Essere e non fare… la moglie!

Quando ci si sposa, si inizia un’avventura tutta nuova, una di quelle di cui si sente parlare grazie alle testimonianze, grazie ai corsi prematrimoniali, ai libri, ai blog, alla Bibbia e alla Chiesa, pertanto si inizia a familiarizzare con l’idea del matrimonio, ma la realtà dei fatti… non è affatto scontata!

Quando mi sono sposata, quasi due anni fa, sapevo cosa desideravo e cosa dovevo fare e non fare per mantenere vivo il matrimonio: collaborazione, passione, complicità, sincerità, dialogo, amicizia, perdono, custodia dell’altro, sono virtù che alleniamo e apprendiamo in parte durante il – buon – fidanzamento. Ma, per quanto mi riguarda, non è stato sempre ovvio e spontaneo praticare queste virtù nella quotidianità. Confrontandomi con alcune persone, ho notato che per più di qualcuno il primo periodo matrimoniale è stato vissuto come una montagna russa di emozioni, positive e negative, non per problemi della coppia in sé, ma per tutto ciò che la circonda: per alcuni era la famiglia del partner, per altri la questione economica, per altri la mancata capacità di gestire gli spazi personali, la convivenza, la lontananza dai familiari, insomma tutte situazioni di cui senti solo l’odore durante il fidanzamento e che assapori dopo il “sì, lo voglio”.

Anche io ho vissuto una piccola ma significativa difficoltà e oggi voglio condividerla con voi. La convivenza con mio marito, per motivi logistici, è iniziata più di un mese dopo il matrimonio, eravamo a 730 km di distanza. Trovata casa, in affitto, quindi consapevole del fatto che non fosse la nostra; nel posto in cui lui lavorava, cioè in un luogo nuovo, a me sconosciuto e che non avevo scelto; tra persone estranee e alla ricerca fallimentare del lavoro per cui ho studiato, una macchia di malinconia ha iniziato a pervadermi l’animo. Questo mi faceva infuriare, perché notavo come mi stava rovinando quello che doveva essere il periodo più felice della mia vita! A gravare su questo, c’era la sciocca pretesa della tanto idolatrata indipendenza economica. Il fatto di non lavorare, per me, significava stare sotto lo schiaffo di qualcuno. Mio marito lavorava regolarmente, ogni giorno, 8 ore al giorno, mediamente. Come si dice nel gergo comune, “portava il pane a casa”.

E quindi io cosa dovevo fare? Mi svegliavo presto, preparavo la colazione e, salutatolo, iniziavo con le faccende domestiche: sistemare gli scatoloni, pulire casa, lavare, stirare, cucinare, fare la spesa, insomma, nulla di straordinario, cose che (quasi) tutti fanno quotidianamente. Finito tutto, in attesa del ritorno di mio marito che doveva trovare una super moglie, un super pasto e una super casa pulita e profumata, avevo sempre un vuoto dentro e un nodo alla gola. Ogni tanto avevo pensieri tipo “non è per questo che mi sono rotta la schiena sui libri” e “è il mio dovere, lui guadagna, io sistemo casa”.

Stavo male e mi vergognavo di condividerlo a mio marito. Frustrazione? Tristezza? La radice di quel malessere era un’altra: stavo facendo la moglie ignorando di esserlo. Infatti, mi comportavo più come una colf assunta da lui (che era ignaro di tutte queste paranoie) che come una moglie. Avevo inconsciamente alterato il significato del servizio trasformandolo in lavoro, preda della logica del do ut des, quindi “lui lavora (porta lo stipendio a casa), io lavoro per lui (do il mio contributo perché mai mi si dica che sono una nullafacente)”.

La teoria appresa prima dello scambio degli anelli e l’esperienza del fidanzamento, sono stati spazzati via dalla logica del fare in connubio alla logica patriarcale: più cose fai, più meriti attenzioni, riconoscimenti, amore e cura, ma se non lavori, se non produci e se non hai uno stipendio, non hai voce in capitolo; se ti serve qualcosa, devi chiedere il permesso, devi chiedere per favore. Mi ci sono voluti due mesi, tanto dialogo, tante coccole e tanta preghiera per imparare come camminare lungo questo sentiero e di quale equipaggiamento avevo bisogno imparare a essere la moglie di cui mio marito ha bisogno e di accogliere con pace il susseguirsi delle cose.

Ho avuto modo di sperimentare il significato profondo delle parole evangeliche «costruire la casa sulla roccia», una roccia itinerante che non si fossilizza e non è mai statica, perché la roccia è Cristo, che e la casa è il “noi” del matrimonio; così ho iniziato a concepire ogni cosa come un atto di cura e amore per lui, perché è colui a cui ho scelto di donare la mia vita e non “per lui, perché lui lavora e mi dà a campare”; così come lui, me lo ha rivelato solo dopo, ha sempre concepito il suo lavoro come il servizio e la missione per me e per la nostra famiglia. È incredibile vedere come un semplice modo di intendere le cose possa cambiare radicalmente il modo di viverle. Mi stupisco ogni giorno e lodo Dio per questo, perché tutto, se fatto con amore e per l’Amore, diventa sacro, e non ci sono stipendi e titoli che possano esserne all’altezza!

Francesca Parisi

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