Scegliersi è il passaggio più complesso. Ma una volta afferrato il coraggio che ci spinge con fiducia, e timore anche, a pronunciare quel sì, tutto ciò che ne deriva è fecondo, se lo desideriamo. Questo è, a mio confinato e limitato parere, il segreto del matrimonio.
Anzitutto, si parte in uno più un altro e si diventa tutt’uno che mi pare già tanto. Un miracolo, stando alle leggi matematiche (di cui mai ho capito granchè, ma ai conti basilari ci arrivo); un miracolo per sottrazione sembrerebbe. Da due a uno. Ed è un po’ così; perché ci si riduce, sposandosi. Si riducono le pretese, per assecondare quelle dell’altro, si ridimensionano le richieste per poter dare spazio a quelle di chi amiamo, si stringono i propri campi di affermazione per imparare ad ascoltare chi ci sta dinanzi.
Ma in quel tutt’uno non si perde se stessi. Tutt’altro. Non si riduce la personalità ad esempio, che invece si forgia ed è ampiamente illuminata dall’esperienza della condivisione. Si potenzia la propria indole perché si impara dallo sposo/a ad avere una visione allargata dell’esercizio del vivere insieme; si coltiva la meravigliosa e rischiosa possibilità di abbandonarsi a qualcuno, sentendosi curati, medicati, amati. Da due ad uno, ma un uno più forte, un uno che è completo (o quasi) nella sua pienezza. Un uno che racchiude sogni doppi, idee molteplici, sentimenti estesi. Un uno che ha la forza di due.
E, per i cristiani, quelli un po’ folli che si lasciano guidare dalla fede, quell’uno è un tre. Perché al centro c’è Chi realmente tira avanti la baracca. Quanta matematica sta venendo fuori. Un eccesso per me che mi blocco ai calcoli con le decine! Dunque basta numeri e proviamo a dare una risposta alla lettrice del blog “Matrimonio Cristiano” che domandava, parafrasando, come riempire il tempo di un matrimonio senza figli, come fecondarlo. Di getto verrebbe da rispondere: “vivendolo”. Perché con un chiasso che inizi all’alba, tra vagiti e capricci, o nella pace di una casa più quieta, la giornata può essere ricca.
Però, la conosco bene la sensazione di non agguantare bene quel tempo che scorre. Di non saperlo investire di sufficiente consapevolezza, forse perché la mente e ancora prima il cuore, sono in attesa. L’attesa di un sogno che tarda a concretizzarsi. La speranza di vederlo un piccolino correre tra i mobili, generandoti l’ansia. E poi, contestualmente, sentire nell’aria lo sgradevole odore del fallimento. I pensieri che ti spingono a domandarti se l’altro sia stata la scelta giusta, se con qualcun altro avresti potuto ricevere la gioia della maternità/paternità, se il matrimonio che vivete è “sufficiente”. E’ una fase, temo. E va abitata. Ci si deve sedere in quello scantinato dei pensieri tristi. E prenderli a pugni, uno per volta. Qualche volta ci si alza vincitori ma altre volte, invece, resti a terra. Come su un ring.
Poi però, ti giri e c’è qualcuno che quel pugno in faccia te lo medica. E ti ricorda con chi hai deciso di scommettere in questa vita, abbracciato a chi. “Nella gioia e nel dolore…” non era un ritornello. Ma perché il dolore? E perché i figli non arrivano proprio a noi? Poi magari incontri coppie che ne hanno tanti e non li hanno desiderati o amati, o non si sono dedicati. Ammettiamolo, resta uno di quei misteri per cui impazzire o fidarsi. Di nuovo. Stringendosi in tre, aggrappati a Chi la casa la fa sorgere sulla roccia. Perché se è vero che ci ama, che ha voluto quel progetto matrimoniale, se Lo abbiamo invitato alle nostre nozze certi, anche noi, che il vino sarebbe finito magari non al ricevimento come a Cana, ma poco dopo o anche più in là, ebbene un senso al disegno scritto per noi e con noi dovrà esserci. Meno manifesto, più intricato, ma ugualmente meraviglioso, originale, sorprendente.
Dobbiamo solo predisporci all’ accoglienza del cuore, dello spirito, oltre che della carne. Percorrere una strada differente da quella che siamo abituati a vedere, per dare il nostro contributo d’amore, di apertura, di insegnamento e affidabilità a chi ne avrà bisogno, ai piccoli; in età, fragilità, in amore ricevuto. Donarsi a chi attraverserà il nostro percorso unico, nei modi in cui solo noi siamo capaci di fare, nel nostro esser tutt’uno. Ma indipendentemente dalla sfida genitoriale o parentale o di qualsivoglia genere, la vocazione primaria resta mantenere quel tutt’uno in vita. Col cinema, con lo stadio, con i libri. Con le confidenze, il dialogo, la preghiera. Con le risate, le lacrime, le insoddisfazioni. Con le vacanze, i desideri, i sogni. Con i litigi. Con le scelte illogiche incomprese ai più. E le incoerenze, e le apparenti distanze. Fino alla pace, quella che ci ricorda che è l’alba di un nuovo giorno. Donato. Da vivere. Ancora tutt’uno.
Livia Carandente
Puoi acquistare i suoi libri Quanti figli hai? Quando l’attesa di un bebè dura più di nove mesi – Ancora non hai figli? Quando vorresti urlare ma ti limiti a sorridere