Appartenersi come dono da custodire

Cari sposi, la scelta di questa immagine campestre è felice perché pastore e pecora vivono una profonda simbiosi, cioè letteralmente una vita assieme. Un concetto che rimanda per analogia ai “consorti”, cioè coloro che condividono un medesimo destino.

Difatti, i pastori nell’antichità trascorrevano la quasi totalità del loro tempo assieme alle pecore. Era una vita impegnativa, spesso all’aperto e dormendo all’addiaccio. Perciò, l’immagine del pastore ha anche un connotato sponsale, perché appunto manifesta una prossimità e una condivisione con le pecore pressoché totale. E fin qui, per chi lo ascoltava all’epoca Gesù non diceva grandi novità, era una prassi comune. Ma allora cosa vuole insegnare concretamente a voi sposi?

Anzitutto che tra pastore e pecora ci deve essere reciprocità. In effetti, quando Gesù dice che il pastore le conosce una per una ed esse riconoscono immediatamente il suo tono e timbro di voce, tra i tanti suoni che odono, allude proprio a quell’intimità tipica di marito e moglie. Non a caso Giovanni utilizza qui il verbo “conoscere” imprimendogli un’accezione molto forte dal momento che indica condivisione di vita e appartenenza reciproca. E infatti, se tale rapporto sussiste tra il Figlio e il Padre, esso ora si estende alle pecore, che entrano in questa “conoscenza”, intesa come appartenenza esistenziale e amorosa.

Tutto il contrario del mercenario. Esso effettivamente rappresenta un modo egoista di vivere la vita matrimoniale che non necessariamente è di uno solo ma potrebbe anche divenire di entrambi, e non per forza deve durare anni ma può essere anche assai limitato nel tempo. Ad ogni modo, fa danni! Accade che tale mentalità si instauri sia per prevaricare l’altro oppure quando mi lascio usare perché non mi considero amabile, dimentico Chi è mio Padre e di quale Amore mi ha dotato lo Sposo Gesù.

Tuttavia, tra pastore e pecore, ossia tra coniugi, non deve neppure sussistere la legge dell’equilibrio “karmico”, così insidiosa specie per chi è più in là nel tempo. Un modo di impostare la relazione che mira ad avere i propri spazi e soprattutto a non litigare più. Sarebbe l’anticamera dell’apatia.

Quando Gesù si qualifica come buon Pastore, colui che ama al punto di consegnare la propria vita alle pecore, lo dice per due grandi motivi. Anzitutto, sapendo di essere strumento nelle mani del Padre. Quante volte Gesù ci ricorda di non essere venuto da sé ma di volerci condurre al Padre! Così, nel matrimonio, gli sposi sono consapevoli che in ultima istanza il loro amore, santificato e consacrato dal sacramento, non si fonda più sulla propria buona volontà, benché la supponga, ma è un dono da riconoscere e poi condividere.

Inoltre, qual è la gran differenza con il mercenario se non che il Pastore ha creato una relazione stabile con le pecore? Non si dirà mai abbastanza sul fatto che il primo “figlio” degli sposi è la loro relazione, il loro legame, il principale dei tanti beni che si condividono.

Il mercenario non vede proprio la relazione con le pecore ma guarda a cosa ne può ricavare. Parimenti, voi sposi siete chiamati a custodire il bene del “noi”, come quello da cui dipendono tutti gli altri (figli, intimità sessuale, tempo libero, amicizie…) e siete chiamati particolarmente oggi quando il senso di relazione è così labile.

Cari sposi, quanto più appartenete al Padre, tanto più vi appartenete reciprocamente. Quanto più riconoscete di essere amate a Lui, più avrete la forza e il coraggio di darvi reciprocamente vita. Questa è la dolce verità che Gesù, Buon Pastore ci ricorda oggi.

ANTONIO E LUISA

Io sono il buon pastore. Il buon pastore offre la vita per le pecore. Il matrimonio è questo: offrire la vita per l’altro. In tanti piccoli gesti quotidiani, in scelte all’apparenza banali, che però diventano la cifra di un’alleanza d’amore. Un’alleanza a tre. Dove Dio diventa forza, origine e destinazione e dove nel dono reciproco troviamo il senso della nostra vita: amare e accogliere l’amore dell’altro.

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