“Primo maggio, su coraggio”, recitava una famosissima canzone italiana del 1977. Ma c’è molto più di questo. Il primo maggio è la festa di San Giuseppe Lavoratore. Il primo maggio è l’inizio del mese dedicato a Maria Santissima e al Santo Rosario. Il primo maggio, quest’anno, è il Primo Giovedì del mese, dedicato all’Adorazione Eucaristica e alla preghiera per le vocazioni. Una bella tripletta celeste, vero?
Potremmo stare ore – e pagine – a parlare di questo e non basterebbero né il tempo né lo spazio del blog. Inoltre, non dimentichiamo che la Chiesa sta vivendo un momento importantissimo e delicato. Dobbiamo pregare con tutto il cuore e con tutta l’anima per l’elezione del nuovo pontefice. Il Conclave è alle porte. Come si recita nella preghiera alla Divina Misericordia: “Dio, Padre Misericordioso, che hai rivelato il Tuo amore nel Figlio Tuo Gesù Cristo, e l’hai riversato su di noi nello Spirito Santo Consolatore, Ti affidiamo oggi i destini del mondo e di ogni uomo.”
Detto questo, è bello fermarci a pensare alla figura di San Giuseppe, ricordato il primo maggio proprio come lavoratore. Quanti padri lavorano per il benessere delle proprie famiglie! Quanti padri, al contrario, sono in difficoltà perché senza occupazione o sfruttati! Quanti padri ammalati, con l’angoscia di non poter provvedere al sostegno economico! Quante situazioni diverse, quante soddisfazioni ma anche quante angustie! E una domanda che bussa, prepotente, alla porta del cuore: ma il lavoro è solo quello fisico, materiale, con profitto economico? Oppure anche quello morale, spirituale, affettivo, educativo?
Essendo, San Giuseppe, sia padre che lavoratore, non possiamo ignorare il binomio che oggi ci viene suggerito. E così mi torna alla mente l’intervista che ha rilasciato qualche tempo fa a La Stampa Luca Zingaretti. Il noto attore ha dichiarato: “Per educare un figlio oggi, un padre deve fare testimonianza di se stesso. Non a chiacchiere, ma con i fatti, con le abitudini, con le sveglie all’alba per andare a lavorare, con la capacità di prendersi cura in ogni caso”.
San Giuseppe, per Gesù, è stato tutto questo. Lo ha accolto quanto tutti sospettavano della gravidanza di Maria. È fuggito in Egitto per proteggerlo. È tornato a Nazareth quando Dio glielo ha comandato. Ha dato il suo esempio di genitore e di artigiano, insegnandogli a diventare falegname. Chissà quanto sudore, quante spine nelle mani, quanta fatica piallare quel legno! Ma anche quanto amore, quanta dedizione, quanta tenerezza nel far crescere il Figlio di Dio come suo!
Ecco la “testimonianza di se stesso”: non spacciarsi per super-eroi senza difetti né peccati ma mettercela tutta, senza arrendersi alla prima difficoltà. Non fingere che la vita siano solo successo, traguardi raggiunti, limiti superati, vacanze di lusso, cene o milioni di follower sui social. Ma la semplicità di un quotidiano che eleva al Cielo, alla santità cui siamo tutti chiamati. Non stupire con irreali effetti speciali ma pregare insieme ai propri figli. Curarli quando sono malati. Leggere una storia prima di addormentarsi. Farsi tenere coccole. Giocare anche quando si avrebbe soltanto voglia di riposare. Esserci. Con la mente, il cuore, l’anima. Con se stessi. Con i pregi e con i difetti ma soprattutto con l’autenticità e l’impegno.
Dare l’esempio, allora, non sarà più soltanto il simulacro di un curriculum pieno di “ho fatto questo” o di “ho fatto quest’altro”. Oppure di “sono un buono a nulla”, “non so fare niente”, “non ho voglia”, “non ci penso proprio”. Piuttosto “faccio questo per amore e con amore”, “lo faccio per te”, “ci provo perché ti voglio bene”, “non mi arrendo perché desidero educarti a non arrenderti”, “coraggio, ci sono io”. I figli sono molto intelligenti e non si fanno ingannare dalle belle storielle. Forse, un tempo, era più semplice. Oggi no.
Dio, per primo, ci ha dato l’esempio. Dio, per primo, si è mostrato come Padre. Dio, per primo, ci ha insegnato a chiamarlo papà. Questo è il lavoro principale, quello non retribuito con la valuta del mondo, quello meno scontato, quello più difficile e sempre più raro. Non l’alibi per non fare nulla. Non la scusa per non fare nient’altro. Ma la luce della paternità coniugata con l’essere “umili lavoratori nella vigna del Signore”, come disse Benedetto XVI nel suo primo discorso da Papa. In questo modo – e grazie a San Giuseppe – il primo maggio avrà un senso. Vero, pieno, di sostanza. E non più soltanto uno slogan un po’ attempato né una sterile e vuota propaganda di facciata.
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