Il 29 novembre 1971 si spegne Edith Mary Tolkien (nata Bratt), moglie del Professore e figura fondamentale non solo nella biografia di Tolkien, ma anche nel cuore stesso della sua mitologia.
Nata a Gloucester il 21 gennaio 1889, Edith venne al mondo fuori dal matrimonio e assunse il cognome della madre, Frances. Questa ferita iniziale segnò profondamente la sua crescita, al punto che per tutta la vita non volle mai rivelare ai suoi figli l’identità del nonno paterno. A soli quattordici anni rimase orfana anche della madre e fu affidata a un convitto femminile vicino Evesham, dove ricevette un’educazione severa ma solida, e dove poté coltivare il suo talento per il pianoforte, la musica e il canto.
Fu proprio questo talento — elegante, delicato, quasi fiabesco — a colpire immediatamente il giovane Ronald Tolkien quando, anni dopo, si ritrovarono a vivere sotto lo stesso tetto nella pensione di Birmingham. Lui era di tre anni più giovane e ancora studente; lei, già segnata dagli urti della vita, sapeva ridere e suonare con una grazia che sembrava venire da un altro mondo.
Da quell’incontro nacque un affetto profondo, spontaneo, destinato però a scontrarsi con le regole e la fermezza del tutore di Tolkien, Padre Francis Morgan, che giudicò la relazione un pericolo per la carriera del ragazzo. Ronald accettò il divieto fino ai suoi ventun anni, vivendo in silenzio una distanza che pesava su entrambi. Edith arrivò persino a fidanzarsi con un altro uomo, ma quando Tolkien raggiunse la maggiore età e finalmente le scrisse, lei ruppe ogni esitazione. Lo scelse. Lo aspettava.
Si sposarono il 22 marzo 1916, poco prima che Tolkien partisse per il fronte della Grande Guerra. Da lì iniziò un cammino insieme durato più di cinquant’anni, attraversato da difficoltà economiche, malattie, traslochi continui, ma anche dall’arrivo dei quattro figli: John, Michael, Christopher e Priscilla. Edith rimase al fianco di Ronald con quella forza silenziosa che non chiede riconoscimenti: quando lui rischiava la vita in trincea, lei vegliava; quando lui costruiva lingue e mondi inesistenti, lei suonava per lui; quando la fama divenne un peso, lei gli offrì riparo nelle mura di casa.
È noto — e non è affatto un romanticismo postumo — che Edith fu l’ispirazione viva di Lúthien Tinúviel, la più bella fra le elfe. Tolkien stesso lo dichiarò più volte. I ricordi familiari la descrivono come una ragazza dai capelli scuri, dagli occhi luminosi e dalla voce melodiosa. Basta guardare la storia di Beren e Lúthien per riconoscere qualcosa del loro amore: la fedeltà nelle prove, la scelta sempre rinnovata, la bellezza che resiste alla sofferenza.
Negli anni della pensione si trasferirono a Bournemouth per vivere più serenamente. Là, il 29 novembre 1971, Edith morì a ottantadue anni. Tolkien ne fu devastato. Nelle lettere al figlio Christopher la chiamò “la mia Lúthien”, con un dolore che si sente respirare tra le righe. Due anni dopo morì anche lui: ora riposano insieme nel cimitero di Wolvercote. Sulla lapide, sotto il nome “Edith Mary Tolkien”, è inciso Lúthien. Sotto “John Ronald Reuel Tolkien”, Beren.
Non è solo poesia: è il riconoscimento definitivo che ciò che lui scrisse sull’amore fra mortale e immortale nacque prima di tutto dalla vita reale, da lei, da loro.
Ricordare il 29 novembre significa ricordare colei che fu non solo moglie, madre e compagna, ma la radice stessa di una delle storie più luminose della Terra di Mezzo. Perché senza Edith, forse Lúthien non avrebbe mai cantato. E senza Lúthien, nemmeno Tolkien.
Il matrimonio cristiano secondo Tolkien
Il matrimonio, nella visione cristiana che Tolkien trasmise ai suoi figli, non è mai un semplice slancio romantico: è una vocazione. Un atto di volontà che coinvolge tutta la persona, corpo e spirito, e che si alimenta attraverso castità, purezza, abnegazione, dono di sé e sacrificio gioioso. Per Tolkien, l’amore vero è una scelta quotidiana: “L’amore è un atto della volontà. Una volontà che decide di amare anche quando la passione non c’è.”
Questa volontà diventa abnegazione: un chinarsi verso l’altro, sostenendolo e proteggendolo. “Il vero amore implica l’abnegazione. Non è possesso, ma dono di sé.”
La purezza, tanto raccomandata ai figli, non è un moralismo ma un terreno fertile di fiducia reciproca: la castità custodisce l’altro come un tesoro, non come un oggetto. È disciplina del cuore, è rispetto. E non esiste amore senza sacrificio: “Non puoi avere la torta e mangiarla. Se vuoi una relazione profonda, devi scegliere di rinunciare a qualcosa per l’altro.”
Un sacrificio che, nella visione cristiana, diventa paradossalmente fonte di gioia, perché in esso si realizza il Vangelo: chi dona sé stesso trova una vita più piena, come il seme che muore porta più frutto. La passione va e viene: la fedeltà, invece, costruisce. “La fedeltà alla parola data è la radice dell’amore vero.”
E questo Tolkien lo comprese fino in fondo, quando scrisse in tarda età: “Ho amato tua madre per tutta la mia vita. Non sempre facilmente, ma sempre sinceramente.” Una frase che racchiude tutto: non l’amore perfetto, ma l’amore fedele; non l’amore senza croce, ma l’amore che nella croce trova la sua gioia.
Daniele Chierico
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