Spogliati per Amare Davvero: la Notte del Mantello

Siamo ancora immersi nella notte dell’anima. La relazione tra gli sposi, un tempo radiosa e vibrante, ora sembra persa tra ombre e silenzi. La vicinanza profonda dei corpi, l’intesa degli sguardi e la gioia dei primi abbracci sembrano appartenere a un altro tempo. È naturale che ciò avvenga: il matrimonio, come ogni vera storia d’amore, non cresce soltanto nei giorni di sole, ma soprattutto nelle notti oscure. Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. La riflessione come sempre è tratta dal nostro libro Sposi sacerdoti dell’amore (Tau Editrice).

La separazione, il sentirsi distanti, fa parte della vita di ogni coppia. Non è un incidente: è una tappa. Accade: l’altro non risponde più ai nostri richiami interiori. Diventa estraneo. Il suo silenzio brucia, la sua freddezza ci punge. E allora sorgono domande dolorose:
È davvero la persona giusta?
Perché è così chiuso, così lontano?
Perché non riesce più a vedermi, a capirmi?

In quei momenti, le nostre certezze diventano come “le guardie della città”: difese interne, costruite per proteggere l’immagine ideale che ci eravamo fatti del nostro sposo o della nostra sposa. Guardie che, invece di custodire, finiscono per ferire. Ci colpiscono. Ci spogliano. Ci strappano il mantello.

Il significato del mantello nelle relazioni

Il mantello, in una lettura spirituale e psicologica, rappresenta tutte quelle cure, attenzioni e sicurezze di cui ci avvolgiamo inconsapevolmente nel matrimonio. È il bisogno naturale di sentirsi amati, accolti, protetti. È la veste che riveste il nostro bisogno primario di essere visti e riconosciuti.

Quando le guardie ci strappano il mantello, quando l’altro non risponde più come vorremmo, viviamo una nudità interiore. Ci sentiamo esposti, vulnerabili, nudi non solo davanti al coniuge, ma anche davanti a noi stessi. È una notte, sì, ma anche un’opportunità: la possibilità di imparare ad amare senza appoggiarci più ai sostegni infantili che ci aspettavamo dall’altro. È la chiamata a rivestirci di un altro mantello: il mantello di Cristo.

San Paolo dice: “Rivestitevi dunque, come eletti di Dio, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine e di pazienza” (Col 3,12). Questo nuovo mantello non è tessuto con le attese che abbiamo sul coniuge, ma con il dono gratuito di sé. Non amiamo più solo perché l’altro corrisponde, ma perché scegliamo di amare. Non amiamo più per ricevere, ma per donare.

Il matrimonio non è un mercato di affetti, è una scuola di gratuità. E in questa notte dell’anima, in questo essere percossi e spogliati, ci viene offerta la possibilità più alta dell’amore: amare come Cristo, senza condizioni.

Testimonianza di una notte vissuta

Anche nella nostra storia, Luisa ed io abbiamo attraversato una notte simile. L’inizio era stato luminoso: matrimonio da favola, primi figli arrivati come benedizioni immediate. Tutto sembrava perfetto. Ma forse, inconsciamente, correvamo troppo. La realtà, quella più profonda, bussava alla porta. Ero entrato, improvvisamente, in una crisi che non sapevo nemmeno spiegare. Come lo sposo del Cantico, me ne ero andato. Non fisicamente, ma con il cuore e con la mente. Mi sentivo soffocato, inadeguato, schiacciato dalle responsabilità. Mi allontanavo, cercando rifugio nel lavoro, nello sport, altrove.

Luisa, come la Sulamita, si trovò sola. Ferita. Spogliata del mantello delle sue certezze. Il marito su cui pensava di poter contare era diventato freddo, sfuggente. Ma non mollò. Con la forza dolce di chi ama davvero, mi continuava a trattare come il marito migliore del mondo. Non perché io lo fossi in quel momento, ma perché aveva scelto di amarmi così. Nonostante tutto. Era come se, spogliata della sicurezza del suo primo mantello, avesse deciso di cucirne uno nuovo: non fatto di aspettative, ma di misericordia.

E quella misericordia, giorno dopo giorno, ha compiuto un miracolo. Non c’è nulla di più forte al mondo che essere amati quando non lo meritiamo. Non c’è nulla che converta più profondamente del sentirsi accolti nella propria miseria. Alla fine, quella notte ci ha rigenerati. Alla fine, quel mantello strappato ci ha resi nudi davanti a noi stessi e davanti a Dio. E Dio ci ha rivestiti. Non più delle nostre illusioni, ma del Suo Amore.

Il dolore come fecondità

L’episodio delle “guardie che tolgono il mantello” nel Cantico non è semplicemente un momento di dolore: è una gestazione. Nella simbologia biblica, il mantello rappresenta anche l’identità, la dignità, il ruolo. Quando viene tolto, non perdiamo solo protezione, ma anche l’immagine che abbiamo di noi stessi. Quella notte non è sterile: è gravida di una nuova possibilità.

Nella logica dell’amore cristiano, la perdita, il fallimento apparente, la spogliazione sono vie attraverso cui si genera una nuova fecondità. Non la fecondità biologica, ma quella più profonda: la fecondità dell’amore che salva, che redime, che rinnova.

Malati d’amore

Alla fine, cosa resta? La Sulamita lo grida: “Scongiuro, figlie di Gerusalemme: se trovate il mio diletto, ditegli che sono malata d’amore!”
Non è un lamento. È un inno. Essere malati d’amore significa essere conquistati da un amore che non possiamo più possedere, ma solo desiderare. Essere malati d’amore è vivere nell’inquietudine benedetta di chi ha scoperto che l’altro non è un oggetto da trattenere, ma un mistero da accogliere. Solo chi ha attraversato la notte del mantello può amare davvero. Solo chi ha imparato a restare nudo può essere rivestito della veste più bella. La veste del vero amore.

Antonio e Luisa

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