Mogli siate sottomesse. Una visione patriarcale o forse….rivoluzionaria?

Dopo aver affrontato le prime quattro catechesi della Teolgia del Corpo di Giovanni Paolo II riguardanti il matrimonio clicca qui per leggerle), mi fermo per condividere con voi una mia riflessione. Quando leggiamo il capitolo 5 della Lettera agli Efesini, spesso ci scontriamo con una frase che mette in difficoltà: “Le mogli siano sottomesse ai loro mariti come al Signore” (Ef 5,22). È una di quelle espressioni che, lette oggi, possono sembrare anacronistiche e maschiliste. Molti si fermano qui, giudicando Paolo come figlio di una cultura patriarcale e quindi poco attuale. Eppure, se entriamo nel cuore del testo, ci accorgiamo che proprio qui avviene una delle rivoluzioni più radicali della visione cristiana del matrimonio.

Il contesto patriarcale

Per capire la portata delle parole di Paolo bisogna ricordare che la società del suo tempo era fortemente patriarcale. La moglie era considerata, di fatto, una proprietà del marito, come i figli o i beni della casa. L’uomo decideva, comandava e possedeva. In questo contesto, parlare di “sottomissione” della donna non era affatto una novità: era la regola. La donna non aveva voce.

E allora, perché Paolo riprende proprio questa espressione? Non perché la condivida senza critica, ma perché la utilizza come punto di partenza, per poi rovesciarla dall’interno. Paolo non giustifica la cultura del suo tempo: la usa come trampolino per annunciare qualcosa di nuovo.

Il vero cuore del testo non è al versetto 22, ma al 21: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”. Qui Paolo introduce una novità assoluta: la reciprocità. Non è solo la moglie a dover “essere sottomessa”, ma entrambi i coniugi sono chiamati a una sottomissione reciproca. Questa è la chiave di lettura: non c’è un rapporto di potere, ma una dinamica di dono. Ed è qui che entra in gioco il verbo decisivo: donare. Paolo non chiede al marito di “dominare”, ma di “dare se stesso”, come Cristo ha dato se stesso per la Chiesa. Questa è una rivoluzione.

L’uomo che si fa dono

In un mondo in cui l’uomo era il padrone, Paolo dice: il marito deve amare la moglie “come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5,25). Non c’è nulla di maschilista in questo: al contrario, è una richiesta di responsabilità e di amore radicale. Il marito non è il padrone, ma colui che si sacrifica, che serve, che si dona fino alla fine. Se pensiamo alle parole di Gesù nel Vangelo – “Chi vuole essere il primo tra voi, sia il servo di tutti” – capiamo che Paolo non fa altro che applicarle al matrimonio. La vera autorità non è il comando, ma il servizio. Non è dominare, ma donarsi.

La donna che accoglie

E la moglie? Paolo non le chiede di essere passiva o sottomessa nel senso di schiava. Le chiede di accogliere, di fidarsi, di vivere una relazione di comunione. Se il marito è chiamato a donarsi, la moglie è chiamata ad accogliere quel dono, a rispondere con la stessa logica di amore e fiducia. È un reciproco scambio di donazione e accoglienza, dove ognuno rivela un volto del mistero di Cristo e della Chiesa.

Se proviamo a leggere questo passaggio con le categorie dell’Analisi Transazionale, vediamo che Paolo invita a uscire dalle dinamiche di potere – quelle tipiche dei “giochi psicologici” in cui uno domina e l’altro subisce – per entrare in una dinamica adulta, di reciprocità. Il marito non agisce da “Genitore severo”, la moglie non da “Bambino sottomesso”: entrambi sono chiamati a un dialogo da “Adulti liberi”. Questo è il senso profondo della “sottomissione reciproca”: non è annullamento, ma libertà vissuta nell’amore.

Oggi, in una cultura che ha superato il patriarcato ma rischia di cadere nell’individualismo, questo testo rimane profetico. Non dice: “Uno comanda e l’altro obbedisce”. Dice: “Amatevi donandovi reciprocamente, come Cristo ha amato la Chiesa”. È un invito a uscire dalla logica dell’egoismo e dell’orgoglio, per costruire un rapporto dove ciascuno si prende cura dell’altro. Nel matrimonio cristiano non c’è spazio per la sopraffazione: c’è spazio solo per la comunione. E la comunione si costruisce nel quotidiano, nei piccoli gesti che diventano sacramento.

Quando un marito, stanco dal lavoro, si siede ad ascoltare sua moglie senza fretta, lì si compie Efesini 5. Quando una moglie, ferita da una parola, sceglie di perdonare, lì si realizza Efesini 5. Quando entrambi si sostengono nelle difficoltà senza calcolare chi dà di più, lì si manifesta il mistero di Cristo e della Chiesa.

È in quelle piccole liturgie quotidiane – un piatto cucinato, un abbraccio, una parola di incoraggiamento – che si rivela la grandezza di questo testo. Paolo non voleva imprigionare la donna in un ruolo subalterno, ma liberare entrambi in un amore che non si misura sul potere, bensì sul dono.

Efesini 5 non è un manifesto del maschilismo, ma la rivelazione che il matrimonio è immagine viva del mistero di Cristo. San Paolo parte da un linguaggio patriarcale, perché era quello comprensibile ai suoi ascoltatori, ma lo trasforma dall’interno, proponendo una novità inaudita: l’amore sponsale come dono reciproco.

Il marito che ama donando se stesso e la moglie che ama accogliendo e donandosi a sua volta: questa è la vera rivoluzione cristiana. Ed è questa la strada perché ogni matrimonio diventi una piccola Chiesa domestica, dove l’ordinario si trasforma in straordinario, e la vita comune diventa via di salvezza.

Antonio e Luisa

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