Essere padri ma quanto è difficile?

Oggi festa del papà. Un articolo un po’ diverso. Un articolo dove non racconto solo la bellezza di essere papà ma anche la fragilità che sento di avere come padre. Io sono papà di 4 bellissimi ragazzi, tre maschi e una femmina, oltre che di Giò che è nato al Cielo poche settimane dopo il concepimento. Io oggi mi sento terribilmente inadeguato. Spesso non mi reputo capace di essere un padre. Non sono capace perché nella relazione con i miei figli non riesco a essere libero. Mi illudo di esserlo ma poi porto dentro quella relazione le ferite del mio bambino interiore che influenzano la mia parte adulta.

Non sono libero quando li consiglio, li sprono, li consolo, quando sto con loro. Non sono libero soprattutto quando mi arrabbio con loro, perché non giudico mai solo il loro comportamento ma anche quello che il loro comportamento provoca in me che non dipende da loro ma da me.

C’è sempre quel bambino dentro di me che mi ricorda la sua relazione con un padre anaffettivo e incapace di mostrare i suoi sentimenti verso il figlio. Un padre che mi ha amato immensamente – questo l’ho capito che ero già grande – ma che non ha mai saputo dimostrarmelo e che mi ha fatto sentire sempre non abbastanza. Un padre normativo che cercava un dialogo con me solo per riprendermi quando non mi comportavo bene.

Io tutto questo l’ho portato poi nel mio essere marito e ancor di più nel mio essere padre. Quanti errori che ho fatto con i miei figli. Ho cercato di insegnare loro la vita e mi sono accorto di aver imparato io tanto da loro. Ho imparato che non sono miei, che non posso decidere io per loro. E l’ho imparato dopo che il mio primo figlio si è ribellato a una mia decisione. Aveva già 16 anni. Ne è nata una litigata furiosa ma alla fine ho capito che dovevo lasciarlo libero di scegliere diversamente da quello che io volevo.

Ho imparato a uscire dai miei schemi. Ma dove è scritto che un bravo figlio deve comportarsi nel modo che io mi aspetto. Un figlio è un mistero che va accolto, amato come è e accompagnato. Un figlio è una ricchezza che non va impoverita con i miei pregiudizi ma va scoperta e aiutata a svilupparsi.

Ho fatto tanti danni ma ciò che mi consola è che ho cercato di insegnare loro ciò che è davvero importante. Ho mostrato loro sì che non sono perfetto, che ho i miei limiti. Attenzione: i figli hanno bisogno di credere di avere un papà supereroe solo fino all’infanzia poi è meglio capiscano che il loro papà è un uomo con i suoi pregi e i suoi difetti. Dobbiamo essere capaci di ammettere i nostri errori con loro e anche di chiedere scusa. L’insegnamento davvero importante è però un altro: la mia forza viene da Dio. Loro sono figli amati da un padre imperfetto come me ma anche da un Padre eterno e capace di amore infinito come Dio. Ecco credo che se sono riuscito a trasmettere loro questo sapranno riuscire nella vita nonostante un padre con tanti limiti come posso essere stato io.

Dio senza di te e senza il tuo costante perdono e amore non sarei mai riuscito a salvare la mia vita figuriamoci ad accompagnare verso la bellezza e la pienezza quella dei figli che mi hai affidato. Grazie anche alla mia sposa che mi ha sempre incoraggiato e sostenuto. Non mi ha mai fatto pesare i miei limiti.

Antonio e Luisa

San Giuseppe: un esempio per vivere la nostra vocazione

In un articolo precedente abbiamo introdotto l’esortazione apostolica Redemptoris Custos di Giovanni Paolo II, interamente dedicata alla missione di san Giuseppe, contemplato dal Santo Padre come “Custode del Redentore” e “Ministro della salvezza”. La lettura integrale di questo ricco documento aiuta ad intravedere nella custodia esercitata da Giuseppe verso il Figlio di Dio una dimensione della sua paternità, che si rivela come modello di ogni paternità umana, sia naturale che spirituale. Lo stesso Santo Padre in un’altra occasione, nel libro Alzatevi! Andiamo!, nella sezione intitolata Una paternità sull’esempio di san Giuseppe, dichiarava: «quando penso a chi potrebbe essere considerato come aiuto e modello per tutti i chiamati alla paternità – nella famiglia o nel sacerdozio, e tanto più nel ministero episcopale – mi viene in mente san Giuseppe. La Provvidenza preparò san Giuseppe a svolgere il ruolo di padre di Gesù Cristo. Giuseppe fu chiamato a essere lo sposo castissimo di Maria proprio per far da padre a Gesù».

A partire da tale affermazione e alla luce dell’esortazione apostolica Redemptoris Custos, è possibile riflettere sulla paternità di Giuseppe anzitutto come “vocazione”, dal momento che si tratta di vera paternità, nonostante manchi della generazione naturale. In questo articolo ci soffermeremo sulla chiamata di san Giuseppe ad essere sposo e padre, mentre nel prossimo affronteremo più direttamente il valore del suo matrimonio e l’esercizio della sua speciale paternità. In entrambi i casi cercheremo di trarne qualche insegnamento per la vita cristiana.

La citazione di Giovanni Paolo II interpreta la paternità di Giuseppe nei termini di una chiamata da parte del Signore, che si realizza in modo peculiare ed unico nel contesto del matrimonio con Maria: una chiamata ad essere un vergine sposo e padre putativo. Osservando la dinamica misteriosa di questa vocazione possiamo scoprire il modo di agire di Dio nella chiamata personale di ogni uomo e il modo adeguato di rispondere da parte dell’uomo stesso. Crediamo, infatti, che nella straordinaria vicenda di Giuseppe si nasconda una verità universale sul mistero della vocazione particolare di ogni essere umano.

Innanzitutto, ponendoci all’ascolto dei Vangeli, scopriamo che il silenzio di san Giuseppe non è vuoto, bensì pieno della Parola di Dio e pieno della risposta pronta e attenta dello stesso Giuseppe. Un silenzio fatto di ascolto, di opere buone e sante/giuste. Il suo atteggiamento rivela l’obbedienza della fede (“obbedire” viene da ob-audire, che contiene in sé l’idea di un ascolto profondo). La sua vocazione si manifesta in un silenzio pieno di Dio, così come la personale risposta alla sua chiamata, che si traduce prontamente in azione. Nei Vangeli, dunque, Giuseppe è l’uomo dei fatti. Non parla mai, eppure è sempre all’opera.

La modalità della sua risposta dice una fede vissuta in una obbedienza fattasi docilità e fiducioso abbandono alla volontà del Signore. Per Giovanni XXIII, «san Giuseppe offre esempio di attraente disponibilità alla divina chiamata, di calma in ogni evento, di fiducia piena, attinta da una vita di sovrumana fede e carità, e dal gran mezzo della preghiera» (17.3.1963). Quella prontezza nel rispondere alle ispirazioni divine, infatti, non è qualcosa che si può improvvisare e, proprio per questo, è da considerarsi il frutto di una lunga maturazione nella fede, di una generosa corrispondenza alla grazia ricevuta in dono, della acquisita disponibilità a lasciarsi condurre e plasmare dalla Provvidenza divina, così da arrivare pronto all’adempimento della sua straordinaria missione. Per questo è vero anche quanto affermato da Giovanni Paolo II, ossia che la Provvidenza deve averlo preparato sapientemente ad accogliere le altissime esigenze della sua vocazione. Inoltre, non possiamo escludere che la relazione con Maria, l’Immacolata, abbia contribuito a sostenere e alimentare la sua fede nel Signore, l’attesa fiduciosa del compimento delle antiche promesse al Popolo eletto.

Sebbene la nostra chiamata non abbia i tratti straordinari di quella di Giuseppe, anche noi siamo accompagnati e preparati dal Signore invisibilmente, nel silenzio, discretamente. Forse per lunghi anni e attraverso vari eventi, veniamo plasmati dalla Provvidenza per divenire capaci di una risposta sempre più consapevole e generosa al disegno di Dio, il quale ci dona progressivamente la grazia necessaria per poter accogliere la sua volontà giorno dopo giorno. In questo cammino di santità è bene, come Giuseppe, prendere con noi Maria, per noi Madre, guida, sorella e amica, per essere interiormente rafforzati nella fede e in tutte le virtù cristiane. Sta a noi, infatti, e alla nostra libertà, di cooperare attivamente con l’amore del Signore, coltivando la docilità, l’abbandono e la fiducia attraverso i mezzi ordinari della preghiera, della vita sacramentale e dell’ascesi, soprattutto per mezzo di una autentica e feconda relazione con la Vergine Maria, reale presenza da amare sull’esempio dei santi. In particolare, Giuseppe e Maria ci insegnano e aiutano a rispondere al Signore anche quando la chiamata di Dio è molto esigente e sembra superare le possibilità umane.

San Giuseppe sa di dover custodire il Figlio di Dio e sua Madre, comprende le altissime esigenze della sua vocazione di sposo della Vergine e custode del Verbo, ma non si lascia trattenere dalla paura. D’altronde, quando il Signore gli annuncia in sogno la missione da compiere, non lo lascia nell’ignoranza della verità, sebbene gravosa, affinché egli possa rispondere in piena libertà e coscienza. L’Angelo gli rivela che il Bambino concepito in Maria «viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Quel Bambino che ella partorirà è, dunque, Dio, venuto a salvare il Suo Popolo dai suoi peccati (cf. Mt 1,21), e Giuseppe deve accoglierlo come suo vero figlio in un matrimonio tra vergini. A somiglianza di Mosè, egli, al cospetto della Madre di Dio, comprende di trovarsi davanti al “roveto ardente”: una certa tradizione vuole che il roveto che arde e non si consuma di Esodo 3,2-6 sia proprio un simbolo, una prefigurazione della Semprevergine Maria.

Secondo alcuni Padri della Chiesa, il giusto Giuseppe, venuto a conoscenza della gravidanza della sua sposa, dubitò di lei al punto da volerla rimandare in segreto, mentre, secondo altri, egli non dubitò affatto della sua innocenza, ma decise di allontanarla da sé non sapendo come comportarsi con lei, oppure perché si sentiva inadeguato a fargli da sposo, dato il mistero che il lei si compiva. Al di là delle possibili interpretazioni, ciò che il Vangelo di Matteo ci mostra è un Giuseppe immerso in gravi pensieri dopo l’Annunciazione a Maria, il quale, però, non appena conosciuta la volontà del Signore, attraverso una sorta di “annunciazione notturna”, risolutamente abbandona ogni esitazione, per adempiere il disegno sconcertante di Dio. A ragione, si legge nella Redemptoris Custos al numero 5 che «di questo mistero divino [dell’Incarnazione] Giuseppe è insieme con Maria il primo depositario. Insieme con Maria – e anche in relazione a Maria – egli partecipa a questa fase culminante dell’autorivelazione di Dio in Cristo, e vi partecipa sin dal primo inizio». Inoltre, accogliendo la sua vocazione, egli «sostiene la sua sposa nella fede della divina annunciazione».

Ed ecco un altro grande insegnamento per noi: siamo tutti chiamati alla santità, ma abbiamo la libertà di accogliere o meno la chiamata a noi rivolta. Tuttavia, dobbiamo essere consapevoli che dalla nostra scelta dipenderanno le sorti di altre persone, essendo noi membra di un unico Corpo, di un’unica Chiesa, tutti in relazione con Dio e tra noi. La storia della Sacra Famiglia ci insegna che la risposta fedele di Giuseppe ha avuto decisive conseguenze su Maria, Gesù e l’intera umanità. Infatti, il suo “sì” ha sostenuto il “sì” della Vergine Madre, mentre il fiat di Maria poneva le condizioni per la risposta di Giuseppe e permetteva al Figlio di Dio di incarnarsi nel tempo, per la nostra salvezza. Un verità su cui poco si riflette, da meditare a lungo nella preghiera, affinché anche noi come Giuseppe e Maria, in ascolto della volontà divina, sappiamo accogliere generosamente quel compito che Dio vuole affidarci nella Chiesa. Non c’è da temere le esigenze della vocazione cristiana, nostra vera felicità. A ciascuno di noi, infatti, il Signore rivolge il medesimo incoraggiamento, ed è sempre generoso nell’elargire la grazia necessaria con chi si fida di Lui: «Non temere, perché io sono con te; non smarrirti, perché io sono il tuo Dio. Ti rendo forte e ti vengo in aiuto […]. Poiché io sono il Signore, tuo Dio, che ti tengo per la destra e ti dico: “Non temere, io ti vengo in aiuto”» (Is 41,10.13).

Pamela Salvatori