Il dolore e il perdono: un amore autentico in Osea

Accusate vostra madre, accusatela, perché lei non è più mia moglie e io non sono più suo marito. Tolga dalla sua faccia i segni delle sue prostituzioni e dal suo petto i segni del suo adulterio… (Os 2,4)

Perciò, ecco, io la sedurrò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. (Os 2,16)

Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, nella fedeltà, e tu conoscerai il Signore. (Os 2,21-22)

La Scrittura non ha paura di mostrare l’amore nel suo punto più fragile. La storia di Osea e Gomer non comincia con parole tenere, ma con un’accusa dura, quasi brutale. C’è rabbia, c’è umiliazione, c’è la ferita aperta dell’infedeltà. Non viene censurata. Non viene spiritualizzata. Viene detta.

Ed è proprio questo a renderla sorprendentemente vera anche oggi. C’è una forma di infedeltà che non fa rumore. Non esplode in uno scandalo, non arriva subito all’adulterio conclamato, ma scava lentamente. È l’infedeltà quotidiana: lo sguardo che si ritrae, la presenza che si spegne, l’altro che smette di essere scelto. Come l’acqua che scorre sotto un ponte, può sembrare innocua, ma alla lunga è capace di far crollare anche i matrimoni più solidi.

Il testo di Osea intercetta questa verità profonda: l’infedeltà non è solo un atto, ma un processo. E quando diventa manifesta, mette la coppia davanti a un bivio che la nostra cultura conosce bene: condannare o chiudere un occhio. Vendicarsi o normalizzare. Tagliare o tollerare.

Osea sceglie una terza via, che è la più faticosa: restare senza negare il dolore.

Dal punto di vista psicologico, Osea è un uomo attraversato da una rabbia autentica. Non la rimuove. Non la maschera di spiritualità. La esprime. In termini di Analisi Transazionale, potremmo dire che il suo Bambino ferito prende voce: chiede giustizia, riconoscimento, riparazione. Sarebbe pericoloso saltare questo passaggio. Un perdono che non attraversa la rabbia è fragile, perché non nasce dalla verità.

Ma Osea non resta lì. Sotto la rabbia, ascolta qualcosa che ancora vive: l’amore. E qui avviene il passaggio decisivo allo Stato dell’Io Adulto. Non perché il dolore sparisca, ma perché l’Adulto permette di non essere governati né dal Genitore Punitivo (“non meriti nulla”) né dal Bambino Vendicativo (“ti farò pagare”). L’Adulto sceglie nella realtà, non nell’impulso.

La condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore. Il deserto, nella vita di coppia, non è una punizione ma uno spazio di verità. È il tempo in cui cadono le illusioni, i copioni relazionali, le complicità superficiali. È il luogo in cui non si può più mentire, né all’altro né a se stessi. Solo lì può riemergere la bellezza originaria del legame.

Il perdono, infatti, non è un atto eroico né una scorciatoia morale. Se fosse dato solo “perché bisogna farlo” o per sentirsi migliori, diventerebbe un gesto forzato, persino superbo. Psicologicamente, sarebbe un perdono contaminato dal bisogno di controllo o dalla paura dell’abbandono.

Il perdono vero è una proposta di futuro. Non cancella il passato, ma dice: la tua colpa non esaurisce chi sei. Per questo non può essere vissuto da soli. Chi ha tradito è chiamato ad accoglierlo non come un lasciapassare, ma come una responsabilità nuova.

Spesso chi ha tradito si sente imperdonabile. Ed è proprio qui che il perdono dell’altro diventa profezia: riapre la possibilità di credere ancora nell’amore. Non ingenuo, non cieco, ma più adulto e più vero.

Osea non racconta una favola. Racconta un amore che rifiuta la scorciatoia. Un amore che non confonde il perdono con la debolezza, né la giustizia con la vendetta. Un amore che sceglie di restare umano, perché solo così può diventare davvero divino.

Antonio e Luisa

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