Una storia quotidiana per capire le emozioni parassite
Ogni anno, puntuale come il Natale stesso, arriva anche per noi il momento di andare a fare le compere. È una scena normale, quasi banale, e proprio per questo rivelatrice. Io entro nei negozi con una cosa ben chiara in testa: il budget. Luisa entra con un’altra chiarezza, più emotiva e relazionale: i doni, le persone a cui sono destinati, i gesti che raccontano amore più che numeri. Due sguardi diversi, entrambi legittimi, che ogni anno finiscono per incrociarsi nello stesso punto critico.
Succede così: a un certo momento, quando secondo me Luisa spende troppo, sento crescere dentro una tensione. Non è una rabbia esplosiva, non ci sono parole dure o accuse esplicite. È qualcosa di più sottile. Mi rabbuio. Mi chiudo. Parlo meno. Il tono cambia e, senza bisogno di dirlo, la distanza comincia a farsi sentire.
Luisa lo percepisce subito. Non lo vive come una questione di soldi, ma come un allontanamento emotivo, come se improvvisamente io fossi meno presente, meno in relazione. Negli anni passati questa dinamica ci ha portati spesso allo stesso esito: io convinto di avere ragione, lei ferita, entrambi con la sensazione di non esserci davvero incontrati.
Quest’anno, però, qualcosa è cambiato. Non perché la situazione fosse diversa, ma perché io lo ero. Da tempo sto studiando l’Analisi Transazionale e, in particolare, il tema delle emozioni parassite. In questo approccio si definiscono così quelle emozioni che impariamo a esprimere al posto di quelle autentiche. Non sono emozioni false nel senso morale del termine, ma sostitutive. Le utilizziamo perché sono più familiari, più accettate, spesso imparate molto presto nella nostra storia personale. È come se, crescendo, avessimo capito che alcune emozioni andavano bene e altre no, e avessimo trovato delle scorciatoie emotive per adattarci.
Così, invece di mostrare la paura, mostriamo rabbia; invece della tristezza, ironia; invece del bisogno, chiusura; invece della preoccupazione, irritazione. Le emozioni parassite non nascono per fare male, ma per proteggerci. Il problema è che, nelle relazioni adulte, producono quasi sempre l’effetto opposto: allontanano proprio la persona dalla quale avremmo bisogno di sentirci vicini.
Mentre camminavamo tra i negozi, ho sentito quella sensazione familiare salire dentro di me. Il corpo si irrigidiva, la voglia di parlare diminuiva, il silenzio prendeva spazio. Ma questa volta mi sono fermato. Mi sono fatto una domanda semplice, forse la più onesta che potessi farmi: “Ma io, davvero, sono arrabbiato?”. La risposta è arrivata chiara e inattesa. No, non ero arrabbiato. Quello che sentivo era preoccupazione. Preoccupazione per le spese, per l’equilibrio familiare, per il futuro, per quella responsabilità che sento profondamente mia. La rabbia non era l’emozione autentica, era solo l’emozione che avevo imparato a usare per non mostrare altro.
A quel punto ho fatto qualcosa di diverso dal solito. Non ho parlato di cifre, non ho fatto osservazioni sul “troppo” o sul “bisogna stare attenti”. Ho semplicemente detto la verità emotiva: “Sono preoccupato”. È sorprendente quanto una parola, se è quella giusta, possa cambiare completamente il clima. Luisa non si è difesa, non si è chiusa, non si è sentita accusata. Perché la preoccupazione non attacca, non giudica, non mette distanza. La preoccupazione chiede vicinanza. Da lì è nato un dialogo vero, non perfetto e non risolutivo, ma autentico. Un dialogo che non ci ha separati, ma avvicinati.
Questa esperienza, così semplice e quotidiana, mette in luce una dinamica che riguarda molti di noi. Spesso, proprio quando abbiamo più bisogno di essere accolti, mostriamo un’emozione che respinge. Quando abbiamo bisogno di rassicurazione diventiamo duri, quando abbiamo bisogno di essere capiti diventiamo silenziosi, quando abbiamo bisogno di vicinanza alziamo muri. Le emozioni parassite fanno esattamente questo: ci proteggono creando distanza, e così generiamo più dolore e più sofferenza di quanto sarebbe necessario.
Non è stata una svolta epocale. Una piccola vittoria. Ma quella sera non ci siamo persi, e per una coppia questo è già moltissimo. Riconoscere l’emozione autentica e darle voce è un atto di verità, e la verità, nel matrimonio come in ogni relazione significativa, non divide: costruisce. L’Analisi Transazionale non serve a diventare più controllati o più bravi, ma più umani. E a volte, per amarci meglio, basta imparare a dire non l’emozione che difende, ma quella che, finalmente, chiede di essere accolta.
Antonio e Luisa
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