Concludiamo oggi, con questo articolo, la trilogia dedicata all’attesa del 25 dicembre. Lo abbiamo fatto prima con la riflessione “Aspettare il Natale con il coniuge“, poi con “Aspettare il Natale con i figli“. Oggi lo facciamo con la terza tappa: la più difficile ma quella da cui possono nascere i frutti più abbondanti e inaspettati.
Aspettare il Santo Natale quando si è nel dolore è forse una delle prove più grandi della fede. L’Avvento, che per molti è un tempo di gioia, di speranza e di preparativi festosi, per chi vive una sofferenza profonda può apparire come un tempo stonato, in cui le luci del mondo sembrano ferire più che consolare. La malattia, il lutto, la vedovanza, la perdita di un figlio, la precarietà del lavoro, la solitudine: tutte queste ferite rischiano di rendere difficile l’attesa del Natale. Ci si chiede come poter celebrare la nascita di Gesù quando dentro il cuore sembra esserci solo il buio.
Eppure, proprio in queste situazioni di dolore, il senso più vero del Natale si rivela in tutta la sua forza. Cristo non è venuto nel mondo per i sani, i forti o i felici, ma per i poveri, gli ultimi, i sofferenti, coloro che portano un peso che sembra insopportabile. Nasce in una grotta, non in un palazzo; viene alla luce in una famiglia semplice e perseguitata, non tra i privilegiati. L’Emmanuele, il Dio-con-noi, sceglie di condividere fino in fondo la fragilità umana: il freddo, la povertà, l’incomprensione, l’insicurezza. Attendere il Natale nel dolore significa allora ricordare che Dio non è lontano, ma entra proprio nelle nostre ferite, si siede accanto a noi, piange con noi, cammina con noi.
Il lutto o la mancanza di una persona cara rendono particolarmente difficile questo tempo. La sedia vuota a tavola, il silenzio che sostituisce la voce amata, il vuoto che nessun dono potrà colmare: tutto sembra gridare l’assenza. Ma il Natale, vissuto nella fede, annuncia che la morte non ha l’ultima parola. Il Bambino che nasce a Betlemme è lo stesso che, un giorno, morirà e risorgerà per aprire a tutti la vita eterna.
Attendere il Natale è un esercizio di speranza: credere che coloro che ci hanno preceduto non sono perduti, ma vivono già nella luce di Dio, e che la nostra attesa non sarà vana perché un giorno saremo nuovamente insieme. Anche la malattia o la disoccupazione portano con sé un senso di impotenza e di fallimento.
Si ha l’impressione che tutto il mondo festeggi, mentre dentro si è prigionieri della stanchezza o della preoccupazione. In queste situazioni, l’Avvento ci invita a un’attesa umile e vera: non aspettare che le cose si aggiustino per trovare pace, ma accogliere Cristo così come siamo, con le nostre ferite aperte. Dio non ci chiede di essere forti per incontrarci: viene come un Bambino proprio per mostrarci che la sua forza si manifesta nella debolezza. La grotta di Betlemme diventa allora immagine del cuore ferito: povero, spoglio, fragile ma pronto ad accogliere la Vita nuova.
In vedovanza o dopo la perdita di un figlio, il Natale può sembrare insopportabile, perché la gioia familiare appare irrimediabilmente spezzata. Eppure, proprio qui il mistero dell’Incarnazione assume la sua dimensione più consolante: Dio entra nel dramma dell’uomo, non lo osserva da lontano. Guardiamo a Maria stessa, la Madre, conoscerà la spada del dolore che le trapasserà l’anima. Guardiamo a Giuseppe, che porterà nel cuore la fatica di proteggere la sua famiglia nella precarietà. Non c’è lacrima che il Figlio di Dio non abbia in qualche modo condiviso. E la fede ci dice che, nella notte più buia, la luce di Cristo continua a brillare, anche se flebile, come una piccola fiamma che nessuno potrà spegnere.
Aspettare il Natale nel dolore significa allora vivere un’attesa che non è fatta di frenesia o di feste quanto piuttosto di silenzio, di preghiera, di affidamento. È imparare a sostare davanti al presepe con il cuore ferito e dire: Signore, non ho nulla da offrirti se non la mia sofferenza ma Tu sei venuto proprio per questo: per prendere su di Te il peso del mio dolore e trasformarlo in speranza. È riconoscere che la nascita di Gesù non elimina magicamente le nostre croci, piuttosto le illumina con la certezza che non siamo soli.
Il Santo Natale, anche nel dolore, non smette di essere promessa. È l’annuncio che Dio ha scelto di abitare la fragilità, che la notte non è eterna, che la luce vince sempre sulle tenebre. È l’invito ad attendere non con la gioia facile e rumorosa del mondo ma con la speranza silenziosa di chi sa che, anche nel pianto, Dio si fa vicino. Così, quando arriverà la notte santa, anche chi porta dentro una ferita potrà sussurrare con fede: «Ecco, il Signore è venuto non sono più solo».
Fabrizia Perrachon
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