L’amore cristiano non giustifica la debolezza, ma la redime

Negli ultimi documenti della Chiesa italiana l’accoglienza delle persone LGBT è stata indicata come una priorità pastorale. In particolare, il documento finale dell’Assemblea Sinodale italiana ha sottolineato che “Accoglienza è la parola chiave del documento, verso le persone Lgbtq […] con l’invito a parrocchie e diocesi a non discriminarle”, impegnando le comunità ecclesiali a riconoscere e accompagnare le persone omosessuali e transgender e le loro famiglie. Questo segna un passo importante verso una Chiesa più aperta e misericordiosa.

Tuttavia, come credenti sappiamo che l’accoglienza da sola non basta: occorre anche accompagnare ogni persona verso la pienezza della verità del Vangelo. L’amore autentico, infatti, non si limita a un generico “venite come siete”, ma invita ciascuno a diventare ciò per cui è stato creato, secondo il disegno amorevole di Dio.

Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggettivamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Devono essere accolti con rispetto, compassione e delicatezza. Si eviterà, nei loro confronti, ogni marchio di ingiusta discriminazione»(CCC 2358).

Ma l’accoglienza evangelica proprio perché è vera e non superficiale, si unisce sempre alla chiamata alla santità. Per questo il Catechismo prosegue affermando che le persone omosessuali sono chiamate alla castità. Mediante le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, talvolta mediante il sostegno di un’amicizia disinteressata, della preghiera e della grazia sacramentale, possono e devono gradualmente e risolutamente avvicinarsi alla perfezione cristiana (CCC 2359).

Alla luce di queste parole, l’accoglienza non significa relativizzare la verità sull’amore umano, ma aiutare ogni persona — qualunque sia la sua storia — a scoprire che la via della felicità passa sempre per la libertà del cuore, la castità e la comunione con Dio. Solo così la Chiesa può essere realmente madre: capace di abbracciare senza giudicare, ma anche di educare senza temere la verità, indicando a tutti la bellezza del Vangelo dell’amore.

Essere cristiani significa riconoscersi figli di un Re, amati e chiamati a una vocazione alta: la santità. Ogni persona – anche chi vive attrazioni omoaffettive o situazioni difficili – conserva un valore inalienabile. Ma proprio per questo non possiamo accontentarci di una tolleranza superficiale. Chi ama davvero non si limita ad accogliere, ma desidera il bene dell’altro, lo guida, lo educa, come un padre che accoglie sempre ma non smette di correggere.

Viviamo in un tempo in cui molti credono che non esista una legge naturale, che ognuno debba “trovare la propria verità”. È il relativismo, che confonde libertà e arbitrio e riduce l’amore a un sentimento passeggero. Ma la verità cristiana ci dice che la legge morale non è un peso, bensì il “libretto di istruzioni” del cuore umano. Essa ci indica come diventare pienamente uomini e donne, in sintonia con il progetto di Dio (cfr. Giovanni Paolo II, Lettera alle famiglie, 13).

San Giovanni Paolo II, nella Teologia del corpo, chiama questo progetto “il bell’amore”: un amore vero, bello e pieno, che riflette la bellezza stessa di Dio. È l’amore che unisce corpo e spirito, verità e libertà, eros e agape, riconciliandoli nel dono reciproco. Il “bell’amore” non è un’emozione effimera, ma un cammino di purificazione e di grazia in cui l’uomo e la donna imparano a donarsi senza possedersi, ad accogliersi senza ridursi a oggetto di desiderio.

In questo senso, il “bell’amore” è l’antidoto al relativismo: mostra che la libertà non consiste nel fare ciò che si vuole, ma nel volere ciò che conduce al vero bene. È un amore casto nel senso più pieno del termine — non negazione del corpo, ma educazione del cuore — capace di integrare la forza del desiderio con la verità del dono.

Solo in questa prospettiva l’uomo e la donna possono ritrovare la propria identità profonda, riscoprendo nel corpo il linguaggio della comunione e non dell’uso, della fedeltà e non del consumo. Il “bell’amore” diventa così la via concreta per vivere la legge morale non come un limite, ma come la strada che conduce alla gioia piena: quella di essere, finalmente, ciò per cui siamo stati creati — immagine viva dell’Amore di Dio.

L’amore sponsale: tutto il cuore, tutta l’anima, tutto il corpo

Il matrimonio, segno dell’amore di Dio, è caratterizzato dal “tutto”: tutta l’anima, tutto il cuore e tutto il corpo. Per questo è indissolubile ed esclusivo. Nell’incontro tra un uomo e una donna, nella loro differenza sessuata, l’amore diventa generativo. L’unione dei corpi, nell’amplesso vissuto in un legame sacramentale, è espressione di una comunione totale: l’amore diventa fecondo, apre alla vita, rende visibile l’immagine del Creatore che dona se stesso.

Questa è la ragione per cui la Scrittura dice che Dio creò l’uomo – l’essere umano – come Ish e Isha, maschio e femmina. La differenza sessuale non è un ostacolo, ma la condizione della comunione. L’intimità fisica tra sposi uniti nel sacramento è linguaggio d’amore, segno del dono totale di sé. Il corpo, in questa prospettiva, non è accessorio né indifferente: è luogo teologico, tempio in cui Dio si rivela e unisce.

Per questo motivo, non può esistere una piena comunione sponsale tra due persone dello stesso sesso. Non si tratta di giudicare i sentimenti – che possono essere sinceri, profondi, persino generosi – ma di riconoscere che manca l’unità nel corpo che è propria dell’amore sponsale. Il sesso, in tali relazioni, non può esprimere l’unione dei complementari, ma diventa inevitabilmente un gesto che usa l’altro, senza poterlo accogliere nella sua differenza generativa.

Accoglienza sì, ma nella verità che salva

Non si nega che tra persone omoaffettive possa esistere affetto, compagnia, solidarietà. Ma questo non equivale al matrimonio e alla famiglia. Il Magistero ricorda che la vera misericordia non è benedire tutto indistintamente, ma illuminare con chiarezza cosa l’amore richiede per essere davvero tale. Non esiste “amore omosessuale” o “eterosessuale”: esiste l’amore, che però si esprime secondo la verità del corpo. E noi, che crediamo in un Dio incarnato, sappiamo che il corpo è parte essenziale della nostra fede.

San Giovanni Paolo II, nella Veritatis Splendor (n. 104), ammonisce che mentre è umano che l’uomo, avendo peccato, riconosca la sua debolezza e chieda misericordia per la propria colpa, è invece inaccettabile l’atteggiamento di chi fa della propria debolezza il criterio della verità sul bene, in modo da potersi sentire giustificato da solo, anche senza bisogno di ricorrere a Dio e alla sua misericordia». Questo atteggiamento, prosegue il Papa, «corrompe la moralità dell’intera società, perché insegna a dubitare dell’oggettività della legge morale e a rifiutare l’assolutezza dei divieti morali, confondendo tutti i giudizi di valore.

Alla luce di queste parole, comprendiamo che la misericordia non può mai essere separata dalla verità. L’amore cristiano non giustifica la debolezza, ma la redime; non chiude gli occhi davanti al peccato, ma lo illumina con la grazia. La Chiesa accoglie ogni persona con rispetto e compassione, ma allo stesso tempo richiama ciascuno alla conversione, perché solo nella verità del corpo e del dono reciproco l’amore trova la sua forma piena e liberante.

Essere misericordiosi non significa cambiare la verità per adattarla alla fragilità umana, ma offrire alla fragilità la possibilità di essere guarita dalla verità. Solo così la misericordia conserva la sua forza salvifica e l’amore resta ciò che è: il riflesso dell’Amore di Dio, che non si limita a comprendere, ma trasforma.

Troppo spesso la teologia moderna tende a spiritualizzare l’amore, dimenticando la dimensione corporea. Ma Dio ci ha salvati attraverso un corpo, quello di Cristo. Nell’Eucaristia mangiamo il suo corpo per essere una cosa sola con Lui. Il corpo, quindi, è via di comunione e di redenzione. Per questo il sesto comandamento non è un residuo moralistico: è il grande dimenticato di oggi, eppure è una delle chiavi per comprendere l’unità dell’amore umano. Restano nove comandamenti quando togliamo quello che riguarda la purezza del cuore.

Gesù, nel Vangelo, mostra come si possa coniugare verità e misericordia. Di fronte all’adultera, non la condanna ma neppure la giustifica: “Va’ e non peccare più”. In quelle parole si uniscono compassione e chiarezza. Gesù ama la donna, la guarda con tenerezza, ma le indica la via per ritrovare la dignità perduta. È questo lo sguardo che la Chiesa deve avere verso tutti: dire “ti amo” ma anche “sei fatto per di più”.

La castità: cammino di libertà per tutti

La Chiesa non può smettere di parlare di castità, né limitarla a chi vive attrazioni omosessuali. La castità riguarda tutti: eterosessuali e omosessuali, fidanzati e sposati, consacrati e laici. È la via attraverso cui impariamo a liberare l’amore dal possesso, dal bisogno, dall’egoismo. E non serve puntare sulla paura dell’inferno o del peccato mortale: il peccato lo si paga già su questa terra, perché ogni volta che non viviamo secondo la verità del nostro essere, sperimentiamo una forma di smarrimento e di tristezza interiore.

Come ricorda la Congregazione per la Dottrina della Fede nella Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali (n. 13), le persone omosessuali sono chiamate come gli altri cristiani a vivere la castità. Se si dedicano con assiduità a comprendere la natura della chiamata personale di Dio nei loro confronti, esse saranno in grado di celebrare più fedelmente il sacramento della Penitenza, e di ricevere la grazia del Signore, in esso così generosamente offerta, per potersi convertire più pienamente alla sua sequela.

Queste parole esprimono con chiarezza che la castità non è una rinuncia sterile, ma un cammino di libertà e di crescita spirituale. È la scuola del “bell’amore”, come direbbe san Giovanni Paolo II, in cui il cuore umano si purifica per imparare a donarsi in modo vero. Ogni cristiano, qualunque sia la sua condizione, è chiamato a percorrere questa via, lasciandosi trasformare dalla grazia.

In un tempo in cui la cultura confonde spesso libertà e desiderio, la castità rimane la forma più alta di amore perché insegna a integrare la dimensione affettiva e corporea nell’orizzonte del dono. Essa non nega la corporeità, ma la orienta, la redime e la trasfigura. È il linguaggio della libertà del cuore, capace di amare senza possedere e di accogliere senza usare.

Solo così l’uomo e la donna — e ogni persona, qualunque sia la propria storia — possono scoprire la gioia di un amore che non consuma, ma costruisce; un amore che non illude, ma salva.

Peccare, in fondo, significa “mancare il bersaglio”, vivere al di sotto della propria verità. Significa accontentarsi di un’esistenza non piena, incapace di amare fino in fondo. È una forma di tristezza spirituale che ci ruba la libertà e ci lascia più soli. Tutti, in qualche misura, siamo feriti e cerchiamo di amare con un cuore che non è ancora del tutto guarito. La castità, in questa prospettiva, è un cammino di guarigione e di verità, una scuola di libertà interiore che purifica il desiderio e lo apre all’amore autentico.

Come ricorda Giorgio Ponte, scrittore cattolico omoaffettivo, le volte in cui ha vissuto una castità piena sono state quelle in cui si è sentito più felice. Non perché non faceva sesso, ma perché non ne aveva bisogno per essere felice. Quando l’amore si libera dal bisogno di possedere, diventa capace di donarsi. Solo Cristo può insegnare ad amare così, perché solo Lui mostra all’uomo come essere davvero se stesso.

L’amore è vero solo nella castità

Le relazioni omoaffettive possono certamente essere attraversate da forme sincere di filía e agápē — cioè di amicizia e di amore gratuito. Come scrive Benedetto XVI in Deus Caritas Est, “l’amore è una sola realtà, ma con diverse dimensioni”; tuttavia, perché sia pienamente umano, deve integrare eros, filía e agápē in un’unica unità armoniosa. L’eros, per sua natura, tende alla complementarità e alla fecondità che nascono dalla differenza sessuata: l’incontro tra maschile e femminile, segno visibile del Creatore stesso (Gen 1,27).

Quando l’eros è vissuto fuori da questa differenza, perde la sua apertura al dono e rischia di ripiegarsi su di sé. Giovanni Paolo II, nella Teologia del corpo, ricorda che “l’uomo si realizza solo nel dono sincero di sé”, ma il dono richiede un’accoglienza che solo l’altro, diverso da me, può offrire. Nelle relazioni omosessuali, il corpo dell’altro non rimanda al mistero della differenza, ma diventa specchio del proprio desiderio.

Per questo, pur potendo esserci affetto, tenerezza e reciproco sostegno, l’eros in tali relazioni non può diventare linguaggio del dono sponsale. Tuttavia, queste relazioni possono essere buone e portatrici di valori evangelici nella misura in cui scelgono la castità: quando si trasformano in un’amicizia profonda, in una comunione spirituale e affettiva vissuta nella continenza e nella carità. In quel caso, diventano un cammino di filía trasfigurata in agápē, segno reale di un amore che, pur non essendo sponsale, riflette comunque la luce di Cristo che unisce senza possedere e ama senza usare.

Una Chiesa che accompagna e trasforma

Il mondo non ha bisogno di una Chiesa che benedice tutto, ma di una Chiesa che ama nella verità. Una Chiesa che accompagna senza giudicare, ma anche senza rinunciare al Vangelo. Accogliere non significa approvare ogni comportamento, ma credere nella possibilità di rinascita di ogni persona.

Perché la misericordia, senza verità, diventa inganno, e la verità, senza amore, diventa pietra che ferisce. Solo l’unione di entrambe può salvare. È questa la Chiesa che il mondo attende: una madre che accoglie, educa e rialza; una maestra che non smette di insegnare la via stretta della vita. Solo così, nella luce di Cristo, possiamo riscoprirci per ciò che siamo davvero: figli del Re, creati per amare con tutto il cuore, tutta l’anima e tutto il corpo.

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