Ho partorito un figlio morto, ma con Gesù ho vissuto un’esperienza di Cielo

Mi scusi… volevo chiederle: non c’è un orario per le visite?”. Ero stremata dalle pillole che stavo assumendo per favorire l’espulsione del feto, dopo aver scoperto un aborto spontaneo alla quindicesima settimana. Ero sola dalle 8, ora si erano fatte le 14 e l’infermiera era entrata in stanza con il mio zaino pieno di cambi, mentre a lui, mio marito, lo avevano lasciato fuori. Speravo di vederlo entrare, invece.

Premetto che avevo il cuore in mille pezzi. Ero arrivata nel reparto maternità con gli occhi gonfi e faticavo a voltarmi verso le stanze abbellite dai fiocchi con i nomi dei piccoli. Che belle le neomamme, stanche, ma felici, con i loro bimbi in braccio o nelle culle. Perché io – che pure dovevo ringraziare il Signore per il dono di due figli stupendi a casa – non potevo più rivivere quei momenti unici e irripetibili? Mi ero seduta nel posto letto numero 17, di una stanza vuota, iniziando a piangere ancora di più, prima di assumere le pillole. Davanti a me un fasciatoio che non mi sarebbe servito, perché mio figlio l’avrei partorito morto. Che calvario, che pena. Che orrore la morte.

In altre circostanze è permesso, sì, che entri qualcuno. – mi ha risposto l’infermiera non senza imbarazzo, vedendomi contorcere dal dolore e con il viso pallido – I compagni delle neomamme sono ammessi dall’una di pomeriggio alle diciannove, generalmente, ma nei casi come il tuo… beh, nel caso di un intervento per un aborto interno le regole anti-covid, teoricamente, non permettono visite…

Ricapitolando la crudeltà che mi era appena stata riferita: siccome io non avrei messo al mondo un bimbo vivo, potevo pure essere abbandonata col mio piccolo morto (e vi assicuro che di abbandono si tratta, visto che, con un personale sottorganico, nessuno mi faceva compagnia, nessuno mi rivolgeva la parola, nessuno svolgeva in qualche modo un’opera di accompagnamento nei miei confronti). La logica utilitaristica di quella regola apparentemente stupida e insulsa mi è stata subito chiara: io non avevo nessuno da prendere in braccio, allattare, cullare… quindi non serviva che un compagno sgravasse il lavoro del personale sanitario. Potevo pure restare sola su quel letto, ingoiando le pillole e il mio lutto in silenzio.

Voi non sapete cosa sia l’umanità. – ho detto – Non avete idea di come mi senta io. I figli, vivi o morti che siano, si fanno in due! Mio marito ha diritto ad esserci, come tutti gli altri papà di questo reparto! Lo capite che sto vivendo un lutto in completa solitudine? Nemmeno i cani si trattano così… Domani sarete su tutte le testate giornalistiche per cui lavoro… è una promessa!”, ho tuonato. “Mi dispiace, sono le regole – ha ribadito l’infermiera, scura in volto – Tu hai ragione, io sono d’accordo con te, ma i protocolli prevedono questo…

Che vergogna!”, ho detto infine, scuotendo il capo. Non ero in me. L’infermiera, capendo la situazione, è andata dalla caposala e ha ottenuto un’eccezione: mio marito, con un tampone negativo fatto a sue spese, è potuto entrare e restare con me. Una norma di buonsenso – che varrebbe pure nel regno animale – non dovrebbe essere “concessa” come una eccezione ad un essere umano: dovrebbe essere un diritto garantito dalla legge non restare sole (dalle tre alle quindici ore per l’espulsione, e poi altrettante per l’operazione di raschiamento della placenta e la conseguente ripresa dall’anestesia) a partorire un figlio morto. Due giorni in ospedale da sole con un macigno del genere: chi può pensare simili atrocità?

Ringrazio, tuttavia, il reparto dell’ospedale che al protocollo ha anteposto la salute mentale ed emotiva di una paziente. Anche perché, grazie a quell’eccezione, ho ricevuto un vero e proprio miracolo. È stato mio marito, infatti, che, vedendomi tormentata in tutti i sensi, verso le 17.30 mi ha chiesto se volessi farmi portare la comunione in stanza dal cappellano dell’ospedale. Io ho detto di sì, il sacerdote è dunque arrivato prestissimo e, subito dopo aver accolto Gesù in me, il mio cuore è cambiato. “Ora che ci sei tu posso tutto”, gli ho detto. E Lui non si è fatto attendere.

Credevo che quel parto mi avrebbe segnata per tutta la vita; credevo che avrei avuto gli incubi per settimane, e invece, quando è successo (esattamente due minuti dopo aver ricevuto l’Eucaristia ho avuto la contrazione definitiva!), non ho visto la morte, ho visto solo mio figlio. Non avevo più rimpianti per la sua vita spezzata, ma solo gratitudine per averlo chiamato all’esistenza. In quella stanza, che odorava di morte fino a un minuto prima, con l’Eucaristia, era entrata la resurrezione.

Non mi sentivo più furiosa con il personale, ma grata per avere comunque un’assistenza sanitaria, non scontata in tutte le parti del mondo. Sono seguite ore intrise di una pace vera, salda, profonda, che non avrei mai immaginato in una situazione simile. Quella pace, surreale per ciò che stavo vivendo, ma realissima, perché mi scaldava il cuore, è durata fino alle dimissioni avvenute la mattina dopo. Mi sentivo così unita a Dio che non avevo più bisogno di nulla. Non avevo più paura di nulla. Tutto potevo, in Colui che mi dava forza. Riuscivo persino a sorridere, senza per questo banalizzare il momento, alle infermiere o alla nuova compagna di stanza, giunta la sera. Ero un’altra, stravolta da una serenità disarmante che mi faceva sentire già un po’ in Paradiso.

Ho vissuto quella Eucaristia come un dono grande, immenso, inaspettato, che non ha cambiato la realtà, ma ha cambiato me. Radicalmente. Sapevo che morendo con Cristo sarei risorta con Cristo, ma non pensavo di vedere la luce nel punto che doveva essere il più buio di quella storia. E, tutto questo, grazie alla violazione di una norma che ha permesso a mio marito di prendersi cura di me, quando io invece non ero in grado di prendermi cura di me stessa. La potenza del matrimonio: Dio che si serve dello sposo, della sposa, per farci arrivare il suo amore. Il sacramento del matrimonio e quello dell’Eucaristia così strettamente uniti, ancora una volta, nella nostra famiglia.

La ripresa da questo lutto non è ancora avvenuta del tutto: Dio mi ha tolto il peso più grande, mi ha sgravato della parte più pesante della croce, quella che mi terrorizzava di più, prendendosela davvero tutta lui e lasciandomi un ricordo di cielo anche per questo parto, (pure se tutto avrebbe dovuto gridare morte), ma non mi ha tolto la mia umanità.

Il vuoto rimane. Questo bambino, che abbiamo chiamato Emanuele (“Dio-con-noi”) deve essere pianto, anche per tutti i bambini che nessuno piange. Ora, però, so, ancora più di prima, da dove ripartire quando la vita mi schiaccia. Quando quel vuoto mi toglie il respiro. Da Gesù. Che è e resterà per sempre, Via, Verità e Vita.

Cecilia Galatolo

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