Il mistero della bellezza e il dono del pudore

In questo capitolo non proseguiamo con i versetti. Mi fermo per evidenziare una caratteristica della relazione tra Salomone e l’amata. Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. La riflessione come sempre è tratta dal nostro libro Sposi sacerdoti dell’amore (Tau Editrice).

Dopo l’ammirazione del coro per la bellezza della Sulamita, è ora l’amato a soffermarsi sui particolari della sua amata. Il coro, nei versetti precedenti del Cantico dei Cantici, aveva celebrato una bellezza che trabocca dalla Sulamita, una bellezza che sembra toccare tutti coloro che la vedono e la contemplano. Ma lo sguardo dell’amato è diverso: non si ferma alla superficie, penetra nell’intimità, cerca i dettagli. La bellezza della Sulamita non è più patrimonio collettivo, ma tesoro custodito nello sguardo dello sposo.

Questa distinzione è fondamentale: ciò che tutti possono ammirare è solo un riflesso, mentre la profondità è riservata a chi ama davvero. È l’immagine dell’intimità autentica: la Sulamita desidera svelarsi solo al suo sposo. Ma, anche in questo, rimane un mistero. Nessuno di noi, infatti, può conoscere se stesso fino in fondo. Perfino la Sulamita non può donare ciò che ancora le resta oscuro, eppure è proprio nel desiderio di donarsi che si conosce di più.

Nasce così un circolo virtuoso: l’abbandono fiducioso allo sposo permette alla donna di scoprire se stessa, e questa conoscenza accresciuta la rende più capace di donarsi. È l’immagine viva del matrimonio: nell’amore reciproco non solo ci si dona, ma ci si scopre, ci si plasma, ci si fa crescere. Papa Francesco, parlando ai fidanzati nel 2014, sintetizzava così: «Il marito ha il compito di far più donna la moglie, e la moglie ha il compito di far più uomo il marito». Non significa cambiare l’altro a nostro piacimento, ma permettere all’altro di diventare ciò che è chiamato ad essere.

Conoscersi attraverso l’altro: uno sguardo psicologico

Dal punto di vista dell’Analisi Transazionale, potremmo dire che la relazione coniugale sana consente un dialogo costante tra le parti adulte dei coniugi. Quando marito e moglie si accolgono e si rispettano, si attiva un processo di “ristrutturazione del copione”: ciascuno scopre parti di sé che non conosceva, smette di vivere ruoli infantili o genitoriali distorti e si apre alla libertà di amare da adulto.

Nella simbiosi iniziale della coppia, spesso domina il bisogno di fusione: “Io e te siamo uno”. Con il tempo, però, cresce la necessità di riconoscere l’altro come persona distinta. La Sulamita non si dissolve nello sposo, ma resta se stessa. L’amore vero non annulla, ma fa emergere l’identità. È qui che l’intimità diventa feconda, perché si fonda sulla libertà e non sulla dipendenza.

Il pudore: non debolezza, ma forza

Un aspetto prezioso che il Cantico ci consegna è il pudore della Sulamita. Ella mostra ciò che conosce di sé solo al suo sposo. Questo non è segno di complesso o paura, ma di consapevolezza. Il pudore è spesso frainteso nella cultura contemporanea, che lo vede come un ostacolo da abbattere o come un residuo di tabù moralistici. Ma in realtà il pudore è custodia, è protezione della propria intimità, è consapevolezza che il corpo non è un oggetto da esibire, ma un linguaggio da condividere.

San Giovanni Paolo II, nella Teologia del corpo, sottolinea che il pudore “custodisce l’interiorità della persona” e impedisce che essa sia trattata come cosa. In altre parole, il pudore non reprime, ma difende la verità dell’amore. È un confine sacro che dice: “Io non sono merce, io sono dono”. Chi non conosce il pudore, spesso non vive libertà ma mendica amore e riconoscimento: è alla ricerca disperata di conferme, disposto a svendere la propria intimità per ottenere attenzione. È il paradosso di un’epoca in cui il corpo è esposto ovunque, ma raramente custodito. L’assenza di pudore non genera libertà, ma dipendenza dallo sguardo degli altri.

Figli di Re, non mendicanti

Il linguaggio biblico è chiaro: non siamo mendicanti, siamo figli di Re. “Voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato” (1 Pt 2,9). Questa dignità si riflette anche nel corpo, che non è per tutti, ma per uno solo. Il pudore, allora, non è un limite ma un’affermazione di regalità: custodire la propria bellezza significa riconoscere che essa è destinata a chi sa assumersi la responsabilità di un amore per sempre.

Il corpo, nel progetto di Dio, non è mai ridotto a oggetto. È sacramento, cioè segno visibile dell’invisibile. Nel matrimonio, l’uomo e la donna diventano per l’altro segno vivo dell’amore di Cristo. “Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo?” (1 Cor 6,19). Chi guarda con occhi puri scopre un santuario, non un oggetto.

Il pudore non si limita al nascondere, ma apre al dono. Non è paura, è attesa. È dire: “Io custodisco me stesso per colui/colei che saprà guardarmi con verità, senza violarmi, ma facendomi specchiare nei suoi occhi”. È l’attesa di uno sguardo che non possiede, ma accoglie; che non consuma, ma custodisce. È in questo che la Sulamita diventa simbolo di ogni sposa e, in fondo, di ogni cristiano: la sua intimità è destinata a chi sa promettere per sempre. In un mondo che teme la promessa, il pudore diventa profezia: solo chi osa il “per sempre” merita di entrare in quel santuario.

Una lezione per oggi

Questa visione biblica e teologica trova riscontro anche in un’osservazione psicologica: la persona che custodisce la propria intimità non lo fa per paura, ma per amore. È una persona adulta, capace di gestire i propri confini, che non mendica attenzioni ma sa attendere e scegliere. Il matrimonio, allora, è la cornice in cui questo dono trova il suo compimento. È il luogo dove il pudore si trasforma in libertà, perché l’altro è diventato casa, rifugio sicuro, promessa mantenuta. Papa Francesco in Amoris laetitia lo dice con forza: «Il corpo dei coniugi, con i segni dell’amore, diventa linguaggio della vita donata». Il pudore non è un ostacolo, ma la condizione perché il corpo parli in verità.

Il Cantico dei Cantici ci ricorda che la bellezza non è mai solo esteriore: la vera bellezza è quella che si svela nel dono reciproco, nella custodia del mistero, nella capacità di far crescere l’altro. La Sulamita e l’amato ci insegnano che l’intimità non si improvvisa né si svende, ma si costruisce passo dopo passo, nell’abbandono e nel rispetto, nel pudore e nella promessa. Non siamo mendicanti che elemosinano sguardi. Siamo re e regine che custodiscono un mistero: il nostro corpo, il nostro amore, la nostra promessa. E questo mistero, custodito nel pudore, diventa splendore di un amore che riflette la stessa luce di Dio.

Antonio e Luisa

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