Il fine oltre la fine

Cari sposi, stiamo arrivando al termine dell’anno liturgico e presto inizierà l’Avvento, nel quale ci prepareremo alla solennità della Nascita di Gesù. In questo periodo non è facile, umanamente parlando, utilizzare la parola “fine” quando siamo a novembre, nel pieno del nostro anno o lavorativo o pastorale. Tuttavia, sappiamo bene che il tempo liturgico non coincide per forza con quello cronologico. Anzi, di per sé ciò costituisce un fatto assai positivo e utile perché ci aiuta a vivere senza sprofondare nella routine degli eventi e dei fatti quotidiani ma ci consente di tenere sulla realtà uno sguardo che sa andare oltre l’apparenza.

Proprio alla luce di questo concetto si sviluppa il Vangelo odierno. Le parole di Gesù nascono a seguito di un commento quasi banale, della serie: Come è bello questo tempio! – una frase che sarà uscita spontanea pure a noi, magari visitando splendide opere d’arte, quali San Pietro, la Sagrada Familia, l’Acropoli… ma Gesù afferra la palla al balzo e sfrutta l’occasione per andare in profondità.

Pare che il Maestro abbia qualcosa da ridire su quell’affermazione innocente e viene allora da chiedersi: che c’è di sbagliato nel fare un complimento estetico? Non è stato forse Gesù stesso nel ringraziare e lodare il Padre per la bellezza delle cose?

È interessante che anche oggi, come domenica scorsa, il filo rosso della Liturgia giri attorno al Tempio. Risulta assodato che per gli Ebrei del I secolo esso fosse il luogo centrale della presenza di Dio, il centro del culto e della vita comunitaria e nazionale e, insieme, un segno della promessa di Dio al suo popolo.

Ed ecco quindi che Gesù scorge in quegli elogi sull’architettura e sulla fattura dell’edificio sacro più importante dell’ebraismo un che di compiacimento, quasi a voler considerare le pietre e gli addobbi un motivo di vanto e sicurezza personali.

Il Catechismo ci dice che: Gesù si è identificato con il Tempio presentandosi come la dimora definitiva di Dio in mezzo agli uomini [Cfr. Gv 2,21; Mt 12,6]. Per questo la sua uccisione nel corpo [Cfr. Gv 2,18-22] annunzia la distruzione del Tempio, distruzione che manifesterà l’entrata in una nuova età della storia della salvezza: «E’ giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre» (Gv 4,21) [Cfr. Gv 4,23-24; 586 Mt 27,51; Eb 9,11; Ap 21,22].

Cosa vuole comunicarci allora il Signore? Un messaggio fondamentale che emerge dalle Sue Parole è che il credente fonda la sua certezza e la sua speranza solo su Cristo, perché ogni cosa, per quanto bella, splendida e sacra, prima o poi svanirà.

Difatti, la comunità a cui scrive l’evangelista Luca era già a conoscenza degli avvenimenti riguardanti la distruzione di Gerusalemme dell’anno 70. E tra gli Evangelisti è proprio lui che più degli altri tende a presentare il cristianesimo in una prospettiva di continuità e pienezza rispetto al culto ebraico, con il Tempio che funge da cerniera tra l’Antica e la Nuova Alleanza. Ma questo al fine di porre l’accento non più sulla grandiosità e sontuosità di quel luogo ma sulla certezza che il giorno del Signore sta per venire.

La distruzione di Gerusalemme dovette essere qualcosa di terrificante e traumatizzante per il popolo ebraico e noi italiani di inizio XXI secolo non abbiamo alcun termine di paragone per comprenderlo. Eppure, Gesù proprio con questo insegnamento si era anticipato al disastro e ci aveva già indicato di fissare lo sguardo su di Lui e non su una costruzione umana, preservando e mettendo in salvo la nostra speranza da ogni delusione umana.

Per cui, in prossimità della fine dell’anno liturgico, siamo invitati a intravedere oltre ad essa, alla fine del tempo, il fine di tutto, cioè Cristo, Signore del tempo e dell’eternità. Non è in fondo quello che ascoltiamo nella Veglia Pasquale? Il Cristo ieri e oggi: Principio e Fine, Alfa e Omega. A lui appartengono il tempo e i secoli. A Lui la gloria e il potere per tutti i secoli in eterno. Amen.

Cari sposi, anche in questo caso la Parola si traduce e si rivolge a voi. Difatti, il matrimonio stesso ha un valore e un senso escatologico, cioè ci parla delle realtà ultime, della Vera Vita che ha da venire. Ce lo ricorda Papa Giovanni Paolo II in Familiaris consortio quando scrive: il matrimonio è profezia dell’Alleanza tra Cristo e la Chiesa (n. 13), quindi ha una dimensione escatologica.

Il matrimonio è un rapporto transeunte e provvisorio perché legato a questo mondo, non possedendo in sé steso un valore ultimo ma un rimando ad Altro. Proprio per questo, il matrimonio mostra la sua bellezza, perché impedisce ai coniugi di diventare schiavi l’uno dell’altro e, dall’altro lato, fa sperimentare loro che la fonte dell’Amore non proviene da loro stessi ma da Dio.

Cari sposi, se siete giustamente orgogliosi del rapporto che avete costruito e fieri di tutto lo sforzo che esso ha implicato per renderlo stabile, ascoltate Gesù che, come ai discepoli che ammiravano il Tempio, vi ricorda che il vostro rapporto non è vincolato alla caducità di questo mondo ma è chiamato ad essere trasfigurato in Cristo, l’Unico che può donargli un valore di infinito.

ANTONIO E LUISA

All’inizio del nostro amore mi capitava spesso di pensare e dire frasi assolute: “Sei il mio tutto”, “Senza di te non vivo”, “La mia vita sei tu”. Parole nate dall’innamoramento, belle ma rischiose. Col tempo ho capito che stavo mettendo sulle spalle di Luisa un peso enorme: quello di dover colmare ogni mia mancanza, ogni mio vuoto, ogni mio bisogno di pienezza. In pratica, stavo rischiando di farne un idolo.

È stato un cammino interiore forte. Nel cuore percepivo come una voce che mi diceva: Guarda la donna che ti ho affidato: è splendida, ma fragile, incompleta… come te. Non può riempire il desiderio di eternità che porti dentro. Solo io posso farlo. Non metterla al mio posto. Questa consapevolezza mi ha liberato. Amare Luisa non significava farla diventare il centro assoluto della mia vita, ma lasciar fare a Dio quel lavoro profondo e, con la sua forza, amarla davvero.

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