La sacramentalità del matrimonio: amore e mistero

Proseguiamo oggi con l’analisi delle catechesi di Giovanni Paolo II sul matrimonio. In particolare con quella del 8 settembre 1982. Il matrimonio è il “grande mistero”: nell’amore quotidiano degli sposi si rende visibile l’amore di Cristo per la Chiesa, segno vivo di fedeltà, dono e presenza di Dio. Potete rileggere i capitoli già pubblicati a questo link.

San Paolo, nella lettera agli Efesini, scrive una frase che è diventata la chiave di lettura del matrimonio cristiano: “Nessuno mai ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo” (Ef 5,29-30).

Qui Paolo cita subito dopo il versetto di Genesi 2,24: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due formeranno una carne sola”. Non lo fa soltanto per ribadire l’unità dei coniugi “fin dal principio”, ma per dire qualcosa di molto più grande: il matrimonio umano è immagine e riflesso dell’amore di Cristo per la sua Chiesa.

Ecco la chiave: il legame tra marito e moglie diventa segno concreto e quotidiano di un amore più grande, quello che Cristo ha mostrato sulla croce. Non si tratta quindi solo di un’unione naturale, ma di una realtà che appartiene al cuore stesso del progetto di Dio.

Il mistero rivelato

Paolo chiama questo legame “grande mistero” (Ef 5,32). La parola greca mysterion indica un disegno che era nascosto in Dio e che si manifesta nel tempo, nella storia dell’uomo. È un mistero perché va oltre quello che possiamo capire con la sola ragione: è la rivelazione che Dio vuole sposarsi con l’umanità, unirsi a lei in un amore fedele ed eterno.

Nella Bibbia questo mistero attraversa due fasi: la prima, antica, è la creazione, quando Dio dona all’uomo e alla donna la possibilità di diventare una sola carne; la seconda, piena e definitiva, è Cristo, che dona la vita per la Chiesa e si unisce a lei in modo sponsale. C’è una continuità: ciò che Dio ha inscritto nella natura umana fin dal principio trova il suo compimento nella Pasqua di Cristo.

In fondo è lo stesso linguaggio che ritroviamo in tante tue riflessioni: quando dici che l’amore sponsale non è solo un sentimento, ma una vocazione che ha dentro un seme di eternità, è esattamente questo.

Mistero e sacramento

Ora: Paolo parla direttamente del “sacramento del matrimonio”? Non proprio in senso tecnico. Però pone le basi della sacramentalità. Il sacramento, infatti, è quel segno visibile ed efficace che non solo annuncia un mistero, ma lo rende presente e lo realizza.

Il matrimonio cristiano, quindi, non è solo simbolo: è il luogo in cui il mistero dell’amore di Dio diventa carne, gesti, vita quotidiana. L’amore coniugale – con le sue fatiche, le sue gioie, la fedeltà quotidiana – rende visibile l’amore di Cristo per la Chiesa. È come se Dio dicesse: “Guardate due sposi che si amano, e capirete un po’ del mio amore per voi”.

Questo spiega anche perché i sacramenti sono al centro della vita cristiana: sono i segni attraverso i quali Dio continua ad amarci, a nutrirci e a curarci, proprio come Cristo fa con la sua Chiesa.

La Chiesa, sacramento dell’amore di Dio

Il Concilio Vaticano II lo ha espresso in maniera bellissima: “La Chiesa è in Cristo come sacramento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium, 1). Non è solo un’istituzione o un’organizzazione: è il luogo in cui il mistero di Dio prende forma e tocca la vita concreta delle persone.

Allo stesso modo, il matrimonio non è solo un contratto o una scelta privata: è un sacramento che partecipa a questa stessa logica, perché mostra e rende presente l’amore fedele di Dio.

Per noi sposi oggi

Che cosa significa tutto questo, detto in parole semplici per le coppie di oggi? Che il matrimonio non è un “peso” da portare, né una prova di resistenza, ma una vocazione grande. È un dono da accogliere e un compito da custodire.

Ogni volta che un marito e una moglie scelgono di amarsi, di perdonarsi, di restare fedeli, di mettere al centro non l’egoismo ma il bene dell’altro, lì si manifesta Cristo stesso. È un “piccolo Vangelo vissuto in casa”, la prima carità comincia tra le mura domestiche.

In fondo, dire “sì” nel matrimonio non è altro che accogliere e rendere visibile questo mistero d’amore. Un mistero che ha radici in Dio e che, proprio per questo, non si consuma, ma diventa via di salvezza e di santità.

Quando San Paolo parla del “grande mistero” non intende qualcosa di astratto, ma una realtà concreta che tocca la carne e il cuore degli sposi. Cristo e la Chiesa, marito e moglie: due unioni che si illuminano a vicenda.

Capire questo ci aiuta a non ridurre il matrimonio a un semplice accordo tra due persone. È molto di più: è il segno vivo che Dio continua a dire all’umanità: “Ti amo, ti scelgo, ti resto fedele per sempre”.

Ecco perché il matrimonio cristiano, pur nella sua fragilità umana, rimane il sacramento più “antico” e al tempo stesso più attuale: perché ci ricorda che l’amore vero non finisce, ma ha il volto stesso di Dio.

Basta una parola

Immaginate una coppia che, dopo una giornata faticosa, si ritrova la sera a tavola. Lui è stanco, lei magari è irritata perché i bambini hanno fatto i capricci. Potrebbero rimanere ciascuno nel proprio silenzio, oppure decidere di “nutrire e curare” l’altro, come dice San Paolo. Allora uno prende l’iniziativa: un sorriso, una carezza, un “come stai davvero?”. Quel gesto cambia l’atmosfera: non è solo gentilezza, ma diventa segno concreto di quell’amore più grande che Cristo ha per la Chiesa.

È come una candela accesa in una stanza buia: la luce è piccola, ma rende visibile la presenza di Dio. Il matrimonio funziona così: nei gesti semplici – un perdono chiesto, un piatto cucinato, un abbraccio dopo una lite – si rivela il mistero nascosto da sempre in Dio.

Per questo Paolo può dire: “Questo mistero è grande”. Non è un’idea astratta: è la vita quotidiana che diventa luogo di Dio. Come Cristo ha dato se stesso per la Chiesa, così gli sposi imparano a donarsi a vicenda. Ogni piccolo dono, anche quello nascosto, è partecipazione a un amore eterno.

Antonio e Luisa

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Il corpo nel matrimonio: un luogo sacro dove l’amore diventa visibile

In questo capitolo affronteremo l’udienza del 1 settembre. Il matrimonio cristiano riflette l’amore di Cristo per la Chiesa: un dono totale, che unisce corpo e spirito. Amare significa custodire, nutrire, far fiorire l’altro come se stessi. Potete rileggere i capitoli già pubblicati a questo link.

Cristo ha amato la Chiesa fino a dare la vita per lei. Non ha amato “a parole”, ma con tutto se stesso, corpo compreso. Così anche l’amore sponsale è chiamato a essere totale: un dono reciproco che coinvolge tutto, anche il corpo. Anzi, proprio il corpo diventa uno dei modi più concreti e visibili attraverso cui l’amore si manifesta.

San Paolo dice che Cristo ha voluto la Chiesa “senza macchia né ruga”, bella, giovane, splendente. Certo, usa un linguaggio simbolico: le rughe e le macchie non indicano solo l’aspetto fisico, ma soprattutto il peccato, la stanchezza del cuore, le ferite dell’anima. Eppure è interessante che usi proprio parole legate al corpo, alla bellezza, alla cura. Come a dire: l’amore vero si prende cura, desidera il bene dell’altro, lo custodisce e lo fa splendere, nel corpo e nell’anima.

Una sola carne: due persone, un amore

Nel matrimonio cristiano, l’uomo e la donna diventano “una sola carne”. Non vuol dire che perdono la loro individualità, ma che imparano a vivere in un’unità profonda, fatta di rispetto, comunione, desiderio del bene reciproco. Il corpo dell’altro non è “una cosa da usare” o “da pretendere”, ma un dono da accogliere e custodire. Per questo Paolo dice che “chi ama la propria moglie ama se stesso”. È un’espressione bellissima: l’altro diventa parte di te, come se il suo bene fosse il tuo bene, il suo corpo il tuo corpo, il suo dolore il tuo dolore.

Questa unità non è solo fisica: è morale, spirituale. È una comunione che nasce dall’amore e si rafforza nella vita quotidiana, fatta di piccoli gesti, attenzioni, perdoni, scelte condivise. È un’unione che si costruisce ogni giorno, anche nei momenti di fragilità, e che richiede cura, tempo e presenza.

L’amore vero fa fiorire l’altro

C’è un passaggio bellissimo in questo testo, che mi ha sempre toccato anche nella mia esperienza personale e nei tanti dialoghi con le coppie: lo sposo ama la sua sposa nella “creativa, amorosa inquietudine di trovare tutto ciò che di buono e di bello è in lei e che per lei desidera”.

L’amore vero non si accontenta, non si ferma all’apparenza, ma scava, cerca, fa emergere i talenti, custodisce la bellezza dell’altro. È come un giardiniere che, con pazienza e passione, aiuta i fiori a sbocciare. Non plasma l’altro a propria immagine, ma lo accompagna a diventare ciò che è davvero.

Questa è una chiave importante anche per capire se un rapporto è sano: se ti senti più te stesso, se puoi crescere, se puoi respirare, se puoi sbocciare. Se invece ti senti schiacciato, bloccato, annullato… forse l’amore ha bisogno di essere guarito.

Il corpo: sacramento dell’amore

L’ultima parte della lettera ritorna su un punto centrale: il corpo dell’altro va amato e curato come il proprio. Come nessuno odia il proprio corpo, ma lo nutre e lo protegge, così anche tra marito e moglie deve esserci questa premura reciproca. Non si tratta solo di attrazione o di piacere, ma di tenerezza, rispetto, responsabilità.

E qui entra un’altra dimensione profonda: quella del sacro. Il corpo dell’altro è un luogo sacro. Non perché sia perfetto, ma perché è abitato da Dio. È il luogo dove l’amore di Dio si rende visibile, dove la grazia del sacramento si incarna. Per questo nel matrimonio cristiano il corpo non è mai “banale” o “secondario”: è sacramento, segno visibile di un mistero invisibile.

Pensiamoci: nel corpo si esprime l’amore, si generano i figli, si condivide la vita, si portano le ferite e le gioie. Il corpo è tempio. Ecco perché il paragone con l’Eucaristia, che san Paolo sembra evocare parlando di “nutrire e curare”, è tutt’altro che forzato: anche lì, Cristo si dona nel corpo.

Questo testo della lettera agli Efesini è molto più che un’istruzione dottrinale: è una carezza alla nostra umanità. Ci ricorda che l’amore vero è quello che si dona, che si prende cura, che fa fiorire, che unisce senza possedere. È l’amore che rende visibile Cristo nel mondo, attraverso i corpi e i cuori di chi si ama davvero. E allora, ogni coppia è chiamata a far diventare la propria casa un’icona di questo amore: non perfetta, ma vera. Non senza difficoltà, ma piena di grazia. Perché, come Cristo ha amato la Chiesa, anche noi possiamo amare con tutto noi stessi — anche e soprattutto nel corpo, là dove l’amore si fa visibile.

Una liturgia silenziosa

Nel matrimonio, il corpo non è solo biologia, ma teologia viva. Quando tuo marito ti abbraccia dopo una giornata difficile, quando tua moglie si lascia accarezzare anche se è stanca, lì accade un mistero. Non solo gesto d’affetto: è sacramento. È Cristo che abbraccia la Chiesa. Il corpo dell’altro è luogo santo: non lo possiedo, lo custodisco. Anche le rughe, i chili in più, la stanchezza… tutto diventa sacro quando è attraversato dall’amore. “Chi ama la propria moglie ama se stesso”, dice san Paolo. Allora, quando nutri tuo marito con un piatto caldo, quando massaggi la schiena di tua moglie senza aspettarti nulla, stai vivendo una liturgia silenziosa. È lì che il Vangelo prende carne, ogni giorno. Il letto, la tavola, la casa… diventano altari. E il tuo corpo, offerto per amore, diventa Eucaristia.

Antonio e Luisa

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Capo e corpo: parti di uno stesso organismo

Nella catechesi del 25 agosto 1982, San Giovanni Paolo II prosegue la sua riflessione sulla Lettera agli Efesini, soffermandosi in particolare sul capitolo quinto. Questa volta il suo insegnamento mette a fuoco il parallelismo tra il rapporto capo-corpo (Cristo e la Chiesa) e quello marito-moglie. Prima di entrare nel vivo, vi ricordo che potete rileggere i capitoli già pubblicati a questo link.

Il capitolo quinto della Lettera agli Efesini ci porta al cuore della visione cristiana del matrimonio. San Paolo – abbiamo già visto nei precedenti capitoli – utilizza una grande analogia: da una parte il rapporto tra Cristo e la Chiesa, dall’altra quello tra marito e moglie. Non è un paragone superficiale: è un modo di dire che l’amore coniugale trova il suo senso pieno solo se visto come immagine e riflesso dell’amore di Cristo.

L’apostolo introduce anche un’analogia supplementare: quella del capo e del corpo. Così come il capo e il corpo formano un organismo unico, anche Cristo e la Chiesa sono uniti in modo vitale, e così marito e moglie diventano “una sola carne” (Gen 2,24). Non si tratta però di annullare le differenze: marito e moglie restano due soggetti distinti, con la propria dignità e libertà. Ma nella loro unione nasce qualcosa di nuovo: un unico corpo, un’unica vita condivisa.

San Paolo scrive: “Le mogli siano sottomesse ai mariti, come al Signore; il marito infatti è capo della moglie, come Cristo è capo della Chiesa… E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (Ef 5,22-25). Parole che possono sembrare – come già analizzato nel precedente capitolo a cui vi rimando – difficili alla nostra sensibilità moderna, ma che diventano comprensibili alla luce dell’insieme: la sottomissione non è dominio, ma reciproco dono. Se il marito ama come Cristo — fino a dare la vita — e la moglie accoglie questo amore come la Chiesa accoglie Cristo, allora non c’è più spazio per rapporti di potere, ma solo per la logica del dono reciproco.

L’immagine del capo e del corpo aiuta a capire questa reciprocità. Il capo non può vivere senza il corpo, e il corpo senza il capo non avrebbe senso. Sono diversi, ma intimamente uniti. Così marito e moglie: due soggetti distinti, ma chiamati a vivere una comunione che li rende “un solo essere” nella carne, nel cuore e nello spirito.

San Paolo spiega poi che l’amore di Cristo verso la Chiesa non è generico, ma concreto: “Ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola per mezzo del lavacro dell’acqua accompagnato dalla parola” (Ef 5,26). Qui si allude al Battesimo: come Cristo purifica la Chiesa e la rende bella davanti a sé, così il marito deve avere a cuore la crescita, la bellezza interiore, la santità della moglie. Non si tratta di estetica, ma di far fiorire l’altro con la forza dell’amore.

Questa immagine sponsale ci dice che l’amore cristiano non si ferma al presente, ma guarda lontano. Il Battesimo è l’inizio, ma la meta è la Chiesa “gloriosa, senza macchia né ruga”, la sposa che Cristo presenterà a sé stesso alla fine dei tempi. Allo stesso modo, il matrimonio non è solo vivere insieme giorno per giorno: è un cammino verso una pienezza che si costruisce nel tempo, con pazienza, perdono, sacrificio e gioia condivisa.

San Paolo non annulla le differenze culturali del suo tempo — parla di rispetto, di ruoli, di sottomissione — ma le trasforma radicalmente con la logica dell’amore di Cristo. La “sottomissione reciproca nel timore di Cristo” diventa la struttura portante della coppia. Non più un contratto di potere, ma una comunione che santifica.

In fondo, Efesini 5 ci mostra due cose:

  • Cristo e la Chiesa: Lui ama, dona, purifica; lei accoglie, risponde, si lascia trasformare.
  • Marito e moglie: lui ama fino al sacrificio, lei accoglie e si dona; entrambi crescono insieme e diventano una sola carne.

È questo che rende il matrimonio un sacramento: non un simbolo esterno, ma una realtà in cui Dio agisce. Ogni volta che marito e moglie si amano così, rendono visibile l’amore invisibile di Cristo.

Per questo San Paolo conclude con parole semplici ma decisive: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande: lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5,31-32).

Il matrimonio, allora, non è solo una bella avventura umana: è un mistero grande, una chiamata a incarnare nella quotidianità l’amore sponsale di Cristo. E ogni gesto — un perdono, un abbraccio, un sacrificio — diventa un frammento di eternità vissuta già qui sulla terra.

Un corpo che cammina

Il capo vede la strada, dà direzione, orienta; ma senza il corpo non potrebbe andare da nessuna parte. Il corpo, con i suoi passi, dà forza e concretezza, rende possibile il movimento; ma senza il capo non avrebbe orientamento. Così sono marito e moglie: due persone distinte, ma unite in un organismo unico. Non si tratta di annullarsi l’uno nell’altra, ma di scoprire che insieme diventano “una sola carne”. Il marito non è padrone della moglie, e la moglie non è accessoria al marito: come il capo e il corpo, hanno bisogno l’uno dell’altra per vivere davvero.

San Paolo, con questa immagine, ci dice che il matrimonio non è un equilibrio precario tra due egoismi, ma una comunione che trova senso solo nell’amore. Cristo è il modello: Lui guida con dolcezza, dona sé stesso fino alla croce, si prende cura della sua Chiesa. E la Chiesa, come corpo, vive grazie a Lui, lo segue e gli appartiene.

Quando gli sposi vivono così, ogni gesto quotidiano — un consiglio dato, un abbraccio, una scelta condivisa — diventa parte di questo corpo unico che cammina insieme verso Dio.

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Il capo è quello che si dona per primo

Il 18 agosto 1982, papa Giovanni Paolo II, durante l’Udienza del mercoledì, continua la sua personale analisi della Lettera di san Paolo agli Efesini. Clicca qui per leggere gli approfondimenti delle catechesi già pubblicati.

In questa catechesi il santo polacco su cosa si è focalizzato? San Paolo, nella Lettera agli Efesini, ci consegna un testo che da secoli viene meditato per comprendere il matrimonio cristiano. Egli paragona il rapporto tra marito e moglie al legame tra Cristo e la Chiesa. Non è solo una bella immagine poetica, ma una verità profonda: il matrimonio, vissuto nella fede, diventa segno concreto del mistero eterno dell’amore di Dio per l’umanità.

L’analogia sponsale

San Paolo usa una grande analogia: come Cristo ama la Chiesa, così il marito deve amare sua moglie; e come la Chiesa si dona a Cristo, così la moglie deve vivere in piena relazione col marito. Non si tratta di un discorso di potere o di subordinazione, ma di amore reciproco che diventa segno sacramentale. È un’immagine che illumina in due direzioni: ci aiuta a capire meglio l’amore di Cristo, ma nello stesso tempo rivela la verità più profonda del matrimonio.

Un amore che salva

Il cuore del testo è chiaro: Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei. Questo dono totale, fino alla croce, non è solo un atto di redenzione, ma anche un gesto sponsale. La Chiesa diventa “corpo di Cristo” perché riceve questo dono, e da Lui prende vita. Così anche il matrimonio: non si fonda su sentimenti passeggeri, ma sulla decisione di donarsi l’uno all’altra, di appartenersi e di costruire insieme una comunione che dura tutta la vita.

Il matrimonio come vocazione

Il matrimonio cristiano è vocazione, cioè chiamata. Non basta volersi bene: occorre imparare a rispecchiare l’amore di Cristo. Questo significa che il marito non è “capo” nel senso del padrone, ma è colui che si assume la responsabilità di donarsi per primo, come Cristo che ha dato la vita. La moglie non è “sottomessa” come in una logica di inferiorità, ma come la Chiesa che liberamente si affida a Cristo. È un gioco di reciproca donazione, dove ciascuno diventa custode dell’altro.

L’essenza sacramentale

Paolo mostra che il matrimonio non è un semplice contratto sociale o una convenzione, ma un sacramento: un segno che rivela e realizza l’amore di Dio. Ogni gesto quotidiano di cura, di perdono, di fedeltà, diventa parte di questo mistero. Nella vita concreta, marito e moglie sono chiamati a rendere visibile ciò che Cristo fa con la Chiesa: custodirla, sostenerla, salvarla.

Una via di santità

Il matrimonio, quindi, è una strada di santità. Amare il proprio sposo o la propria sposa significa partecipare al mistero di Cristo che ama la sua Chiesa. Non è sempre facile: ci sono fragilità, ferite, incomprensioni. Ma proprio lì si manifesta la grazia: la forza di ricominciare, di perdonare, di donarsi ancora. Come Cristo non smette di amare la sua Chiesa nonostante i suoi limiti, così gli sposi sono chiamati ad amarsi con un amore fedele e tenace.

Fatti, non parole!

Immagina una coppia che, dopo una lunga giornata di lavoro e preoccupazioni, si ritrova a tavola stanca e silenziosa. Non ci sono discorsi spirituali, non ci sono gesti eclatanti, ma c’è un piatto preparato, una mano che accarezza, un sorriso che rompe la fatica. Ecco, lì si compie la lettera agli Efesini. Perché l’amore sponsale non è fatto solo di grandi dichiarazioni, ma di gesti quotidiani che diventano sacramento.

Il marito che si china ad ascoltare sua moglie, anche se è esausto, imita Cristo che ha dato se stesso per la Chiesa. La moglie che accoglie con fiducia e perdono, imita la Chiesa che si affida a Cristo. In questo scambio, apparentemente semplice, passa il mistero: Dio stesso si fa presente nella loro relazione.

Così il matrimonio diventa una piccola “chiesa domestica”. Non serve cercare esperienze straordinarie: basta vivere la quotidianità con lo sguardo di Cristo. Ogni gesto d’amore diventa un frammento dell’eterno “sì” di Dio all’umanità. Gli sposi che imparano a riconoscerlo trasformano la loro casa in un santuario, dove l’ordinario diventa straordinario e la vita comune diventa via di salvezza.

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L’uno per l’altro, entrambi per Cristo

Nella sua terza catechesi sul matrimonio (Mercoledì, 11 agosto 1982), Giovanni Paolo II riprende la Lettera agli Efesini e, rispetto alla precedente, scende a un livello ancora più profondo di comprensione. Clicca qui per leggere l’approfondimento già pubblicato.

Quando San Paolo scrive agli Efesini sul matrimonio, non si limita a dare “consigli di coppia”. Quello che ci consegna è un vero tesoro: un modo nuovo di comprendere l’amore tra marito e moglie alla luce del mistero di Cristo e della Chiesa.

Il brano centrale è questo: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo” (Ef 5,21). È una frase che cambia tutto. Non si tratta di sottomissione come dominio o schiavitù, ma di pietas, cioè rispetto profondo, venerazione per ciò che è sacro. Il matrimonio, infatti, non è solo un contratto o un affetto privato: è un sacramento, un segno della presenza di Cristo. E il rapporto tra marito e moglie deve nascere da questa coscienza.

San Paolo parte da una logica reciproca: l’uno per l’altro, entrambi per Cristo. Questo è importante perché, se letto male, il versetto successivo — “Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore” — rischia di sembrare una giustificazione del dominio maschile. In realtà, Paolo chiarisce subito: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei”. L’amore del marito non è possesso ma dono totale, fino al sacrificio di sé.

In questo scambio, la “sottomissione” non è unilaterale ma vicendevole: ciascuno si dona all’altro, ciascuno è responsabile della felicità e della crescita dell’altro. Qui sta la rivoluzione cristiana: il matrimonio non è più una struttura gerarchica come spesso lo era nella cultura antica, ma diventa comunione di persone.

San Paolo insiste molto sugli sposi uomini: “Mariti, amate le vostre mogli…”. Sa che il rischio, in una società patriarcale, era di ridurre la donna a dipendenza o a proprietà. L’amore di Cristo, invece, rovescia ogni logica di potere: chi ama diventa servo, si abbassa, si dona. Perciò il marito non è padrone, ma immagine viva di Cristo che si sacrifica per la sua sposa.

Questo non annulla la diversità dei ruoli, che rimane, ma la purifica da ogni abuso. Paolo riconosce che nella sua epoca certi linguaggi e mentalità erano radicati, e infatti parla anche del “rispetto” che la moglie deve al marito. Ma introduce un criterio nuovo e permanente: la reciproca sottomissione nell’amore. È questo il cuore del matrimonio cristiano.

Possiamo dirlo in modo semplice: marito e moglie sono due persone che si chinano l’una sull’altra per lavarsi i piedi a vicenda, proprio come Gesù ha fatto con i suoi discepoli. Nessuno è sopra l’altro, ma ciascuno mette l’altro al centro.

La Lettera agli Efesini ci ricorda anche che questa unione non si esaurisce nei sentimenti: ha una dimensione sacramentale e mistica. Paolo usa un’analogia fortissima: il legame degli sposi è immagine del legame tra Cristo e la Chiesa. “Il marito è capo della moglie come Cristo è capo della Chiesa, suo corpo”. Non è un “capo” che comanda, ma un capo che guida servendo, che dà vita al corpo con la sua stessa vita.

Così, il matrimonio diventa icona vivente del mistero di Cristo: un amore fedele, fecondo, indissolubile. L’amore sponsale è fatto di gesti concreti — tenerezza, perdono, pazienza, sacrificio — ma racchiude una dimensione eterna: ogni volta che due sposi si donano l’uno all’altro, rendono visibile al mondo l’amore invisibile di Dio.

Oggi, certo, la sensibilità è diversa: la donna ha conquistato un ruolo paritario nella società, e parlare di “sottomissione” può urtare. Ma il principio di fondo non cambia: la reciprocità nell’amore rimane la colonna portante della coppia. È questa reciprocità che costruisce una comunione solida, capace di reggere le tempeste e di generare vita, non solo biologica ma anche spirituale.

Alla fine, Paolo ci mostra che nel matrimonio si incontrano due misteri: quello dell’amore umano e quello dell’amore divino. È per questo che dice: “Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa” (Ef 5,32). Ogni matrimonio cristiano diventa allora una piccola Chiesa domestica, un luogo dove si tocca con mano la fedeltà di Dio.

UNA DANZA A DUE

Quando danzi da solo, puoi muoverti come vuoi. Ma quando balli con il tuo sposo o la tua sposa, non puoi più pensare solo ai tuoi passi: devi ascoltare la musica, ma soprattutto devi ascoltare l’altro. Se uno cerca di imporre i suoi movimenti, il ballo diventa rigido e faticoso; se entrambi si sottomettono alla stessa melodia e si donano l’uno all’altro, allora la danza diventa armoniosa, bella da vedere e da vivere.

San Paolo, con parole che a volte ci suonano difficili, dice proprio questo: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”. Non vuol dire che uno comanda e l’altro subisce, ma che entrambi imparano a lasciarsi guidare dallo Spirito, a mettere al centro il bene dell’altro.

Il matrimonio è questa danza: Cristo è la musica che tiene il ritmo, e gli sposi sono chiamati ad affidarsi, a fidarsi e a muoversi insieme. È così che il loro amore diventa non solo un’esperienza privata, ma un segno concreto e visibile dell’amore di Dio.

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La vera sottomissione non è umiliazione, ma dono di sé

Nella catechesi del 4 agosto 1982, San Giovanni Paolo II torna a meditare sulla Lettera di San Paolo agli Efesini, offrendoci spunti profondi e ricchi di significato. Clicca qui per leggere l’approfondimento già pubblicato.

La lettera agli Efesini è uno dei testi più belli e potenti per capire cos’è il matrimonio cristiano. Non lo fa partendo dalle regole o dai problemi pratici, ma dal sogno di Dio per l’uomo e la donna. L’autore, fin dall’inizio, ci mostra un Dio che non improvvisa: “In Cristo ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati nell’amore”. Il matrimonio non è un’invenzione nostra: è dentro il piano eterno di Dio.

La Chiesa, ci dice Paolo, è il Corpo di Cristo, e Cristo ne è il Capo. Questa immagine non è solo teologica: prepara a capire il matrimonio come un riflesso vivo di questo legame. Il rapporto tra Cristo e la Chiesa è il modello dell’amore tra marito e moglie. Perciò, quando San Paolo parla agli sposi, non dà consigli di buon senso, ma indica un ideale altissimo: “Mariti, amate le vostre mogli come Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei”. E alle mogli dice: accogliete e fidatevi di questo amore, come la Chiesa si affida a Cristo.

La frase centrale è: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”. Qui c’è la chiave: non c’è un padrone e un sottoposto, ma due persone che si mettono al servizio reciproco, che cercano prima il bene dell’altro e non il proprio. La vera sottomissione, in ottica cristiana, non è umiliazione, ma dono di sé. È scegliere ogni giorno di mettere al centro il “noi” e non l’“io”.

Questa visione non è astratta: tocca la vita concreta di una coppia. Significa perdonarsi in fretta, perché l’orgoglio separa. Significa imparare a leggere i bisogni dell’altro e non solo i propri. Significa che la tenerezza non è facoltativa, ma una parte essenziale dell’amore, perché Cristo non si è limitato a salvare la Chiesa: l’ha amata con gesti, parole e vicinanza.

Il capitolo 5 degli Efesini fa anche un confronto tra la vita “vecchia” e quella “nuova” in Cristo. Prima eravamo “tenebra”, ora siamo “luce nel Signore”. Applicato al matrimonio, vuol dire che l’amore non può vivere di egoismo, rancore, tradimenti emotivi o fisici. È luce quando si lascia spazio allo Spirito Santo, quando si prega insieme, quando si canta — anche stonati — la gratitudine per la vita ricevuta.

San Paolo, subito dopo, allarga il discorso alla famiglia: parla di genitori e figli, di come i padri debbano educare senza esasperare, di come i figli debbano rispettare i genitori. All’epoca la famiglia comprendeva anche servi e lavoratori: segno che la logica dell’amore cristiano non si ferma alla coppia, ma si estende a tutte le relazioni quotidiane.

Però il cuore del brano rimane il legame tra marito e moglie. Qui San Paolo è chiarissimo: il matrimonio non è solo un accordo civile o un patto affettivo. È un mistero grande (“mysterion” in greco), che rimanda direttamente all’amore tra Cristo e la Chiesa. È per questo che il matrimonio cristiano è indissolubile: non perché la Chiesa sia rigida, ma perché l’amore di Cristo non si ritira mai.

Infine, la lettera chiude con un appello alla “battaglia spirituale”. È realistico: l’amore, anche il più bello, è sotto attacco. Non basta avere buone intenzioni: serve “indossare l’armatura di Dio” — la fede, la verità, la giustizia, la preghiera — per difendere la comunione dagli egoismi, dalle ferite, dalle tentazioni di mollare.

In sintesi, Efesini ci ricorda che nel matrimonio cristiano l’uomo e la donna sono chiamati a essere un segno vivo dell’amore di Cristo: un amore fedele, esclusivo, fecondo. Non due persone che “si sopportano” o “vanno d’accordo”, ma due vite intrecciate che diventano una cosa sola, senza perdere la propria identità. Un amore che non si limita a “stare insieme finché si sta bene”, ma che, proprio come Cristo, rimane e si dona anche quando costa.

Due calici che si riempiono

Immagina il matrimonio come una Messa che non finisce mai. Il giorno delle nozze, sull’altare, marito e moglie sono come due calici vuoti che si offrono a Dio. Non portano solo emozioni e promesse: portano se stessi, con i loro limiti e desideri. Dio, in quel momento, versa il suo Spirito in quei calici. Da quel giorno, ogni gesto d’amore — una carezza, un perdono, un sacrificio — è come alzare di nuovo quel calice davanti a Lui. L’amore non è più solo “loro”, ma è intriso della forza di Cristo.

Ecco perché Paolo dice: “Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo”: significa riconoscere che l’altro è un dono sacro, che il mio corpo, il mio tempo, la mia vita non mi appartengono più solo a me. Come nell’Eucaristia il pane e il vino diventano Corpo e Sangue di Cristo, così nell’amore coniugale il dono reciproco diventa sacramento vivo. Guardando una coppia che vive così, il mondo dovrebbe poter dire: “Qui Cristo è presente”.

Antonio e Luisa

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Il matrimonio come segno visibile dell’amore di Cristo

Oggi desidero iniziare una nuova serie di articoli, nati – come sempre – dalla mia esperienza personale. La Teologia del Corpo di San Giovanni Paolo II è un’opera straordinaria, ricchissima di bellezza e verità, ma ammettiamolo: non è facile da leggere. Per anni l’ho trovata affascinante ma ostica. Ho provato più volte a leggerla integralmente, ma ogni volta mi sembrava di arrancare tra concetti troppo densi, e finivo per arrendermi.

Così, con semplicità e senza pretese accademiche, ho deciso di riproporre alcuni passaggi fondamentali in modo più accessibile, rinunciando magari a una parte della profondità filosofica e teologica, ma cercando di rendere più chiari i concetti chiave per chi, come me, desidera lasciarsi toccare da queste parole senza scoraggiarsi.

In particolare, ci concentreremo su una serie di catechesi pronunciate da Giovanni Paolo II tra il 28 luglio 1982 e il 4 luglio 1984, in cui il Papa riflette sul sacramento del matrimonio: un tesoro prezioso per ogni coppia che desidera amare sul serio, alla luce del Vangelo.

Iniziamo con la catechesi del 28 luglio 1982 riguardante Il matrimonio come sacramento secondo la lettera di Paolo agli Efesini. Qui potete leggerla integralmente

C’è un passo della Lettera di San Paolo agli Efesini (5,22-33) che da secoli accompagna la riflessione cristiana sul matrimonio. È un testo forte, denso, ricco di immagini e significati: parla di sottomissione, di amore, di unione profonda tra uomo e donna, ma soprattutto lo fa mettendo in parallelo la relazione tra marito e moglie con quella tra Cristo e la Chiesa. Parole che, se lette solo in superficie, possono apparire dure o anacronistiche. Ma se ci si entra dentro con lo spirito giusto, si scopre un tesoro prezioso per ogni coppia cristiana.

San Paolo scrive che il marito è “capo” della moglie, ma subito precisa che il modello di questo “capo” è Cristo stesso, che ha dato la vita per amore. Non si tratta quindi di potere, ma di servizio. L’autorità vera nasce dall’amore che si sacrifica, non da chi alza la voce o impone la sua volontà. Il marito è chiamato ad amare la moglie come il proprio corpo: “chi ama la propria moglie, ama se stesso”.

Ma cosa significa tutto questo nella vita concreta di una coppia? E perché questo brano viene proclamato proprio durante la liturgia del matrimonio? Perché ci fa vedere il matrimonio come un sacramento, cioè un segno visibile dell’amore invisibile di Dio. Il corpo, che è la parte più visibile dell’uomo e della donna, diventa il linguaggio con cui Dio parla. Attraverso l’unione fisica e spirituale degli sposi, Dio continua a dire al mondo: “Io vi amo. Io sono fedele. Io vi dono la vita”.

Come abbiamo già visto in altre riflessioni, tutto parte dal “principio” — da quel “maschio e femmina li creò” della Genesi — e tutto tende verso la pienezza, verso l’eternità. Anche il matrimonio fa parte di questo cammino. È una chiamata non solo ad amarsi, ma a diventare segno di Cristo stesso: gli sposi sono chiamati a rendere visibile l’amore con cui Dio ama il suo popolo, con tenerezza, fedeltà e dono totale.

Papa Giovanni Paolo II, in questa udienza, ci invita a rileggere il brano degli Efesini non da soli, ma alla luce di tutto ciò che Gesù ha detto sul corpo, sull’amore e sulla redenzione. La teologia del corpo ci insegna che il corpo umano ha un linguaggio, una verità da comunicare, una vocazione a diventare dono. Ed è proprio in questa logica del dono che il matrimonio trova la sua verità più profonda: non è possesso, non è contratto, ma alleanza. È comunione, come quella tra Cristo e la Chiesa.

Quando due sposi si amano davvero, non si limitano a convivere: diventano “una carne sola”, una cosa sola in Cristo. E in questo mistero — Paolo lo dice chiaramente — c’è qualcosa di molto più grande: un “mistero grande”, che rimanda all’unione tra Dio e l’umanità.

Questo testo è diventato un classico della liturgia del matrimonio perché dice tutto quello che serve sapere: che l’amore vero è sempre un amore che salva, che purifica, che fa crescere. Un amore che sa passare attraverso le fatiche e le ferite, ma che si nutre di un desiderio profondo di bene per l’altro.

Nel sacramento, Dio non solo benedice l’amore degli sposi, ma si dona attraverso di esso. L’amore tra marito e moglie, vissuto nella fede, diventa luogo di salvezza, strada concreta di santità, via privilegiata per imparare ad amare come ama Dio: senza condizioni, senza calcoli, fino alla fine.

lo specchio del bagno

Immagina una scena molto quotidiana: la mattina, in bagno, uno dei due coniugi si guarda allo specchio. Si lava il viso, si pettina, si prende cura di sé. E mentre lo fa, non si disprezza, non si tratta con durezza: anzi, si dedica tempo, attenzione, cura. Perché? Perché nessuno odia se stesso, ma ciascuno, anche con i suoi limiti, si ama e desidera stare bene.

San Paolo dice qualcosa di molto simile parlando del matrimonio: “Chi ama la propria moglie ama se stesso. Nessuno mai ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura”.

Qui c’è il mistero sacramentale: amare la propria moglie (o il proprio marito) è come amarsi, perché nell’unione sacramentale i due sono una carne sola. Come Cristo ama la Chiesa — cioè noi — così il marito è chiamato ad amare la moglie, e la moglie a rispettarlo come si rispetta la presenza del Signore.

Allora possiamo dire che il sacramento del matrimonio è come uno specchio spirituale: ogni volta che ti prendi cura di tua moglie o di tuo marito, stai prendendoti cura di Cristo, e anche di te stesso, perché siete una cosa sola. Quando invece lo ignori, lo umili, lo trascuri… è come se rompessi quello specchio: non solo non vedi più l’altro, non vedi più nemmeno te.

Il sacramento è uno specchio che ti fa vedere come ama Dio. Ma è anche uno specchio che ti chiama a specchiarti ogni giorno e chiederti: “Sto amando come Cristo ama la Chiesa? Mi sto donando? Sto curando, nutrendo, rispettando l’altro come parte di me?

Antonio e Luisa

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