la propria croce ma se non la portano insieme a Cristo, così come lui l’ha portata, non possono neppure aspettarsi di ottenere gli stessi frutti della croce di Gesù. Porta la croce di Gesù chi, insieme a lui generosamente ed incondizionatamente ama Dio e l’uomo, chi perdona i propri nemici, chi non cerca prove della propria innocenza, bensì si preoccupa di amare e di essere innocente. A questo punto verrebbe da chiedersi: lo facciamo noi nelle nostre famiglie? In verità l’amore, nella propria condizione di vita, deve portare la croce e su di essa essere crocifisso, ma questa non è la fine di tutto. Esso supera la morte grazie alla Resurrezione. Questa è la cosa definitiva e più importante”.
Ci vuole coraggio? Certamente! Ci vuole pazienza? Altrochè! Ci vogliono compassione, misericordia e speranza? Decisamente sì! Ci vuole fede? Naturalmente! Insieme con la certezza di non essere da soli, né come singoli né come coppia. La croce non è la morte ma il passaggio attraverso cui giungere a una vita nuova, rinnovata, più bella e autentica. Crocifissa in Cristo e risorta con Lui.
Le quattordici stazioni, allora, non saranno colpi di un martirio senza senso ma le tappe per ritrovare l’altro e per ritrovarsi insieme. E, così facendo, per ritrovare anche la propria famiglia come immagine della Trinità e cardine della società civile. In questo modo non sarà più la via Crucis della coppia ma per la coppia. Per perdonare e sapersi perdonati. Per gioire e donare gioia. Per amare e riscoprirsi amati.
Fabrizia Perrachon
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