Ciao Livia, tu sei diventata ormai un volto e una penna conosciuti sui social e in ambito cristiano. Sei una donna e una moglie che racconta una sofferenza un po’ sommersa, ma sempre più presente nella Chiesa e non solo nella Chiesa. Tu racconti con ironia e con leggerezza il dolore della maternità agognata. Lo hai fatto con tanta ironia nei tuoi due libri pubblicati fino ad ora. Ironia non significa però che non ci sia sofferenza. Uno dei tuoi libri si intitola Quanti figli hai? Ecco, tu come suggerisci di rispondere a una domanda così, che mette il coltello nella piaga aprendo ancora di più una ferita che sanguina nel tuo cuore?
Le risposte ci sarebbero, ma non tutte ortodosse. Alcune addirittura ineleganti. Quindi finisci col tacere. Nei casi migliori accenni un sorriso e l’elenco di esternazioni trash lo pronunci con la bocca del tuo cervello che si spegne non appena sentite quelle due o tre parole tabù. Altrimenti, se il cuore fa prima del cervello, riempi di lacrime gli occhioni e provi a non lasciarti andare in un pianto scrosciante. Prendi il telefono, chiami la mamma, l’amica, la sorella e sfoghi la tua rabbia contro l’indelicatezza, il tuo sgomento dinanzi all’invadenza e possibilmente il tuo dolore per non aver potuto rispondere come tante: “ne ho uno, due, tre”. Di figli, s’intende. La domanda della lettrice di “Matrimonio Cristiano” è tosta. E nonostante i diversi anni di ripetizione della stessa, neppure io ho trovato la formula giusta per liquidare e mettere a tacere quelle bocche così facili al punto da aver deciso di dedicare un libro all’argomento (in realtà due).
I tuoi libri nascono quindi da un’esigenza di raccontare delle emozioni e un dolore. Il dolore delle aspettative disattese. Continuamente ricordate da quella fatidica domanda: quanti figli hai?
Perché una risposta breve o lunga o un discorso non sarebbe bastato a riempire il vuoto che la domanda “Quanti figli hai?” mi provocava. E’ nato proprio così il titolo del mio romanzo. Ed è scaturito dal dolore che provavo ogni qualvolta quell’interrogativo mi piombasse addosso. Tante volte non era certamente finalizzato ad aprire una ferita. Era solo un modo per rompere il ghiaccio tra conoscenti. Come poteva colui o colei che si accingeva a parlarmi sapere quale enorme macigno mi portavo dentro? Altre volte invece, ho dovuto appurare, l’argomento veniva aperto in modo consapevole. E la domanda non era così nitida, ma più vigliaccamente nascosta in una lunga parafrasi. Era quasi sempre frutto di curiosità. Sapere da chi dipendesse, sapere come affrontavamo e soprattutto scoprire perché non avessimo deciso di ricorrere ad una inseminazione o fecondazione dato che, oggi, è possibile arginare così il problema. E’ inspiegabile come si possa toccare un argomento così delicato, entrando a passi grandi, quasi violenti per soddisfare una curiosità becera. Mi sono chiesta tante volte il senso di quel voler sapere. Nulla sarebbe cambiato a me, ma neppure a chi si caricava di un dolore. A volte immaginavo volessero saperne di più per pregare, ma per perorare una causa dinanzi al Signore occorre sapere i dettagli della faccenda? Decisamente non era questo il movente. Allora, per solidarizzare? Ma poi, mi rendevo conto che non appena saputo qualche dettaglio, cambiavano volentieri argomento e di voglia di accompagnarti nella salita ce n’era poca. La nostra società va di fretta. E sciupa ogni dialogo. Che tu risponda aprendo il cuore o inventandoti il motivone dell’anno, non sarai ascoltato. Non lo facciamo più neppure con noi stessi, purtroppo. Una domanda del genere, così intima, presupporrebbe una volontà di ascolto illimitata, una empatia totale, una parola e forse più di amorevole cura.
Cosa è cambiato in questi anni di matrimonio? Cosa hai capito? Cosa dici a chi ancora non è riuscita ad andare oltre il dolore ed è ancora immobilizzata da quello che non può avere o non può essere?
Allora, oggi, superata la fase “Quanti figli hai?” (ce ne sono altre di domande indigeste, però, sappilo!) ti suggerisco di sorridere e magari aggiungere che ti stai preparando. E ribaltare nel tuo cuore la domanda a Dio. La tua sofferenza, la preghiera, il vuoto che ti forgia, la consapevolezza che ne deriva, il mistero del dolore, l’incomprensione e la voglia di speranza sono infatti una preparazione alla tua, personale, unica, originale, maternità. Tra il tempo della tua richiesta al Signore e quello della Sua risposta, vivrai il tempo della fede che altro non è che il tempo dell’Attesa. Ma con la lettera maiuscola.
Livia Carandente
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