Quella lingua incorrotta che ancora ci parla

Siamo immersi, o per meglio dire, sommersi di parole: scritte, lette, pronunciate, urlate, cantate, disegnate ecc … Quante parole escono e quante entrano in noi! Alcune facendoci del bene, altre del male, ferendoci o ferendo le persone alle quali le rivolgiamo.

Un diluvio di termini, nella nostra lingua o in quelle di altri Paesi, alcuni ben compresi e utilizzati, altri buttati a casaccio e senza sapere esattamente cosa significano, dove vanno e da dove arrivano, qual è la loro etimologia, che passato hanno, che presente vogliono esprimere e a che futuro intendono guardare.

Molto spesso ci chiediamo a quali di esse dare la nostra attenzione e il nostro ascolto, quali valgono veramente la pena di essere imparate e magari replicate, citate, riportate e quali no. Una vecchia ma sempre attuale canzone di Samuele Bersani affermava: “Le mie parole sono sassi, precisi e aguzzi, pronti da scagliare su facce vulnerabili e indifese …”. Proprio così: con le parole possiamo offendere o difendere, incoraggiare o sgridare, farci portatori di messaggi positivi o negativi, in grado aiutare gli altri oppure provocare ferite anche grandi. Possiamo costruire una bella relazione sponsale, genitoriale, familiare o amicale oppure smontare e distruggere. Abbiamo mai pensato da che parte stiamo? E come usare le parole? Sì perchè non sono mai a senso unico: sono pronunciate quanto udite, enunciate quanto ricevute e presuppongono sempre un mittente e una destinatario. Le parole vanno e vengono ma c’è modo e modo sia di inviarle che di accoglierle.

Scrivo questo per introdurre il Big di oggi, 13 giugno, ossia Sant’Antonio di Padova – o San’Antonio, come dicono i padovani – ma sarebbe ancora meglio dire Sant’Antonio da Lisbona, dato che fu la capitale portoghese a dargli i natali. Insomma, ci siamo capiti, parliamo sempre di lui, di questo Santo cui siamo così affezionati, il protagonista di tanti miracoli e di tanti detti popolari, di tante preghiere, novene e catechesi. Santo – e lo si può osservare proprio nella Basilica veneta a lui dedicata – di cui si conserva incorrotta la lingua. Esattamente: essa è ancora lì per noi, oggi, per spingerci a riflettere non solo su un grande mistero ma sul suo significato, ancora più dirompente e straordinario.

L’organo della cavità orale di Antonio fu ritrovato in perfetto stato di conservazione a partire dalla prima ricognizione sul corpo, avvenuta nel 1263, quando san Bonaventura da Bagnoregio, allora Ministro Generale dell’Ordine francescano, aprì la cassa contenente le sue spoglie mortali trentadue anni dopo la sua morte (notare che Antonio fu proclamato Santo appena un anno dopo la sua nascita al Cielo).

Ma cosa vuol dirci, esattamente, la sua lingua incorrotta? Perché è importante conoscere o scoprire questo fatto? Sant’Antonio fu un grandissimo predicatore e un eccellente oratore, inviato direttamente da San Francesco d’Assisi non solo in lungo e in largo per l’Italia ma anche all’estero, specialmente in Francia. Si racconta che nel 1228 papa Gregorio IX gli chiese di tenere le prediche di Quaresima sul dogma dell’Assunzione di Maria e che gli uditori – di lingue differenti – lo sentirono parlare ciascuno nella propria. Che meraviglia! Richiamo alla Pentecoste in cui “tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi” (At 2, 4).

Ecco allora che lo strumento corporale utilizzato per diffondere la Parola, difendere la fede e illuminare il cammino di tante persone resta vivo nel tempo, sfidando qualsiasi legge fisica, chimica e biologica. Nella storia della Chiesa ci sono numerosi casi d’incorruttibilità, basti pensare al corpo di Santa Bernadette, alle mani e agli occhi di Santa Caterina Labourè (ossia le parti del corpo che avevano visto e toccato la Madonna, rivelatasi nell’effige della Medaglia Miracolosa) o Santa Rosa da Lima. Questi sono segni importanti soprattutto per i posteri, per far capire che gli strumenti di Dio hanno qualcosa di soprannaturale perché innalzano la normalità dell’esistenza verso il suo valore eterno, che è il fine per il quale ciascuno di noi è stato creato.

Le parole di Sant’Antonio, evidentemente, erano ben diverse da quelle annacquate e sterili che innaffiano le nostre attuali comunicazioni, spesso così povere e carenti di significati e significanti, così banali e ripetitive quanto non addirittura offensive, oscene e scurrili, capaci di turbare, impaurire e sconvolgere, piccoli e grandi. Le parole di Sant’Antonio parlavano di Cielo, di Verità e di Bellezza, tutti valori di cui il mondo ha disperatamente fame e bisogno, ma che ahimè cerca in luoghi e contesti semantici e fisici così lontani da Dio! Cerchiamo allora di farci anche noi portatori di parole sane, edificanti, belle perché potremo sicuramente fare la differenza, e che differenza! Sforziamoci di far capire a tutti (coniuge, figli, genitori, parenti, amici e colleghi) che siamo cristiani proprio a partire dal linguaggio che consapevolmente decidiamo di utilizzare. Allora, proprio come quella lingua incorrotta che ancora ci parla, trasformeremo anche noi semplici sequenze di lettere in qualcosa di più duraturo, in qualcosa che profuma di Cielo.

Fabrizia Perrachon

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