Mio padre non voleva che diventassi suora

È lecito che il volere dei genitori spinga, o al contrario, blocchi la vocazione dei figli? Fino a quando si può parlare di incoraggiamento, o al contrario, di impedimento? Quali sono le responsabilità, o al contrario, i limiti del contesto familiare?

Accogliere la vocazione religiosa di un figlio significa, per un genitore, ascoltare con cuore paziente quella voce interiore che chiede di essere libera nell’amare oltre se stessa. Significa accettare che il cammino del figlio possa chiamarlo a lasciare — non abbandonare — le attese proprie e quelle familiari, fidandosi che quel distacco sia fecondo. Significa comprendere che, come genitori, bisogna essere delle sentinelle che pregano, accompagnano, sostengono e offrono spazio perché la Grazia possa operare, senza forzature.

Quanta bellezza c’è nell’educare ad amare la libertà, nel non possedere, nel non costringere! Quanta verità c’è nel trasmettere ai figli che ogni vocazione è dono, non solo per se stessi, non solo per la famiglia ma per il mondo intero! Ecco la vera fecondità del matrimonio sacramento: la casa che diventa “piccola Chiesa”, luogo in cui si sperimenta che il più grande amore è dare spazio all’altro di essere se stesso dentro la chiamata di Dio.

La giornata di oggi – 27 novembre, festa della Medaglia Miracolosa – ci offre la base ideale per provare a riflettere su tutto ciò. Nel 1830, come oggi, Maria Santissima apparve ad una giovane suora, Caterina Labouré, donandole il prototipo della Medaglia che ha compiuto così tanti prodigi da far esclamare a San Massimiliano Kolbe: Se uno manifesterà anche questo piccolo omaggio soltanto all’Immacolata, cioè porterà la sua Medaglia, Lei non lo abbandonerà più e lo condurrà alla fede.  

La storia vocazionale di Caterina (1806–1876) è spesso raccontata come un percorso semplice verso la chiamata mistica della Medaglia Miracolosa. Se però ci si sofferma sul frammento della sua vita familiare — in particolare sulla resistenza del padre alla sua vocazione — emerge un nodo umano e spirituale di grande intensità: dovere filiale contro chiamata divina, obbedienza terrena contro obbedienza a Dio.

Nel 1815, a nove anni, rimase orfana di madre: quel lutto la costrinse a crescere in fretta e ad assumere responsabilità domestiche, occupandosi della casa e dei fratelli più piccoli. In una società rurale del primo Ottocento, per una ragazza le opzioni praticabili erano poche: matrimonio, lavoro domestico, o — per chi poteva accedervi — la vita religiosa. Il padre, Pierre Labouré, prese una posizione netta contro l’idea che la figlia lasciasse la casa per entrare in convento. Le fonti concordano sul punto che la sua resistenza fu motivata soprattutto da ragioni concrete: aveva bisogno di una figlia che mantenesse la casa e sostenesse la famiglia, e quindi cercò di scoraggiare quella scelta.

Per “mettere alla prova” la determinazione di Caterina (o per allontanarla dalla vocazione), la mandò a Parigi a lavorare nell’esercizio commerciale dei suoi fratelli.  Qui sta una delle chiavi spirituali della vicenda: Caterina non reagì con ribellione; la sua risposta fu il paziente perseverare e una tensione profonda verso l’obbedienza. Pur essendo ormai maggiorenne (nel 1830 aveva 24 anni), ella sentiva che la sua perfezione spirituale richiedeva — paradossalmente — anche la sottomissione al padre: voleva la sua benedizione.

Questo tratto non è un mero aneddoto morale ma la manifestazione di una formazione religiosa radicata nel senso del dovere e del rispetto filiale, che sarebbe poi diventato parte integrante della sua santità di «silenzio e servizio». Dopo anni di attesa e dopo che vari eventi mostrarono che la sua vocazione non era un capriccio passeggero, il padre acconsentì. Caterina entrò al Noviziato delle Figlie della Carità a Parigi, nella Casa Madre di Rue du Bac, nell’aprile del 1830. L’ingresso non fu una fuga ma un’espressione di libertà maturata: lei, pur avendo sopportato il rifiuto e la prova, scelse di chiedere la benedizione e la condivisione del padre — e ottenne infine il permesso.

La vicenda solleva una domanda teologica e morale sempre attuale: quando la chiamata – personale o di un figlio – sembra scontrarsi con responsabilità concrete verso la famiglia, quale criterio adottare? Questa vicenda suggerisce l’importanza del discernimento: Caterina non impose la sua scelta ma la portò avanti con determinazione e preghiera. Ma insegna anche il rispetto per i legami affettivi: il desiderio della benedizione paterna mostra che la vocazione non cancella i legami familiari; anzi, può arricchirli se vissuta con fede e nella fede.

L’iniziale “no” del padre di Caterina Labouré, dunque, non fu la fine della vocazione ma la sua scuola. Fu tramite il conflitto tra obbligo e grazia che la santa imparò a incarnare una vocazione fatta di pazienza, obbedienza e servizio nascosto. Da qui nasce la sua figura, così amata: una santa delle cose semplici, che riassume come la chiamata divina possa dispiegarsi attraverso le realtà più prossime e persino ostili dell’esistenza quotidiana.

Fabrizia Perrachon

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