Ha vissuto cinquantadue giorni

Ha vissuto cinquantadue giorni ed ha compiuto la sua missione in Terra. Poi è tornata dal Creatore. Il dolore di averla dovuta salutare così presto è stato straziante per i suoi genitori ma, nonostante questa croce pesante, hanno ribadito che, tornando indietro, avrebbero rifatto tutto. E sottolineano che avrebbero voluto concepirla così com’era. Bella e prodigiosa.

Avrebbero nuovamente e ostinatamente portato avanti la gravidanza nonostante il parere sfavorevole dei medici che ne hanno diagnosticato l’incompatibilità con la vita. Avrebbero voluto abbracciarla, baciarla, amarla, come è avvenuto in quegli unici e irripetibili cinquantadue giorni insieme.

Elisabetta Maria è entrata nella vita ed è già nell’eternità. Lei era stata pensata così: delicata. E come tutti i “piccoli” di Dio, in grado di scuotere i cuori, di rovesciare i paradigmi della scienza, di voltare le spalle alla cultura dello scarto. Si è lasciata cullare, coccolare, contemplare, abbandonata alle premure dei genitori, dei parenti, degli amici e dei medici che l’hanno accompagnata, dalla nascita al mondo alla nascita in Cielo.

Il dolore è un mistero. Non si spiega. Ma le parole della sua mamma e del suo papà, dopo un anno dalla perdita di questo fagottino, sono testimonianza. Soprattutto sono un megafono per la vita. Nonostante la nostalgia per quella meravigliosa creatura e ciò che ne è scaturito, non avrebbero voluto agire diversamente. Oggi possono dire di aver conosciuto quella creatura. E di averla amata. Non tradendo la loro missione familiare e genitoriale. Non ostacolando l’amore percepito in quei giorni avvolti dal mistero.

Elisabetta Maria è stata nella storia dell’umanità per quanto è stato pensato per lei: il tempo di allargare cuori, convertire chi ha partecipato alla sua nascita, interrogarsi. Elisabetta Maria è stata una pietra scartata dai costruttori del mondo, divenuta testata d’angolo nei Cieli.

Ci sono vite che, pur brevi, brillano come stelle nella notte. L’esistenza di Elisabetta Maria è una di queste: una luce che non ha avuto bisogno di tempo per rivelare il suo senso. Ha vissuto poco, ma ha amato tanto, e soprattutto ha permesso a chi l’ha accolta di imparare la lezione più alta: che ogni vita è dono, anche quando dura un soffio.

I suoi genitori, nel loro sì coraggioso, hanno scritto una pagina di Vangelo vissuto. Non si sono lasciati piegare dalla paura, né dalle statistiche mediche. Hanno creduto che l’amore fosse più forte della previsione, più grande del dolore. E così, accogliendo la loro bambina fragile, hanno accolto Dio stesso che bussava alla porta del loro cuore in una forma disarmante: quella di una vita fragile, segnata, eppure piena di grazia.

Elisabetta Maria ha predicato senza parole. Con il suo respiro leggero ha ricordato al mondo che non è la durata a dare valore a una vita, ma la sua intensità di amore. Ha testimoniato che ogni nascita, anche la più breve, è parte di un disegno più grande, che solo in Cielo comprenderemo fino in fondo.

Chi l’ha incontrata porta dentro di sé un segno. I suoi genitori raccontano che, dopo quei cinquantadue giorni, nulla è più come prima. È come se la loro fede avesse messo radici più profonde. Hanno scoperto che la speranza non nasce dall’illusione che tutto vada bene, ma dalla certezza che Dio trasforma ogni lacrima in promessa di eternità.

Elisabetta Maria vive ora nel ricordo e nella preghiera di chi l’ha amata. È una presenza silenziosa, ma reale, come un angelo che veglia e accompagna. E la sua storia diventa invito a non temere la fragilità, a non fuggire la croce, a non lasciarsi ingannare da chi considera la vita un bene negoziabile. Ogni vita è sacra, anche la più breve. Ogni battito ha valore. Ogni respiro è canto di lode.

Elisabetta Maria continua la sua missione dal Cielo: ricordare a ciascuno che il dolore, se vissuto nell’amore, genera vita; e che anche la più piccola esistenza può diventare un capolavoro di eternità.

Livia Carandente

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Il mio miglior collega. Diario di un fidanzamento cristiano

IL MIO MIGLIOR COLLEGA. IL LAVORO E LO STUDIO A SERVIZIO DEL PROGETTO VERSO IL MATRIMONIO

Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia.(Lettera apostolica Patris Corde, Papa Francesco)

Cari amici di Diario di un fidanzamento cristiano, non vi nego che questa volta trovare il tempo per mettersi a scrivere è stato difficile, perché il più delle volte mi sentivo stanca tornando da lavoro; dopo tanti anni di studi universitari comprensivi di un’ulteriore abilitazione sono stata finalmente chiamata per una supplenza nella scuola secondaria di primo grado e questa notizia l’ho accolta come un regalo della Provvidenza per me e per Alessandro.

Con lui fin dall’inizio del fidanzamento abbiamo valutato insieme i nostri percorsi di studio verso il raggiungimento dei primi lavori, consapevoli che in un tempo in cui alle giovani generazioni si allunga sempre più il periodo degli studi e la quantità dei titoli richiesti per ricoprire determinati lavori, in linea con le proprie aspirazioni, dobbiamo cercare un modo creativo per progettare insieme gli step da seguire.

Nel nostro caso specifico abbiamo sempre dato valore agli studi universitari, consapevoli che attraverso di essi avremmo potuto trovare in futuro dei buoni lavori per mantenere la nostra futura famiglia. Sapevamo allo stesso tempo che avremmo dovuto dare il meglio e con buona volontà e affidamento a Dio ci siamo riusciti. Io li ho conclusi, mentre Alessandro frequenta l’ultimo anno di studi musicali al conservatorio, oltre all’insegnamento in una scuola privata di musica. E’ stato lui, un po’ come san Giuseppe, ad ottenere il primo lavoro trai due e a porre così le basi lavorative. Nella lettera Patris Corde di Papa Francesco leggiamo a proposito di San Giuseppe: Il coraggio creativo emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti, davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere.

Alcuni mesi fa abbiamo avuto l’opportunità di lavorare insieme per un Istituto di formazione, che si occupava di erogare nelle scuole alcuni corsi sulle competenze digitali previste dal PNRR; è stata un’esperienza davvero bella essere colleghi almeno per un periodo, perché attraverso un buon gioco di squadra quell’occasione lavorativa è diventata più leggera per entrambi.

Posso dire di aver avuto il collega migliore del mondo anche dal punto di vista professionale. Infine da questa riflessione sul lavoro e lo studio nel tempo del fidanzamento ne deriva una conseguente sul “tempo”. Quanto dovrebbe durare un fidanzamento cristiano? La risposta varia da coppia a coppia e dipende molto anche dalla differenza di età che c’è tra i due. Nel nostro caso, avendo la stessa età, il tempo è stato piuttosto lungo per arrivare a porre le basi economiche dei rispettivi lavori, eppure ogni giorno ci ha fatti crescere personalmente e come coppia.

Per me Alessandro non è solo fidanzato, ma anche “fratello” e  carissimo “amico”: adesso possiamo dire di amare l’altro e di conoscerlo come noi stessi.  Ecco che finalmente dopo più di sei anni di fidanzamento abbiamo posto le basi fondanti della nostra futura famiglia (di coppia, spirituali, economiche) e abbiamo fissato la data del matrimonio che sarà la prossima estate 2026.

Se qualcuno si domandasse se Alessandro mi ha fatto la classica proposta da film la risposta è no, perché fin da subito abbiamo desiderato camminare insieme verso il matrimonio. Il fidanzamento cristiano è esso stesso un cammino condiviso verso il Matrimonio! In questi ultimi mesi di attesa vi chiediamo di ricordarci nella preghiera e speriamo che Diario di un fidanzamento cristiano sia una piccola luce di speranza per tanti altri giovani che desiderano la piena realizzazione della loro vocazione. Grazie Signore Gesù, resta con noi.

Eleonora e Alessandro eleonoraealessandro4@gmail.com

BOLLETTINO DELLA COMMUNITY “ISACCO E REBECCA”

La Community WhatsApp dal titolo “Progetto Isacco e Rebecca” raccoglie i desideri profondi di tante persone cristiane in Italia, con il sogno di incontrare altri credenti che condividano i medesimi principi e valori in tema di relazioni e soprattutto la fede. Lascio il link.

CRITERI PER ENTRARE NELLA COMMUNITY

La community viene amministrata da noi (Eleonora e Alessandro) e da Antonio de Rosa. Nella community cerchiamo di favorire un clima di amicizia prima di tutto tra credenti, e in secondo luogo  di favorire la conoscenza tra persone libere che desiderano conoscersi e vivere un fidanzamento cristiano. Ci sono anche alcune persone che si sono rese disponibile come REFERENTI sia per il gruppo Senior sia per il gruppo giovani per aiutarci a gestire il tutto.

Chiediamo SOLO alle persone non separate di entrare nel gruppo Whats app:  non è possibile entrare se si ha  un sacramento in atto. Possono entrare coloro che hanno avuto la nullità matrimoniale alla Sacra Rota.

ETA’:

Nella community c’è una sezione generale in cui ci sono tutti gli iscritti e due sottogruppi:

  • Senior (dai 45 anni in su);
  • Giovani (gruppo 20-35 anni e gruppo 35-45 anni);. Tanti aderiscono a movimenti di preghiera specifici e sono particolarmente inseriti nella vita delle loro parrocchie.

SOTTOGRUPPI REGIONALI:

Abbiamo creato anche sottogruppi regionali per dare modo agli iscritti di conoscere anche persone della stessa regione e organizzare autonomamente videochiamate.

ATTIVITA’:

Periodicamente vengono organizzate videochiamate dai referenti per gruppo Senior e gruppo Giovani. Oltre a questo verrà proposto un giorno di ritrovo in presenza (probabilmente a Firenze) nel periodo delle vacanze natalizie.

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Avete mai sentito parlare di Ali e Nino?

Ci sono due innamorati che possono dirci tanto, spingendoci a profonde riflessioni. Non sono i protagonisti di un fantomatico gossip nostrano né attori di un film ma amanti d’acciaio. Non in senso metaforico ma letterale! Sospesa tra arte, letteratura e sentimento, la scultura “Ali e Nino”, realizzata dall’artista georgiana Tamara  Kvesitadze (in collaborazione con Paata Sanaia), è diventata uno dei simboli contemporanei più suggestivi di Batumi, vivace città situata sulla costa georgiana del Mar Nero.

L’opera è situata sul suggestivo Batumi Boulevard, a pochi passi dall’Alphabet Tower e dalla grande ruota panoramica. Con i suoi otto metri di altezza e circa sette tonnellate di acciaio, domina la passeggiata sul mare regalandosi ai visitatori in tutta la sua imponenza. Ideata nel 2007, e presentata inizialmente alla Biennale di Venezia con il nome originale Man and Woman (Uomo e Donna), la scultura fu ribattezzata “Ali e Nino” quando fu installata a Batumi nel 2010. L’ispirazione proviene dal celebre romanzo del 1937 di Kurban Said, che racconta l’amore impossibile tra Ali, un giovane musulmano azero, e Nino, una principessa cristiana georgiana, sullo sfondo turbolento del Caucaso e della Prima Guerra Mondiale.

Ogni giorno, alle 19:00 ora locale, le figure si animano con un movimento cinetico: per dieci minuti si avvicinano, si fondono in un unico abbraccio, si “attraversano” e poi si separano, voltandosi le spalle, in un ciclo poetico e struggente di unione e distacco. Tamara Kvesitadze spiega che la semplicità dell’idea è potente: l’atto dell’essere insieme è possibile solo per poco tempo; un breve momento che può valere una vita intera.

La scultura, così, diventa un’allegoria sull’amore oltre i confini culturali e religiosi, un richiamo alla tolleranza e alla convivenza tra differenze. Ali e Nino simboleggiano il compromesso, il sacrificio e la bellezza di un legame che, seppur breve, resta eterno nell’emozione che suscita. Chi si ferma ad ammirarla non può fare a meno di essere catturato dal suo lento movimento: molti tornano più volte a vederla, incantati.

Di notte, grazie a giochi di luci, l’opera diventa ancora più evocativa, trasformando l’area in uno scenario sospeso tra sogno e realtà. La statua è un perfetto incontro fra la potenza narrativa del romanzo e la modernità dell’arte cinetica. Nata come opera da mostra, ha trovato casa definitiva su un lungomare che ne ha fatto il suo simbolo, diventando icona dell’identità culturale regionale e una delle attrazioni più fotografate della città.

Alle coppie, e in particolare a quelle cristiane, che cosa può insegnare tutto questo? L’“una caro” – l’unica carne, di cui si parla fin dalla Genesi – non è solo un movimento fisico di avvicinamento e fusione dei corpi ma molto di più. È diventare, essere e vivere come anima sola.Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una sola carne” (Gn 2,24). Questa espressione, ripresa nei Vangeli (Mt 19,5 e Mc 10,8) e poi dagli apostoli, è al centro della teologia cattolica del matrimonio. Non si tratta di una semplice unione sentimentale o legale ma di un mistero sacro, di un progetto divino che coinvolge anima, corpo e spirito. “I due saranno una carne sola” è molto più che un simbolo: è una vocazione all’amore pieno, totale, fedele e fecondo.

L’uomo, creato a immagine di Dio, è incompleto da solo. La donna è creata non come subordinata, ma come complemento perfetto, “un aiuto che gli sia simile” (Gn 2,18). Quando Adamo vede Eva esclama: “Questa sì che è osso delle mie ossa, carne della mia carne” (Gn 2,23). Ecco allora che “una carne sola” indica non solo unità fisica quanto soprattutto unità esistenziale: un legame profondo che fonde due persone in un’unica realtà nuova, pur mantenendo la propria individualità. Gesù restituisce al matrimonio la sua dignità originale del non essere un mero contratto ma un’eterna alleanza, immagine dell’alleanza tra Dio e il suo popolo.

Quella di Ali e Nino, allora, non è soltanto una statua: è una danza magnetica che racconta tante sfaccettature dell’amore. È arte che vive nel tempo, un messaggio universale svolto ogni sera davanti al mare, una riflessione sul valore dell’amore, costruito da tanti istanti. Che solo per Cristo, con Cristo e in Cristo trova il suo pieno compimento. Nel tempo di questa vita ma soprattutto nell’eternità senza fine.

Fabrizia Perrachon

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Da genitore critico a genitore affettivo

A volte, osservare con attenzione come ci comportiamo nelle relazioni più intime – in particolare con il coniuge e con i figli – può rivelarsi molto utile. Questi comportamenti quotidiani possono diventare uno specchio attraverso cui riconoscere alcune nostre ferite emotive, sofferenze passate e difficoltà interiori irrisolte. In altre parole, il modo in cui reagiamo ai nostri cari spesso riflette antiche dinamiche interiori.

Spesso finiamo per comportarci con gli altri esattamente nel modo che meno vorremmo fosse usato con noi stessi. Questo paradosso può suonare strano, ma è comune: senza accorgercene, tendiamo a riprodurre verso chi amiamo gli schemi di comportamento che abbiamo subito in passato. Prenderne coscienza richiede introspezione, ma è il primo passo verso un cambiamento positivo.

Quando ripetiamo ciò che ci ha ferito

Per chiarire questo punto, immaginiamo una situazione tipica: un genitore che da bambino ha ricevuto molte critiche e poche lodi potrebbe, da adulto, ritrovarsi a sua volta ipercritico verso i propri figli. È come se dentro di lui vivesse ancora la voce severa di suo padre o madre. Psicologicamente, secondo l’Analisi Transazionale, quella voce interiore corrisponde al “Genitore Critico”, ovvero la parte di noi che giudica, corregge e impone regole in modo rigido. Senza rendercene conto, possiamo attivare questo stato dell’Io e rivolgerlo a chi ci sta accanto, persino se odiavamo quel tipo di trattamento su di noi.

Ciò accade perché da piccoli interiorizziamo modelli di comportamento: ogni bambino ha bisogno di essere accettato e amato, e farà di tutto per ricevere carezze positive (attenzioni, complimenti, approvazione). Se cresce con un genitore critico e poco affettuoso, il bambino può adattarsi cercando costantemente di compiacere l’adulto, sperando di ottenere riconoscimento. In Analisi Transazionale questo viene chiamato “Bambino Adattato”: il bambino interiore che ha sacrificato un po’ della sua spontaneità pur di piacere e non essere rimproverato. Il lato positivo di questo adattamento è che diventa obbediente e rispettoso; quello negativo è che rischia di diventare insicuro, sottomesso e dipendente dal giudizio altrui.

Allo stesso tempo, dentro quel bambino cova anche una frustrazione. Se nessuno lo valorizza, una parte di lui grida protesta: è il “Bambino Ribelle”, che rifiuta di sottomettersi e si arrabbia di fronte alle critiche percepite come ingiuste. Da adulto, anche se esteriormente cerchiamo di compiacere gli altri, quella parte ribelle può emergere improvvisamente quando qualcuno ci tratta in modo critico. Quante volte è capitato di reagire in modo eccessivo o irritato a una piccola critica del partner o di un collega? Potrebbe essere il nostro bambino interiore ferito che, sentendosi di nuovo giudicato come un tempo, esce fuori pronto a combattere.

Un esempio personale: dal bambino ferito al genitore critico

Anch’io ho vissuto questo processo sulla mia pelle. Sono cresciuto con un padre presente ma emotivamente molto critico: non era un genitore affettuoso, né prodigo di lodi o incoraggiamenti. Più che sottolineare aspetti positivi, era focalizzato sulle regole, sugli errori da correggere e su ciò che “non andava bene”. Da bambino, per sopravvivere emotivamente a questo ambiente, ho imparato ad adattarmi. Ero il bravo bambino: ubbidiente, sempre alla ricerca di approvazione, attento a non deludere. Facevo di tutto per compiacerlo, sperando in quelle parole dolci o gesti di affetto che purtroppo arrivavano raramente.

Crescere così mi ha reso molto insicuro. Dentro di me sentivo di non essere mai abbastanza, perché ogni traguardo poteva sempre essere criticato. Inoltre, da adulto mi scoprivo particolarmente sensibile verso chiunque si comportasse in modo simile a mio padre. Ad esempio, avere a che fare con capi, colleghi o amici critici e freddi mi provocava reazioni esagerate: lì non emergeva più il “bambino adattato” accomodante, bensì il “bambino ribelle” pieno di rabbia. Bastava una frase giudicante per sentirmi di nuovo quel bambino ferito di un tempo, e reagivo con stizza o chiusura, cercando lo scontro o allontanandomi deluso. Era più forte di me, come un pulsante interiore che scattava automaticamente.

Rendersi conto dello schema interiore

La svolta è arrivata quando, durante il mio percorso di studi in counseling e crescita personale, ho iniziato a riconoscere questo schema interiore. Ho compreso che stavo portando avanti un copione: quello del figlio ferito che senza volerlo era diventato un genitore critico a sua volta. Infatti, osservandomi con onestà, mi sono accorto che nel rapporto con i miei figli spesso indossavo proprio la maschera di mio padre. Ero molto esigente con loro, rapido nel correggerli e sgridarli, ma lento nel abbracciarli, elogiarli o dimostrare affetto. Intervenivo quasi solo quando c’era qualcosa che non andava, raramente per dire “bravo” o “ti voglio bene”. In pratica, ero diventato quel genitore anaffettivo e critico che avevo tanto sofferto da piccolo.

Realizzare questo mi ha colpito profondamente. In un primo momento, ho provato dolore e senso di colpa: mi rendevo conto che, pur amando immensamente i miei figli, li stavo ferendo con lo stesso stile educativo che aveva fatto male a me. Ma anziché crogiolarmi nella colpa, ho scelto di vedere questa consapevolezza come un dono e un punto di svolta. Finalmente identificavo chiaramente il ciclo che si stava ripetendo attraverso le generazioni. Ed esserne consapevole mi dava la possibilità di spezzare quel ciclo.

Durante la formazione in Analisi Transazionale, ho imparato a dare un nome a queste parti di me. Era come se dentro di me dialogassero due “genitori interiori”: uno era il Genitore Critico Negativo, ereditato da mio padre, che sussurrava giudizi severi all’orecchio. L’altro, che finora avevo usato poco, poteva essere il Genitore Affettivo Positivo, capace di dare cure, protezione e amore. Allo stesso modo convivevano due “bambini interiori”: il Bambino Adattato, timoroso di deludere, e il Bambino Ribelle, arrabbiato e ferito. Riconoscere queste parti mi ha permesso di prendere le redini con la mia parte Adulta, quella più consapevole e presente nel qui e ora. In termini semplici, ho capito che potevo scegliere di non lasciare il pilota automatico inserito sui modelli appresi nell’infanzia.

Trasformare il genitore critico in genitore affettivo

Una volta acquisita questa consapevolezza, è iniziato un lavoro quotidiano (ancora in corso) per trasformare il mio modo di relazionarmi con i figli – e in generale con gli altri. Ho deliberatamente iniziato a coltivare il mio Genitore Affettivo: quella parte di me capace di incoraggiare, sostenere e mostrare affetto. All’inizio non è stato facile, perché significava andare contro abitudini emotive radicate. Tuttavia, con pazienza e tanta empatia, ho iniziato a fare cose nuove: ascoltare di più senza giudizio, esprimere apprezzamento per i loro sforzi, dire esplicitamente “ti voglio bene” e “sono fiero di te”, e abbracciarli spesso, senza un motivo speciale. Mi sono accorto che questi gesti, semplici ma costanti, stavano cambiando non solo il clima familiare, ma anche qualcosa dentro di me.

Ogni volta che sceglievo la gentilezza al posto della critica, sentivo come se guarissi una piccola parte del mio bambino interiore. Era come dare a me stesso quelle carezze positive che avevo sempre cercato. Vedere nei loro occhi la felicità e la sicurezza quando li incoraggiavo, mi restituiva un senso di pace: stavo offrendo ai miei figli l’affetto che a me era mancato, e così facendo lenivo anche le mie antiche ferite. Invece di perpetuare il ciclo del dolore, avevo avviato un ciclo di guarigione.

Naturalmente ci sono ancora momenti in cui il “genitore critico” dentro di me tenta di riprendere il sopravvento – magari in situazioni di stress o stanchezza. Ma ora lo riconosco quasi subito: mi accorgo quando quella voce severa sale alla gola, pronta a rimproverare. Allora faccio un respiro profondo, mi ricordo di quel bambino insicuro che ero, e scelgo consapevolmente di cambiare tono. Magari trasformo la critica in una richiesta gentile, o mi sforzo di vedere il lato positivo e dirlo ad alta voce. Ogni volta che riesco in questo, sento di crescere come padre e come essere umano.

Un percorso anche spirituale di guarigione interiore

Questo processo di trasformazione non è solo psicologico: ha anche una dimensione spirituale profonda. Imparare ad amare in modo più incondizionato i miei figli e me stesso è, in fondo, un cammino spirituale. Significa praticare la compassione, il perdono e la presenza nel momento presente. Ho dovuto in parte perdonare mio padre per la sua severità – comprendendo che probabilmente anche lui era figlio di un’educazione rigida e non conosceva altro modo per educare. Ho dovuto perdonare anche me stesso per gli errori commessi come genitore. Questo atto di perdono e comprensione ha alleggerito il mio cuore, permettendomi di andare oltre il ruolo di “vittima” delle mie circostanze infantili.

Inoltre, vedere le relazioni familiari come specchio per l’anima mi ha insegnato che ogni conflitto o difficoltà relazionale è in realtà un’opportunità. Un’opportunità per guarire qualcosa dentro di noi e per evolverci. Dal punto di vista spirituale, credo che ognuno di noi abbia “lezioni” da imparare dalle proprie relazioni: imparare l’amore, la pazienza, l’empatia, l’autoaffermazione equilibrata. Quando ci rendiamo conto che reagiamo in modo eccessivo a una critica, possiamo domandarci: quale ferita dentro di me sta sanguinando? cosa mi sta insegnando questa situazione? Queste domande sono tipiche di un approccio sia psicologico che spirituale alla crescita personale.

Conclusione: dalle ferite alla crescita

Osservare il modo in cui ci comportiamo con le persone a noi care richiede coraggio, perché significa guardarsi allo specchio con sincerità. Possiamo scoprire aspetti di noi poco lusinghieri – magari che siamo diventati controllanti, o troppo accondiscendenti, o che abbiamo paura del confronto. Ma proprio in quella scoperta risiede il seme del cambiamento. La consapevolezza è la chiave: una volta che vediamo il nostro schema (per esempio, “mi arrabbio perché mi sento giudicato come quando ero piccolo”), possiamo iniziare a scegliere consapevolmente risposte diverse.

Questo percorso di comprensione delle proprie dinamiche interne e di trasformazione dei propri comportamenti è al centro del mio cammino di formazione come counselor. Attraverso lo studio dell’Analisi Transazionale e la pratica quotidiana della auto-osservazione, sto imparando a integrare psicologia e spiritualità nella vita di tutti i giorni. Ogni giorno è un allenamento alla presenza mentale (lo stato dell’Io Adulto consapevole) e al cuore aperto (il Genitore Affettivo che dona amore). I benefici si riflettono nelle mie relazioni: i conflitti si riducono, la fiducia reciproca aumenta e in casa si respira più serenità.

Infine, il messaggio che desidero condividere è questo: non siamo condannati a ripetere ciò che abbiamo subito. Possiamo rompere i vecchi schemi che ci causano sofferenza. Le nostre ferite dell’infanzia, per quanto dolorose, non devono determinare per sempre il nostro modo di amare o educare. Al contrario, una volta riconosciute, possono diventare la porta d’accesso a una profonda guarigione. Le relazioni intime – con i partner, i figli, gli amici – ci forniscono il campo di prova perfetto per crescere. Osservandoci con onestà e tenerezza, possiamo trasformare il piombo delle nostre ferite nel oro della consapevolezza e dell’amore. Questo, a mio avviso, è un percorso sia psicologico sia spirituale: un viaggio verso la versione più autentica e amorevole di noi stessi.

Antonio e Luisa

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La strategia vincente di Ester

Dal libro di Ester (4,15-17) […] Ester fece rispondere a Mardocheo: «Va’, raduna tutti i Giudei che si trovano a Susa: digiunate per me, state senza mangiare e senza bere per tre giorni, notte e giorno; anch’io con le ancelle digiunerò nello stesso modo; dopo entrerò dal re, sebbene ciò sia contro la legge e, se dovrò perire, perirò!». Mardocheo se ne andò e fece quanto Ester gli aveva ordinato.[…] (5,1-3) Il terzo giorno, quando ebbe finito di pregare, ella si tolse le vesti da schiava e si coprì di tutto il fasto del suo grado. Divenuta così splendente di bellezza, dopo aver invocato il Dio che veglia su tutti e li salva, prese con sé due ancelle. […] Appariva rosea nello splendore della sua bellezza e il suo viso era gioioso, come pervaso d’amore, ma il suo cuore era stretto dalla paura. Attraversate una dopo l’altra tutte le porte, si trovò alla presenza del re. […] La regina si sentì svenire, mutò il suo colore in pallore e poggiò la testa sull’ancella che l’accompagnava. Ma Dio volse a dolcezza lo spirito del re ed egli, fattosi ansioso, balzò dal trono, la prese fra le braccia, sostenendola finché non si fu ripresa, e andava confortandola con parole rasserenanti […] Alzato lo scettro d’oro, lo posò sul collo di lei, la baciò e le disse: “Parlami!”. Gli disse: “Ti ho visto, signore, come un angelo di Dio e il mio cuore si è agitato davanti alla tua gloria. Perché tu sei meraviglioso, signore, e il tuo volto è pieno d’incanto”. Ma mentre parlava, cadde svenuta; il re s’impressionò e tutta la gente del suo seguito cercava di rianimarla. Allora il re le disse: “Che vuoi, Ester, qual è la tua richiesta? Fosse pure metà del mio regno, l’avrai!”.

Per inquadrare bene il discorso dobbiamo prima contestualizzare per sommi capi la storia ivi raccontata: il re Assuero ripudia la sua regina, allora per cercare una sostituta emette un editto mandando a prendere tante fanculle vergini e belle da portare nella reggia, tra di loro c’è anche la giudea Ester, la quale (cap2,17 ) trovò grazia e favore agli occhi di lui più di tutte le altre vergini. Egli le pose in testa la corona regale e la fece regina al posto di Vasti. Poi il re emette un editto di sterminio del popolo giudeo (non sapendo che Ester fosse giudea), il quale verrà salvato dall’intervento della regina del quale sopra abbiamo riportato la strategia.

Come si può notare, la regina è piena di fede e conoscendo il re, prepara con grande tattica le sue mosse per salvare il popolo giudeo. I più smaliziati potranno leggere una sorte di manipolazione del re da parte di Ester, giocando le proprie carte della passione, dell’eros, certamente c’è anche questa componente, ma è l’ultimo anello della catena.

La prima cosa che fa Ester è ben altro: […] raduna tutti i Giudei che si trovano a Susa: digiunate per me, state senza mangiare e senza bere per tre giorni, notte e giorno; anch’io con le ancelle digiunerò nello stesso modo. Solo dopo questi tre giorni gioca la carta della bellezza e del fascino femminile, e dopo un’ulteriore preghiera di invocazione usa la carte del desiderio e dell’attesa aiutandosi con due banchetti: praticamente lo prende per la gola. Solo alla fine tirerà fuori l’asso (dalla manica) dell’eros, ma non l’eros decaduto col peccato, bensì l’eros originario, il desiderio di unione purificato, infatti non va dal re mezza nuda, anzi, probabilmente avrà lasciato scoperto solo il viso, forse solo gli occhi, le mani e i piedi.

Il primo insegnamento vale per tutti, sposi e non: prima di mettere in atto tutte le strategie che ci vengono in mente, prima ancora di scendere in campo con le nostre mosse, c’è una mossa segreta che è la più importante, come una sorta di pre-mossa, ed è quella di rimettere le nostre intenzioni nelle mani di Dio, quella di purificare il nostro cuore dalle cattive intenzioni, Ester ci insegna la strada del digiuno, della mortificazione.

Il successo dell’impresa Ester l’ha costruito da molto prima di incontrare il re, la vittoria la si deve alla sua pre-mossa, questa è stata la sua vera strategia vincente.

Il secondo insegnamento è per le spose, soprattutto per quelle che lamentano un marito troppo chiuso dentro le sue barricate, un marito un po’ freddo e distaccato, poco incline a gesti affettuosi, un marito un po’ rude: se provate a rileggere bene la storia di questi capitoli del libro di Ester vi accorgerete che il re Assiro corrisponde alla descrizione di questi mariti, con l’aggiunta di qualche aggravante, ma per Ester non rappresenta un problema insormontabile perché affida il successo della sua impresa al Signore…questa è la strategia vincente.

Care spose, credete forse che il Signore non possa ripetere per voi ciò che ha compiuto per Ester ? Ecco cosa ha compiuto : Ma Dio volse a dolcezza lo spirito del re. Pensate forse che Dio non sia più così onnipotente come ha dimostrato più volte nelle storie raccontate nell’Antico Testamento? Il Signore vi ha reso Suo sacramento per i vostri sposi, sta a voi diventare efficaci. Coraggio!

Giorgio e Valentina.

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Chi è colei che sale dal deserto, appoggiata al suo diletto?

Iniziamo con questo capitolo l’ultima parte del Cantico dei Cantici. La parte forse più bella e la parte più forte che rscchiude tutta la potenza dell’amore. Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. La riflessione come sempre è tratta dal nostro libro Sposi sacerdoti dell’amore (Tau Editrice).

Il coro: Chi è colei che sale dal deserto, appoggiata al suo diletto?

L’Epilogo del Cantico dei Cantici è come l’ultima nota di una sinfonia: racchiude tutto il cammino percorso, ma lo apre anche a un orizzonte nuovo. Quelle parole — Chi è colei che sale dal deserto, appoggiata al suo diletto? — non descrivono solo un momento poetico, ma la sintesi di un’intera storia d’amore che, passando per il deserto, è diventata più vera, più umana e più divina.

Questo non è il racconto di Salomone e della Sulamita, ma la storia di ogni coppia che ha attraversato la prova e ha scelto di restare insieme. È la storia di Antonio e Luisa, ma anche quella di chi, leggendo queste righe, sente di essere ancora in cammino, con le mani strette a quelle del proprio sposo o della propria sposa.

Il deserto e la salita

Il deserto, nella Scrittura, è un simbolo ambivalente. È il luogo della solitudine e della fatica, ma anche quello dell’incontro e della rivelazione. Israele ha conosciuto Dio nel deserto; Gesù vi è stato condotto dallo Spirito per affrontare le tentazioni; e ogni amore autentico, prima o poi, deve passare di lì. Quando il Cantico dice che la sposa “sale dal deserto”, ci parla di un amore che ha conosciuto la prova e non è fuggito. È un amore purificato, che non cerca più soltanto l’emozione o la fusione, ma la comunione profonda che nasce dalla fedeltà.

Salire dal deserto significa camminare verso Gerusalemme, la città di Dio. Non a caso Gerusalemme è posta in alto, circondata da paesaggi aridi. L’immagine è potente: gli sposi camminano insieme verso la pienezza, verso la vita, verso Dio. Non sono più soli. Lei si appoggia a lui, ma anche lui si appoggia a lei. Entrambi escono dalla solitudine per diventare un “noi” che cresce nella prova. Il deserto rappresenta le fatiche quotidiane, le delusioni, le incomprensioni, le stagioni in cui non si sente più la passione dei primi tempi. Ma chi attraversa il deserto insieme scopre che l’amore non è fatto per essere perfetto: è fatto per essere fedele.

Appoggiarsi: il verbo dell’amore maturo

“Appoggiarsi” è un verbo semplice, ma racchiude un intero mondo relazionale. Appoggiarsi significa riconoscere di avere bisogno dell’altro, lasciarsi sostenere, accettare di non bastare a sé stessi. È la vittoria sull’orgoglio, il passaggio dall’amore romantico all’amore reale. La Bibbia ci ricorda: Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda. (Gen 2,18)

L’aiuto non è un accessorio, ma una parte di sé. Quando ci appoggiamo al coniuge, riconosciamo che l’altro non è il nostro nemico, ma il nostro alleato. È colui o colei che ci permette di scoprire il volto di Dio dentro la nostra umanità. In questa immagine della sposa che risale dal deserto, sostenuta dallo sposo, si riflette il cammino di ogni matrimonio cristiano: un’alleanza dove la fragilità diventa forza, dove l’amore non elimina la fatica, ma la trasforma in un luogo di incontro.

Il deserto che entra in casa

Non serve andare lontano per trovarsi nel deserto. A volte entra nel cuore di casa, silenzioso, quando ci si sente svuotati, incompresi, quando la routine spegne la tenerezza e il dialogo si riduce a poche parole pratiche. Ci si ama ancora, ma non si sa più come dirlo. Anch’io ho conosciuto quel deserto. Prima del matrimonio e anche dopo. Ci sono momenti in cui ti senti mancare la forza, in cui ogni gesto quotidiano sembra pesare. A volte la famiglia appare più come un peso che come una gioia. È umano. Nessuno è immune da queste stagioni.

Ricordo un periodo particolarmente difficile: avevamo già Pietro e Tommaso, piccoli e pieni di vita. Io mi sentivo oppresso, inadeguato, prigioniero della responsabilità. Mi rifugiavo nel lavoro, nelle uscite, in tutto ciò che mi permettesse di fuggire dal disagio. A casa ero distante, freddo. Eppure, Luisa non ha smesso di starmi accanto. Non ha reagito con durezza, anche se ne avrebbe avuto motivo. Ha scelto di essere presenza silenziosa e forte, di farmi sentire che potevo ancora appoggiarmi a lei, anche se non lo meritavo.

Il caffè nel deserto

Un gesto, piccolo e semplice, ha cambiato tutto. Avevamo litigato, come capita a tante coppie. Me ne ero andato in camera, pieno di orgoglio e amarezza. Dopo qualche minuto, Luisa entrò. In mano aveva un caffè, e mentre lo teneva, continuava a girare il cucchiaino. Non disse nulla. Me lo porse, con dolcezza, e se ne andò.

Quel caffè è stato per me un sacramento dell’amore. In quel momento ho sentito tutta la forza di un amore che non chiede spiegazioni, che non misura chi ha ragione o torto, ma che sceglie di amare e basta. È stato come se Dio mi avesse parlato attraverso il gesto della mia sposa. Ho capito che l’amore vero non è fatto di parole grandi, ma di gesti piccoli e costanti. È fatto di caffè portati nel silenzio, di mani che si riaprono dopo una lite, di uno sguardo che perdona.

Come scrive San Paolo: L’amore tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. (1Cor 13,7)

Quel gesto mi ha fatto crollare l’orgoglio. Ho sentito che, in quel momento, era lei la più forte. Mi ha insegnato che chi ama per primo non è debole: è il più libero. È stato il punto di svolta del mio deserto.

Uscire insieme dal deserto

Da allora ho capito che il matrimonio non è un traguardo, ma un cammino. Un continuo risalire dal deserto, un continuo appoggiarsi l’uno all’altro, un continuo lasciarsi guidare verso Gerusalemme, la città dell’incontro con Dio. L’amore cristiano è questo: due fragilità che diventano una forza, due libertà che imparano a camminare insieme. Non si tratta di non cadere mai, ma di rialzarsi sempre insieme.

Quando uno dei due vacilla, l’altro diventa bastone e sostegno. Quando entrambi sono stanchi, è Dio che li rialza. Meglio essere in due che uno solo, perché se cadono, l’uno rialza l’altro. (Qo 4,9-10)

Ecco allora la grande immagine finale del Cantico: una coppia che sale dal deserto, appoggiata. Non perfetta, ma perseverante. Non trionfante, ma fedele. Perché ogni coppia che sceglie di restare, di perdonare, di ricominciare, sta già salendo verso Gerusalemme, la città dove Dio abita tra gli uomini.

Antonio e Luisa

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La preghiera in coppia sempre vittoriosa

Cari sposi, anche questa domenica la liturgia ha un sapore alquanto “polemico”. Ci vengono offerti due scenari di lotta, il primo quello di una vera e propria battaglia, il secondo un litigio processuale. Perché la Chiesa li mette in parallelo? Cosa vuole trasmetterci?

Anzitutto andiamo al primo scenario: la guerra tra gli Amaleciti e il popolo di Israele. Quest’ultimo ha appena vissuto l’ennesimo miracolo, ha assistito infatti ad un fatto che ha dell’incredibile. Nel bel mezzo di una zona arida e secca, Dio fa sgorgare acqua dalla roccia, cioè da un oggetto che è costitutivamente privo di liquido. Poco dopo il popolo riprende la marcia verso la Terra Promessa ma si scontra con gli abitanti del posto, la gente di Amalek, abili e ostici guerrieri del deserto. Mosè, ormai anziano, se ne resta sulla sommità del colle e prega il Signore perché conceda la vittoria e il popolo eletto possa continuare il suo viaggio.

Il secondo scenario è un fatto molto comune all’epoca. Ai tempi di Gesù, infatti, le vedove erano spesso vulnerabili e povere, senza una rete di sicurezza sociale e con una posizione sociale precaria, il che era garantito invece dal marito. Si comprende bene allora la caparbietà di questa donna nel giocarsi il tutto per tutto, non avendo oramai nulla da perdere.

Cosa accomuna le due scene? Anzitutto che la preghiera è una lotta. Lo afferma chiaramente il Catechismo: “La preghiera è un dono della grazia e una risposta decisa da parte nostra. Presuppone sempre uno sforzo. I grandi oranti dell’Antica Alleanza prima di Cristo, come anche la Madre di Dio e i santi con lui, ci insegnano che la preghiera è una lotta. Contro chi combattiamo? Contro noi stessi e contro le astuzie del Tentatore che fa di tutto per distogliere l’uomo dalla preghiera, dall’unione con Dio” (n. 2725).

Quante volte ci facciamo vincere dalla difficoltà di perseverare! Vorremmo vedere subito esauditi i nostri desideri ma la Tradizione della Chiesa è molto saggia su questo punto. Uno dei massimi esponenti dei Padri del Deserto, Evagrio Pontico diceva: “La preghiera è lotta fino all’ultimo respiro” (De Oratione, n. 52).

Una lotta che non possiamo vincere da soli, abbiamo bisogno dei fratelli e sorelle che ci sostengano. Che bello vedere addirittura un Papa che si china umilmente verso la Chiesa intera, all’inizio del suo pontificato, e chiede umilmente preghiere! Si potrebbero scrivere trattati sulle testimonianze dell’efficacia della preghiera di intercessione a favore di chi ne ha più bisogno! E che meraviglia sapere che ci sono tante persone che stanno pregando per me in questo momento, che mi portano all’altare ogni giorno. In questo senso è una benedizione contare su sacerdoti, consacrate, religiosi che spendono la vita per questo servizio.

Perciò ci ricordava Papa Francesco: “La preghiera è la medicina della fede, il ricostituente dell’anima. Bisogna, però, che sia una preghiera costante. Se dobbiamo seguire una cura per stare meglio, è importante osservarla bene, assumere i farmaci nei modi e nei tempi dovuti, con costanza e regolarità. In tutto nella vita c’è bisogno di questo. Pensiamo a una pianta che teniamo in casa: dobbiamo nutrirla con costanza ogni giorno, non possiamo inzupparla e poi lasciarla senz’acqua per settimane! A maggior ragione per la preghiera: non si può vivere solo di momenti forti o di incontri intensi ogni tanto per poi “entrare in letargo”. La nostra fede si seccherà. C’è bisogno dell’acqua quotidiana della preghiera, c’è bisogno di un tempo dedicato a Dio, in modo che Lui possa entrare nel nostro tempo, nella nostra storia; di momenti costanti in cui gli apriamo il cuore, così che Egli possa riversare in noi ogni giorno amore, pace, gioia, forza, speranza; nutrire, cioè, la nostra fede” (Angelus, 16 ottobre 2022).

Ed ecco allora che si comprende bene quanto si adatta tutto ciò alla vostra vita sponsale. Ricordatevi che siete una chiesa domestica! La Chiesa, come sposa di Cristo, vive della preghiera costante al Suo Signore ed anche voi sposi siete chiamati a questo.

Vorrei fare due semplici sottolineature al riguardo. A volte la preghiera solo di uno sarà fondamentalmente per vari motivi (scarsa educazione ad essa, problematiche varie…). Ma non per questo è meno potente ed efficace, come diceva Adrienne von Speyr (1902-1967), una mistica, moglie e fedele discepola di Hans Urs Von Balthasar: “Il coniuge è affidato alla preghiera dell’altro; è un atto di custodia spirituale” (Servizio e contemplazione). Assai lodevole, quindi, e a volte eroica la preghiera “in solitario” di un coniuge in attesa di poter camminare assieme su questa strada. Ma comunque resta un gesto sempre fecondo, secondo i parametri del Signore.

E poi la preghiera sponsale non va tarata sullo stile monacale o religioso, né come tempistica né come modalità. Chi si prefiggesse questo stile, potrebbe sperimentare grandi frustrazioni e delusioni visto il carattere laico della vita di coppia. La Chiesa, nella sua saggezza, consiglia sempre che gli sposi si diano regole minime di preghiera, momenti brevi ma frequenti (mattina o sera), che puntino soprattutto a scambiarsi le risonanze della Parola, le ispirazioni dello Spirito Santo.

Questa è la base per costruire pian piano uno stile di vita matrimoniale in cui la preghiera di coppia diventa molto di più del semplice pregare simultaneamente. Significa scambiarsi l’anima, condividere al coniuge quello che il Signore mi dona, anche nelle piccole cose. Tale scambio diviene così un potentissimo strumento che genera e rigenera continuamente il “noi” e rafforza l’unità sponsale, l’essere una sola carne, l’identità sacramentale. Cari sposi, vi invito ad essere tenaci e costanti nella preghiera, come i personaggi che la Parola ci presenta oggi, certi che da essa uscirete sempre vittoriosi nelle sfide che la vita vi offre.

ANTONIO E LUISA

Non aggiungiamo nulla alle parole di don Luca. Vi proponiamo un esercizio. La sera, quando la casa tace e tutto si calma, provate a ritrovarvi insieme, marito e moglie, nella penombra della vostra stanza. Non come due singoli, ma come due cuori in uno alla presenza del Terzo, il Signore. Abbracciatevi e fate spazio a un momento di preghiera condivisa. Potete iniziare con un segno di croce e un respiro profondo, per lasciare fuori le preoccupazioni della giornata. Poi, uno alla volta, ringraziate Dio per qualcosa di concreto vissuto quel giorno: una parola gentile, un gesto di tenerezza, un perdono ricevuto o donato. Affidategli anche le fatiche e le paure, soprattutto quelle che riguardano la vostra coppia o i vostri figli. Infine, in silenzio o a voce bassa, beneditevi reciprocamente: uno sull’altro, tracciate un piccolo segno di croce sulla fronte, chiedendo che il Signore custodisca il vostro amore. Una modalità che coinvolge anche il corpo e che può essere un’occasione per convincere quei coniugi che digeriscono meno la preghiera.

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Lottatori d’amore

I matrimoni, perlopiù, si sfaldano per incompatibilità. Così riferiscono le riviste di benessere, i sociologi, gli sposi stessi. Ma perché allora altre coppie restano insieme?

Sappiamo che nessun matrimonio è veramente compatibile. E proprio in questa caratteristica risiede la sfida che parte quando si pronuncia il sì della grande promessa. Si è, perfettamente o imperfettamente, consapevoli dell’impossibilità umana di farcela e del grande ostacolo, denominato “incompatibilità”, con cui bisognerà lottare. Eppure, sappiamo anche che non costituirà un limite alla felicità.

Esistono infatti matrimoni vivi, felici e incompatibili. Semplicemente si tratta di sposi, lottatori d’amore. Di quelli che hanno accettato di scendere in campo, di andare in battaglia, per farcela insieme. Non deponendo le armi nei giorni duri e andandosene. Piuttosto restando e scoprendo, costruendo, architettando congegni sempre nuovi per vincere insieme.

Ho conosciuto molti matrimoni felici ma mai uno compatibile – è una frase emblematica di Chesterton, in cui risiede una grande verità: un uomo e una donna sono incompatibili per natura, per psiche, per fisicità. E questo non è un limite, piuttosto un ampliamento di vedute, un arricchimento di osservazioni sulla vita, un bagaglio raddoppiato di possibilità per farcela nello stare al mondo, nella complessità caotica in cui siamo immersi, e imboccare la via della felicità.

Specchiarsi nell’altro e non riconoscersi infatti è un bene. Permette di scoprirsi limitati ma anche osservati con amore (nei nostri limiti), nelle circoscrizioni caratteriali, nelle barriere spirituali; ebbene quello sguardo d’amore e di incoraggiamento potrà farci ricordare come potremo essere un giorno, vicino o lontano; come potremo diventare se permettiamo alle benedizioni quotidiane di levigarci e darci forma.

Di fronte alla crisi è certamente più semplice mettere un punto e andare via. E non credo sia scandaloso pensarlo. Ma poi bisogna far memoria di ciò che è stato nel bello; dei motivi che ci hanno spinto a scegliere l’altro e delle sfide superate insieme. In quella forza interiorizzata si nasconde il mistero di poter riuscire a vivere, lottando per due.

Nelle pieghe di un matrimonio che arranca ma che poi risorge c’è il segreto mai svelato dei cosiddetti “lottatori d’amore” che neppure sanno come sono riusciti a vivere a lungo mano nella mano, che non custodiscono ricette per affrontare periodi bui, che non si ricordano neppure come si sono comportati in una o in un’altra occasione; sanno solo che hanno faticato e hanno vinto. E che accanto alla loro incompatibilità ha camminato la decisione ferma di andare avanti insieme, come un tutt’uno. Un incompatibile tutt’uno.

E forse è proprio questa la grazia del matrimonio cristiano: non essere due perfetti incastri, ma due persone che imparano, giorno dopo giorno, a lasciarsi modellare dall’amore di Dio. La compatibilità, infatti, non è un punto di partenza ma un traguardo che si costruisce nel tempo, attraverso pazienza, perdono, ascolto, e una costante conversione reciproca.

Quando una coppia si scopre incompatibile, non deve disperare: è il segnale che l’amore sta chiedendo di crescere, di maturare, di diventare più grande del semplice “piacersi” o “andare d’accordo”. È lì che l’amore umano incontra la Grazia, quella forza silenziosa che trasforma l’impossibile in fecondità.

Essere lottatori d’amore non significa vivere in conflitto, ma scegliere ogni giorno di restare fedeli alla promessa fatta, anche quando non si sente più la stessa emozione di ieri. È credere che Dio può trarre armonia dal disordine, luce dalle ferite, unità dalle differenze.

Chi resta e continua a lottare scopre che l’incompatibilità non è una condanna, ma una vocazione: quella a diventare dono, a uscire da sé per fare spazio all’altro, fino a sentirsi — pur diversi, pur imperfetti — un tutt’uno benedetto, fragile e fortissimo. Un incompatibile tutt’uno, sì, ma amato da Dio e capace di amare ancora.

Livia Carandente

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La relazione ha bisogno di cura continua

Nessuno si salva da solo. Abbiamo partecipato al percorso proposto da Retrouvaille in un momento profondamente buio della nostra relazione matrimoniale. Dopo il percorso abbiamo avuto chiaramente necessità di continuare a prenderci cura della relazione, perché il nostro matrimonio non era miracolosamente guarito. Un po’ ci è mancata la terra sotto i piedi quando il sipario si è chiuso con l’ultimo incontro e ci siamo guardati intorno attoniti e ci siamo detti: e ora dove andiamo?

Non siamo andati, ma siamo stati. Siamo stati dentro la cura della nostra relazione mettendo a frutto gli insegnamenti appresi incontrando le altre coppie ferite, ci siamo cercati in un dialogo quotidiano che avesse cura di noi stessi, aperto sui sentimenti, misto a timori, gioie e speranze. Un dialogo che ha perso nel tempo la disciplina della quotidianità, ma che ha mantenuto il mandato originale di essere sollievo per le nostre ferite.

Ma questo dialogo inizialmente circoscritto a noi due non bastava e non avevamo (per scelta) una cerchia di amici o familiari dove poterci aprire e condividere i passi in cammino; avevamo bisogno di relazioni per curare la nostra relazione. Cercavamo un luogo dove stare insieme, dove creare una comunità anche di amici che parlano la stessa lingua, dove è possibile stare accanto nel momento del bisogno e della gioia!

Non cercavamo la quantità di incontri, ma uscire dalla logica dei numeri per incontrare i volti, gli sguardi e le storie e dare un nome alle persone che intorno a noi condividevano le ferite e la cura della propria relazione. È stato provvidenziale il Co.Re (Continuare Retrouvaille), un luogo che sta dando valore alla cura della nostra relazione e ci aiuta a continuare su una strada che ha una destinazione precisa: ritrovarsi!

Dentro il Co.Re abbiamo visto un cuore grande in tutti coloro che hanno fatto un pezzo di strada insieme, coloro che abbiamo incrociato, salutato, abbracciato, a volte anche per poco, ma che non abbiamo dimenticato. E in ognuno dei nostri compagni di cammino abbiamo visto un cuore grande, a volte sofferente e che ha cercato con perdurante anelito di speranza una carezza guaritrice.

Quello che abbiamo visto è in realtà ciò che abbiamo vissuto noi e quando ci è stato chiesto di prenderci cura del Co.Re ci siamo sentiti entusiasti come due bambini che ricevono un grande dono! Prendersi cura della relazione è stato per noi curare un luogo dell’incontro, dove essere noi stessi, liberi di esprimere i nostri sentimenti, le nostre fatiche, le nostre gioie e rinascite.

Prendersi cura della relazione è stato per noi curare un luogo del sostegno, dell’incoraggiamento a proseguire il nostro matrimonio, alla scoperta sempre più della bellezza e unicità della nostra unione.

Prendersi cura della relazione è stato per noi curare un luogo della consapevolezza di un Mistero più grande di noi.

Prendersi cura della relazione è stato per noi curare un luogo dell’entusiasmo, della nascita di nuove amicizie che nel tempo si consolidano.

Prendersi cura della relazione è stato per noi curare un luogo della riconoscenza dei tanti doni ricevuti e che siamo chiamati a restituire, affinché producano nuovi frutti. Prendersi cura della relazione è stato per noi curare un luogo dove ci aiutiamo a prenderci cura continuamente della nostra relazione, non lasciando indietro nessuno, perché nessuno si salva da solo.

V. & L. (Retrouvaille Italia)

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Chi si ricorda di Dawson’s Creek?

Può, una star della televisione, insegnarci qualcosa di vero e di profondo? Da uno degli ambienti più mondani per antonomasia potrà mai venire una lezione non scontata ma davvero importante? Per cercare di rispondere a queste domande dobbiamo andare indietro nel tempo e fare un viaggio di parecchi kilometri …

C’era una volta un piccolo paese del Massachusetts, Capeside, dove un gruppo di adolescenti condivideva sogni, paure, amori e delusioni. Era il 1998 quando Dawson’s Creek approdava sugli schermi americani (e poco dopo anche su quelli italiani), rivoluzionando il modo di raccontare l’adolescenza in TV. Una serie che, per molti, è stata la colonna sonora emotiva dell’adolescenza.

A prima vista poteva sembrare uno dei tanti teen drama dell’epoca, ma Dawson’s Creek aveva qualcosa di diverso. I personaggi – Dawson, Joey, Pacey, Jen – parlavano con un vocabolario adulto, riflettevano su concetti filosofici, si interrogavano sulla vita, sull’amore e sull’identità in modo sorprendentemente maturo.

Le loro conversazioni potevano sembrare fin troppo articolate per degli adolescenti ma proprio per questo colpivano il pubblico: erano ragazzi che parlavano come avremmo voluto parlare noi, che sentivano come noi, ma con una profondità quasi letteraria. James Van Der Beek (Dawson), Katie Holmes (Joey), Joshua Jackson (Pacey) e Michelle Williams (Jen) sono diventati, per qualche stagione, i volti familiari di milioni di spettatori. Alcuni hanno continuato una carriera di successo (basti pensare ai ruoli drammatici di Michelle Williams, oggi attrice pluripremiata), mentre altri si sono lentamente allontanati dalla ribalta, ma tutti sono rimasti impressi nell’immaginario collettivo.

Poco tempo fa il protagonista della serie – James Van Der Beek – è tornato alla ribalta delle cronache. Non per un nuovo ruolo o per un aver vinto un ambito premio ma per una malattia devastante che l’ha colpito. Ma non abbattuto. E, soprattutto, non bloccato nell’amore per la moglie. Anzi. James ha più volte espresso pubblicamente il suo immenso affetto e gratitudine nei confronti della moglie, Kimberly Brook. In diverse circostanze ha condiviso parole toccanti, esprimendo quanto apprezzi il suo amore, il sostegno e la comprensione nei periodi complicati, evidenziando che la sua vita sarebbe inconcepibile senza di lei.

Per celebrare il loro anniversario di matrimonio, ha rivolto un intenso e toccante messaggio alla moglie Kimberly, che gli è stata accanto con forza e dedizione durante la sua lotta contro il cancro. Ha pubblicato su Instagram queste parole: “15 anni fa questa donna ha scelto di essere la mia sposa. Un giorno racconterò quello che hai sopportato in questi ultimi due anni. Non solo mi hai salvato la vita, ma mi hai mostrato cosa vuol dire vivere. Non potrei farcela senza di te. Ti amo.”

Quando anche il dolore salva! Quando anche una malattia può portare qualcosa di buono! Quando il buio non avvolge con le sue tenebre ma dona spazzi di luce! Che bello un amore così … certo, ognuno di noi spera sempre che certe prove non bussino alla porta ma, si sa, la vita non è solo “vissero felici e contenti”. Le difficoltà, le salite, gli imprevisti fanno parte dell’esistenza. Sta a noi come viverli.

Sta a noi scegliere se subirli passivamente e farci travolgere, o addirittura distruggere, oppure trasformarli in eventi in grado di migliorarci e di unirci con il coniuge. Questo è amore vero. Che non ha paura di sporcarsi le mani nel fango della malattia. Che non teme di vivere giorni “no”. Che non li lascia demolire, pezzo per pezzo, dalle cose che non vanno. Ma che sa ricostruirsi, reinventarsi, trasformarsi, rafforzarsi, realizzarsi. Che rende vere le parole: “Con la grazia di Cristo prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”. Con la grazia di Cristo, appunto. Non da soli.

Perché a parole sono capaci tutti. Ma sono i fatti a fare di un amore qualsiasi l’amore della vita. E tutti quelli che, almeno una volta, guardando Dawson’s Creek hanno sperato che l’amore potesse davvero superare ogni ostacolo – con un bacio sul molo al tramonto – possono stare tranquilli che questo è avvenuto. Ma fuori dal set. Nella vita vera. Che ci aspetta ogni volta che spegniamo la TV e guardiamo negli occhi nostro marito o nostra moglie.

Fabrizia Perrachon

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Sono separato. E se mi faccio frate?

Quando una persona di fede si separa, può venire questo pensiero: Visto che non intendo avere nuove relazioni e che devo vivere in astinenza dai rapporti, tanto vale che diventi frate o suora. Effettivamente anche io mi sono ritrovato, qualche volta, quando ancora non sapevo quasi niente del Sacramento del matrimonio, a ragionare così.

A prima vista può sembrare un gesto di grande fede — “lascio tutto per Dio” — ma nasconde un rischio profondo: dimenticare che il matrimonio è una consacrazione, che nasce dal sacramento del battesimo e che, come ogni vocazione cristiana, è per sempre; padre Luca Frontali – autore anche lui su questo blog – ha scritto proprio la sua tesi con questo titolo, “Matrimonio è consacrazione”.

Quando due sposi si uniscono davanti a Dio, non fanno solo una promessa reciproca, ma ricevono un sacramento, una consacrazione derivata dal battesimo, che è il livello massimo della nostra chiamata a partecipare alla vita divina. Con il battesimo si diventa figli di Dio e aggiungere qualcosa vorrebbe dire mettersi sullo stesso piano di Dio: pertanto matrimonio e sacerdozio non sono sopra il battesimo, specificano soltanto la Grazia battesimale, permettendo così a ognuno di seguire la propria vocazione al servizio degli altri.

Il matrimonio non è un “patto umano” con la benedizione di Dio: con quel patto Dio stesso entra nell’unione degli sposi e la rende segno visibile del Suo amore per l’umanità. Il “sì” detto davanti all’altare non è una formula romantica, è una risposta a una vocazione: Dio chiama, e noi rispondiamo con tutto ciò che siamo, sostenuti dalla grazia battesimale.

Se è vero che ogni vocazione è dono e mistero, è anche vero che non si cambia vocazione come si cambia abito. Se un sacerdote smette di esercitare il suo ministero, non smette di essere sacerdote; se una suora lascia il convento, la sua consacrazione resta impressa nella sua storia.

Allo stesso modo, uno sposo o una sposa cristiani che vivono una separazione non smettono di essere marito o moglie davanti a Dio, può finire la convivenza, può interrompersi la comunicazione, può arrivare la solitudine… ma la vocazione rimane, perché è radicata nel battesimo, che ci ha resi figli e collaboratori di Dio nella storia della salvezza.

Alcuni mi hanno detto: Ma se la mia vita è distrutta, se l’altro non mi ama più, non potrei servire Dio in un altro modo?. Certo che puoi servirlo! Ma non devi cambiare vocazione per farlo! Puoi servire Dio proprio lì dove ti trovi, nella tua ferita, nella tua fedeltà silenziosa, nella tua offerta nascosta. È lì che la tua consacrazione diventa feconda, è lì che puoi testimoniare al mondo che l’amore di Dio è per sempre, anche quando l’uomo fallisce.

Conosco tante persone separate che vivono la loro vocazione matrimoniale in modo particolare: pregano per il coniuge che le ha lasciate, continuano a educare i figli nella fede, offrono la loro solitudine come preghiera; non sono “mezzi consacrati”: sono sposi a pieno titolo, sposi crocifissi, ma fedeli. Non lo fanno per masochismo, ma perché hanno capito che l’amore non si misura sul successo o sul riconoscimento, ma sulla capacità di restare nella verità.

Il matrimonio cristiano non è una vocazione “di serie B” rispetto alla vita consacrata. È un sacramento che racchiude la stessa radicalità, lo stesso dono totale di sé, anzi, può essere anche più difficile, perché si è chiamati ad amare un essere umano concreto, con limiti, difetti, incoerenze e a farlo per sempre.

Ecco perché non ha senso, dopo una separazione, pensare di “salire di livello” entrando in un convento o in un ordine religioso: non si passa da una vocazione a un’altra per riparare un dolore o riempire un vuoto, a maggior ragione se sono nati dei figli che hanno bisogno di un padre e una madre che li educhino concretamente e che siano presenti nella loro vita.

Se il matrimonio è una consacrazione, allora anche la separazione può diventare un altare: il luogo dove si offre la propria vita come sacrificio d’amore nella consapevolezza che Dio ci chiama a santità nella vita concreta, non in fuga da essa.

Ettore Leandri (Presidente Fraternità Sposi per Sempre)

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Gli sposi: moderni muratori!

Dal «Commento su Aggeo» di san Cirillo d’Alessandria, vescovo ​(Cap. 14; PG 71, 1047-1050) Al tempo della venuta del nostro Salvatore apparve un tempio divino senza alcun confronto più glorioso, più splendido ed eccellente di quello antico. […] Ma dopo che l’Unigenito si fece simile a noi, pur essendo «Dio e Signore, nostra luce» (Sal 117, 27), come dice la Scrittura, il mondo intero si è riempito di sacri edifici e di innumerevoli adoratori che onorano il Dio dell’universo con sacrifici e incensi spirituali. […] A quanti lavorano con impegno e fatica alla sua edificazione, sarà dato dal Salvatore come dono e regalo celeste Cristo, che è la pace di tutti. […] Anche il saggio Isaia pregava in termini simili: «Signore, ci concederai la pace, poiché tu dai successo a tutte le nostre imprese» (Is 26, 12). A quanti sono stati resi degni una volta della pace di Cristo è facile salvare l’anima loro e indirizzare la volontà a compiere bene quanto richiede la virtù. Perciò a chiunque concorre alla costruzione del nuovo tempio promette la pace. […]

Abbiamo riportato alcune frasi di un lungo commento sul profeta Aggeo da parte del vescovo san Cirillo d’Alessandria, perché ci è parso di focalizzare la nostra attenzione su alcuni particolari circa gli edificatori della Chiesa.

La svolta del discorso la si vede, a parer nostro, quando il vescovo sottolinea che dopo che l’Unigenito si fece simile a noi,[…] il mondo intero si è riempito di sacri edifici e di innumerevoli adoratori che onorano il Dio dell’universo con sacrifici e incensi spirituali. Ma cosa intende dire con “sacri edifici” ed “innumerevoli adoratori“?

Si riferisce certamente al nuovo popolo che Cristo ha creato mediante la Sua Redenzione, cioè quella comunità che chiamiamo Chiesa, in particolar modo ci riferiamo alla porzione di Chiesa che ancora vive in questa vita, la cosiddetta Chiesa militante (o peregrina). Ogni battezzato è tempio dello Spirito Santo, ogni battezzato è cioè quel sacro edificio entro cui la Trinità vuole prendere dimora fissa, è una Grazia che ci viene elargita appunto col Battesimo.

Ma spesso siamo dei pessimi padroni di casa, non di rado mettiamo il Signore in affitto nella sua stessa casa (cioè noi stessi), sovente poi lo mettiamo alla porta pronti per cacciarlo via, addirittura c’è chi gli ha dato lo sfratto o un contratto a tempo determinato con la clausola dei 3 mesi di affitto in anticipo ed un periodo di prova.

Così come questa inabitazione vale per ogni battezzato così c’è un particolare stato di vita che è chiamato (vocazione) a far vedere lo stile di questa inabitazione d’amore: il matrimonio. Esso può diventare l’edificio in cui abita Cristo, e tutto ciò grazie al Sacramento del Matrimonio. Cari sposi, noi siamo quella casa abitata dall’amore di Cristo, noi siamo stati abilitati ad amare con la Sua misura, ma non passivamente.

San Cirillo ci spiega infatti che A quanti lavorano con impegno e fatica alla sua edificazione, sarà dato dal Salvatore come dono e regalo celeste Cristo, che è la pace di tutti. Tutte noi coppie aspiriamo alla pace dentro la nostra relazione, non la pace che ci dà il mondo, ma la pace vera che ci dà lo stesso Cristo che abita nella nostra unione. Ma per avere in dono questa pace è indispensabile il nostro impegno e fatica.

Impegno a migliorare noi stessi sulla via della santità per aiutare nella santità il nostro coniuge, impegno a lavorare ogni giorno per rendere la nostra unione una casa accogliente per il Signore. Ci vuole inoltre anche fatica, la fatica di combattere quotidianamente contro le nostre debolezze, i nostri limiti, la fatica di rinunciare al proprio io per far crescere il noi della coppia. Noi sposi siamo i moderni muratori che edificano la Chiesa odierna.

Coraggio sposi, vale la pena di impegnarsi e faticare perchè la promessa della pace di Cristo non è all’acqua di rose, quando una coppia vive in pace non teme gli ostacoli, ma li affronta con coraggio e fiducia perchè sa si essere inabitata dall’amore di Cristo.

Giorgio e Valentina.

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“Sorella mia, sposa” – l’amicizia che fonda l’amore

Prima di proseguire con l’ultima parte del Cantico dei Cantici, vale la pena fermarsi su una parola che ricorre più volte: sorella. Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. La riflessione come sempre è tratta dal nostro libro Sposi sacerdoti dell’amore (Tau Editrice). L’amato chiama così la sua sposa: “Sorella mia, sposa”. Non è un modo di dire poetico, ma una rivelazione. In quelle parole è custodito un segreto profondo sull’amore umano, che vale per ogni coppia, per ogni matrimonio.

L’amato non chiama la sposa “mia donna”, “mia amante”, “mia compagna”, ma “sorella”. È un linguaggio che ci disarma e ci eleva insieme. Significa che l’amore coniugale non può ridursi all’attrazione o all’innamoramento, ma si fonda su qualcosa di più profondo: un legame di amicizia. Un’amicizia che non nasce solo dalla simpatia o dalla condivisione, ma da una comunione interiore che coinvolge l’anima.

Papa Francesco, nell’Amoris Laetitia, scrive che “dopo l’amore che ci unisce a Dio, l’amore coniugale è la più grande amicizia”. Un’amicizia che racchiude tutto ciò che rende belle le relazioni: la ricerca del bene dell’altro, la reciprocità, l’intimità, la tenerezza, la stabilità. Eppure, nel matrimonio, a tutto questo si aggiunge qualcosa di unico: l’indissolubilità. Non si tratta di una prigione, ma di un progetto comune, stabile, che dà alla vita una direzione. “Essi non sono più due, ma una carne sola” (Mt 19,6).

L’amore di amicizia

Gesù stesso ci ha insegnato che l’amore più grande è quello di amicizia: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. […] Vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,13-15). Essere amici, allora, non è una condizione iniziale del matrimonio, ma un cammino. È un continuo conoscersi e scegliersi, ogni giorno, nel bene e nelle difficoltà. In un rapporto autentico, non serve mascherarsi o mostrarsi sempre forti: ci si può permettere di essere fragili, veri, sinceri.

Dal punto di vista umano e psicologico, l’amicizia coniugale nasce quando entrambi gli sposi si sentono accolti, non giudicati, liberi di mostrarsi. Ogni volta che la comunicazione diventa sincera, il cuore si apre e si costruisce fiducia. Ogni volta che uno dei due si sente ascoltato e non corretto, amato e non analizzato, l’amore cresce di radice.

La confidenza che costruisce la fiducia

È importante che il coniuge sia la prima persona a cui confidiamo le nostre paure, i nostri pensieri, le nostre gioie. Quando iniziamo a confidare emozioni o segreti ad altri, e non al nostro sposo o alla nostra sposa, si accende un piccolo campanello d’allarme: forse qualcosa si è incrinato nella fiducia.

Un consiglio agli uomini: quando vostra moglie vi racconta le sue giornate, i suoi pensieri, anche ripetendosi, non spazientitevi. Quel bisogno di raccontarsi è un segno di amore. Significa che vi considera il suo rifugio, il luogo più sicuro. Non cerca soluzioni, cerca ascolto. E l’ascolto, nel matrimonio, è la prima forma di tenerezza.

Il matrimonio, in fondo, è il luogo dove possiamo mostrarci per ciò che siamo, senza paura. È lo spazio dove le nostre ferite vengono accolte e non scartate. Dove siamo amati non per quello che facciamo, ma per quello che siamo. È lì che l’amore diventa una scuola di umanità.

Eros, agape e filìa

L’amore sponsale cristiano non è solo sentimento o passione. È un intreccio di tre amori:

  • Eros, la forza del desiderio che ci spinge verso l’altro;
  • Agape, la gratuità del dono che sa rinunciare a sé;
  • Filìa, l’amicizia che dà stabilità e dolcezza.

Quando queste tre dimensioni si uniscono, l’amore diventa pieno, maturo, fecondo. Ma mantenerle in equilibrio non è facile. Richiede vigilanza, preghiera e, soprattutto, Grazia.

L’amore come sfida e vocazione

L’amore sponsale cristiano è una sfida, perché chiede tutto. Ti chiede di donarti senza riserve, di perdonare, di ricominciare, di credere che l’altro valga sempre la pena. Ma è anche un’esperienza di cielo. Ogni volta che due sposi scelgono di amarsi nonostante tutto, lì passa Dio. È come se in quel momento si aprisse una finestra sull’eternità.

Gesù, parlando del matrimonio, non lo definisce mai un compromesso umano, ma un mistero divino: “Quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi” (Mt 19,6). Quando i discepoli ascoltano queste parole, reagiscono con realismo: “Se questa è la condizione dell’uomo rispetto alla donna, non conviene sposarsi”. E Gesù risponde: “Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è stato concesso” (Mt 19,10-11).

Ecco il punto: il matrimonio non si vive senza Grazia. Senza il dono del Sacramento, rischiamo di arrenderci alla cultura del “provvisorio”, quella che preferisce l’emozione all’impegno, il piacere alla fedeltà, l’io al noi.

Un amore che somiglia a Dio

Dio ha creato l’uomo e la donna “a sua immagine” (Gen 1,27). Non solo per generare vita, ma per rivelare qualcosa del Suo amore. Ogni volta che due sposi si scelgono, si perdonano, si abbracciano dopo una fatica, mostrano al mondo un frammento del volto di Dio. È in quel “sorella mia, sposa” che risplende il sogno originario del Creatore: un amore fatto di amicizia, di libertà e di dono reciproco.

Il matrimonio, vissuto nella fede, diventa così un santuario. Un luogo dove Dio abita, parla, educa. E dove due persone imparano, passo dopo passo, ad amarsi come Lui ci ha amati: non per bisogno, ma per scelta.

Antonio e Luisa

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Beati gli sposi riconoscenti

Cari sposi, oggi vorrei iniziare subito riportando il commento di Papa Benedetto al brano evangelico che la Chiesa ci offre:

Il Vangelo di questa domenica presenta Gesù che guarisce dieci lebbrosi, dei quali solo uno, samaritano e dunque straniero, torna a ringraziarlo (cfr. Lc 17, 11-19). A lui il Signore dice: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!” (Lc 17, 19). Questa pagina evangelica ci invita ad una duplice riflessione. Innanzitutto, fa pensare a due gradi di guarigione: uno, più superficiale, riguarda il corpo; l’altro, più profondo, tocca l’intimo della persona, quello che la Bibbia chiama il “cuore”, e da lì si irradia a tutta l’esistenza. La guarigione completa e radicale è la “salvezza”. Lo stesso linguaggio comune, distinguendo tra “salute” e “salvezza”, ci aiuta a capire che la salvezza è ben più della salute: è infatti una vita nuova, piena, definitiva. Inoltre, qui Gesù, come in altre circostanze, pronuncia l’espressione: “La tua fede ti ha salvato”. È la fede che salva l’uomo, ristabilendolo nella sua relazione profonda con Dio, con sé stesso e con gli altri, e la fede si esprime nella riconoscenza. Chi, come il samaritano sanato, sa ringraziare, dimostra di non considerare tutto come dovuto, ma come un dono che, anche quando giunge attraverso gli uomini o la natura, proviene ultimamente da Dio. La fede comporta allora l’aprirsi dell’uomo alla grazia del Signore; riconoscere che tutto è dono, tutto è grazia. Quale tesoro è nascosto in una piccola parola: “grazie”! (Angelus, 14 ottobre 2007).

Desidero prendere spunto da questo discorso del Papa perché contiene le coordinate principali che ci fanno cogliere la ricchezza della Parola del Signore oggi. Anzitutto, a prima vista, la Chiesa ci presenta un intreccio di due personaggi: Naaman il Siro e un anonimo lebbroso samaritano.

Partiamo dal fatto che sono due persone nemiche di Israele, il primo per essere un pagano e militare di carriera, al servizio della politica di violenta espansione del suo re Ben-Adad (860-841 a.C.); il secondo, lo sappiamo bene, appartiene a un popolo che ha voltato le spalle al Regno di Giuda e a Gerusalemme e farsi una fede tutta sua, imitando malamente la religione ebraica autentica. Ragioni sufficienti per essere condannati ed esclusi, e invece accade proprio il contrario.

Appunto per essere lontani, hanno un approccio distinto con la Grazia che viene loro offerta, ora da Eliseo ora dallo stesso Gesù in persona. Cioè, non sono succubi del “si è sempre fatto così” e delle routine mortali di chi ha sempre avuto queste cose sotto gli occhi, ma obbediscono al dono che ricevono. Per cui la prima grande lezione è l’obbedienza al Signore, anche nelle cose che ci capitano, nella realtà quotidiana. Diceva S. Francesco di Sales: “Nulla avviene se non per la volontà di Dio, o per il suo permesso; e nulla avviene che Egli non possa far concorrere al nostro bene” (Filotea, III, cap. 10). Spesso è proprio la fissazione sulle nostre attese che ci impedisce di entrare nei percorsi di guarigione che Dio ci offre; invece, entrambi, fidandosi, accolgono un bene che cambia in meglio la loro vita.

In secondo luogo, tale abbandono e fiducia obbediente genera la gratitudine, la gioia di essere stati graziati, colmato di un bene. Non è affatto un caso che a essere grati siano due che hanno fatto l’esperienza della malattia, cioè esattamente la mancanza di quel dono e di quel bene. Invece, chi ce l’ha, non può avere lo stesso atteggiamento, ma rischia seriamente di vivere nella monotonia della scontatezza.

Infine, vi è qui il tema della gratitudine. Una virtù largamente praticata da Gesù che sovente ringraziava il Padre per tutto quello che Gli concedeva, al punto che il gesto dell’amore più grande, quello con cui dona la vita per gli amici, è divenuto il Ringraziamento per eccellenza, ossia tradotto in greco, l’Eucarestia.

Ora a questo punto ci trova davanti a una sorta di “bivio”: si può essere guariti e non cambiare nel profondo del cuore oppure la guarigione può diventare preludio di salvezza; sta solo a noi, alla nostra libertà, scegliere quale strada prendere. Difatti, quella guarigione vuole essere, nella mente di Dio, l’inizio della conversione, ce lo confermano i tanti miracoli che Gesù ha compiuto, i quali erano il preambolo per mostrare la grandezza della Grazia, la capacità di trasformare il cuore dell’uomo e redimerlo.

E così, la gratitudine ci consente di dare quel passo in più e di ottenere non solo una guarigione, come del resto qualsiasi bene concreto e materiale, ma soprattutto la salvezza, che è la pienezza del bene, sia materiale che spirituale. San Tommaso D’Aquino, nella Summa, scrive: “Chi è grato per un beneficio ricevuto, prepara sé stesso a riceverne un altro” (Summa Theologiae, II-II, q.106., a.3, ad 3), e quindi una grazia tira l’altra, fino ad arrivare a quella con la G maiuscola: la salvezza, il dono della fede, la grazia di una relazione viva con Lui, caparra della Beatitudine eterna.

Quindi, come cristiani siamo chiamati ad essere grati, sempre. Il mondo, il mainstream ci vuole rendere avidi, bulimici e annoiati per cercare qualcos’altro e in fin dei conti, sentire il bisogno di comprarlo. Invece la gratitudine è sobria e sa accontentarsi del dono ricevuto.

Come si traduce tale Parola nella vostra vita di sposi? Anzitutto voi sposi siete chiamati, in forza del sacramento nuziale, a un’obbedienza reciproca. Lo esprime bene S. Paolo (Ef 5, 21) quando dice che la prima obbedienza è al coniuge. Ma in quale senso lo dice? Ce lo spiega bene San Giovanni Paolo II: “L’amore esclude ogni genere di sottomissione, per cui la moglie diverrebbe serva o schiava del marito, oggetto di sottomissione unilaterale. L’amore fa sì che contemporaneamente anche il marito è sottomesso alla moglie, e sottomesso in questo al Signore stesso, così come la moglie al marito. La comunità o unità che essi debbono costituire a motivo del matrimonio, si realizza attraverso una reciproca donazione, che è anche una sottomissione vicendevole” (Udienza 11 agosto 1982). 

Cioè per voi sposi il tramite ordinario con cui vi parla il Signore, dopo evidentemente la propria coscienza, è il coniuge, ed è su questo punto che siete invitati ad approfondire la vostra relazione, perché diventi fonte di grazia.

In secondo luogo, la gratitudine. Già ci ricordava Papa Francesco le famose 3 parole speciali per gli sposi “scusa, permesso e grazie” (cfr. Udienza del 13 maggio 2015). La gratitudine sponsale si situa nel riconoscere il proprio amore e la propria relazione come un dono di Dio. Quanti di voi avete costruito con sudore e sangue un matrimonio solido, ma sapete bene che è Cristo il grande protagonista e a Lui va riconosciuto sempre il merito. La gratitudine vi aiuta così a restare sempre in relazione con lo Sposo e a vedervi sempre un dono reciproco.

Ed infine, la guarigione e la salvezza. Quanto appena detto è il preludio per sanare tante ferite. Solo quando si vede in Cristo la fonte della grazia e si portano a Lui le ferite e le sofferenze, Egli può compiere la sua azione guaritrice, come diceva S. Agostino: “Avvicinatevi a lui e sarete illuminati; avvicinatevi al medico e sarete guariti” (Enarrationes in Psalmos 85,5). Che azione sanante compie Cristo su di voi? Lo dice ancora Giovanni Paolo II: “Egli rivela la verità originaria del matrimonio, la verità del «principio» (cfr. Gen 2,24; Mt 19,5) e, liberando l’uomo dalla durezza del cuore, lo rende capace di realizzarla interamente”.

Cari sposi, più permettete a Gesù Sposo di agire nella vostra relazione, più Lo ascoltate, ringraziate, benedite e più Lui vi renderà saldi e uniti nel Suo Amore.

ANTONIO E LUISA

“Sottomessi vicendevolmente” è una delle espressioni più belle del Vangelo, ma anche una delle più difficili da vivere. Non sempre entrambi riescono a farlo nello stesso modo o con la stessa forza: spesso uno dei due prende l’iniziativa, sembra il più “debole”, ma in realtà è il più forte, perché ama per primo. Io ringrazio Dio ogni giorno per avermi donato una sposa così: la sua sottomissione libera, dolce e piena d’amore mi ha insegnato cosa significa donarsi davvero, mettendo l’altro e la famiglia al primo posto. E mi ha dato la motivazione e il desiderio di donarmi a mia volta, totalmente.

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Pellegrini di Speranza. Il diario di viaggio

Siamo arrivati alla quarta tappa del nostro pellegrinaggio, un cammino che stiamo percorrendo insieme attraverso queste riflessioni. Ogni pellegrino porta con sé un diario, e anche noi non possiamo farne a meno: un pellegrinaggio senza memoria si perde. Noi, però, siamo pellegrini di speranza — e proprio per questo il nostro diario non serve solo a ricordare il passato, ma a custodire ciò che nasce dentro il cuore mentre camminiamo. Cosa significa, davvero, essere pellegrini di speranza? Lo scopriremo nella riflessione di oggi. Se non hai letto i precedenti clicca qui.

Ogni pellegrino porta con sé un taccuino, un quaderno nello zaino dove annotare le memorie del cuore affinché ciò che ha vissuto non scivoli via come sabbia tra le dita, ma resti, si trasformi, prenda voce.

Scrivere è un atto di custodia, un gesto d’amore verso la propria vita. È come dire alla vita: Non voglio dimenticare ciò che mi stai donando, ciò che mi stai insegnando.” In un mondo che corre veloce e consuma tutto in fretta, scrivere diventa una forma di resistenza: scegliere di fermarsi, di ascoltare, di dare un nome alle emozioni, agli incontri, alle cadute e alle rinascite.

Ogni parola fissata sulla pagina diventa un’ancora che ti impedisce di smarrire il senso di ciò che hai attraversato, ricordandoti la direzione verso la destinazione che sei chiamato a raggiungere.

Ogni volto e ogni incontro descritto si trasforma in un compagno di viaggio che continua a parlarti, anche a distanza di tempo. C’è una sorta di mistero nella scrittura: quando metti su carta ciò che vivi, permetti allo Spirito di agire, di dare forma a ciò che prima era solo intuizione o dolore confuso. Le parole diventano preghiera, le domande si aprono a nuove risposte, e anche il silenzio tra una riga e l’altra diventa un luogo abitato da Dio. Ogni domanda lasciata sospesa sul foglio continua a lavorare dentro di te, come un seme che cresce in segreto, preparando un frutto che un giorno riconoscerai.

Scrivere un diario è un modo per parlare con Dio senza filtri, senza bisogno di apparire forti o perfetti. È uno spazio di verità, dove puoi dire tutto: le paure che non sai nominare, la gratitudine che trabocca, le attese, le delusioni e i piccoli miracoli quotidiani. È come aprire il cuore in un dialogo intimo con il Signore, in cui ogni parola diventa un atto di affidamento. Nel diario impari a consegnarti alla Sua volontà, anche quando non capisci tutto, anche quando il cammino è in salita.

Rileggere il proprio diario, dopo settimane o anni, è come tornare su un sentiero già percorso: riconosci le curve, ritrovi gli odori, rivedi i paesaggi interiori che ti hanno formato. Ti accorgi di come sei cambiato, di come una ferita si è cicatrizzata, di come un desiderio si è purificato e trasformato in scelta. Scopri che non sei più lo stesso: che l’uomo o la donna che scriveva quelle righe non esiste più, ma da quelle righe è nato qualcuno di nuovo.

Il diario diventa così specchio della tua crescita, un luogo dove la fede prende corpo nella vita concreta. Ogni pagina custodisce la traccia di una preghiera, di un’intuizione, di una lotta interiore. È come un mosaico di frammenti che, messi insieme, raccontano una storia abitata da Dio. Anche le pagine più buie, quelle scritte tra le lacrime, si rivelano con il tempo come luoghi di passaggio, dove la grazia ha trovato spazio per entrare.

Il diario diventa la prova silenziosa che la tua vita non è un caso, ma una storia accompagnata. È la memoria viva che ti restituisce la consapevolezza che nulla è andato perduto: ogni incontro, ogni silenzio, ogni domanda, ogni “sì” e ogni “non ancora” hanno lasciato un’impronta nel cammino.

Se aprissi oggi il tuo diario interiore, quali parole troveresti? Quali silenzi, volti e domande abitano ancora il tuo cuore? Forse scopriresti che Dio non ha mai smesso di scrivere insieme a te, riga dopo riga, la storia della tua vita — una storia che, se guardata con gli occhi della fede, è sempre un pellegrinaggio d’amore verso di Lui.

Se ti va scrivimi su : fralucabruno@gmail.com

Fra Luca Bruno

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Sperando amo. Dove tutto ebbe inizio

Siamo ad un passo dalla prima festa di San Carlo Acutis e non potevo non ritornare alla scrittura su questo blog senza partire dalle origini. L’inizio di questa avventura, nata quasi per caso, ha preso forma proprio anni fa, sostando in silenzio davanti al corpo di San Carlo Acutis ad Assisi. In quella cappella, immersa nella luce e nel profumo d’incenso, tutto è iniziato: una preghiera semplice, un desiderio di rinascita, una scintilla di fede che non si è più spenta.

Carlo è stato per me la direzione da prendere per tornare a sperare. Non una speranza vaga o illusoria, ma una Speranza concreta, viva, incarnata nella quotidianità. Uscire dal limbo del dolore di non essere madre è stata una vera e propria rinascita, un passaggio dal buio alla luce, dal vuoto alla pienezza. La Speranza, come la Fede, è un dono che va chiesto, invocato, custodito. Non nasce dall’orgoglio o dalla forza personale, ma dalla fiducia: quella fiducia che nasce quando smetti di chiederti “perché?” e inizi a dire “eccomi”.

La Speranza ti aiuta a vedere ciò che non riesci più a scorgere quando il cuore è ferito. Ti apre gli occhi sulle piccole cose che danno senso ai giorni: un caffè con un’amica, una parola gentile, un abbraccio improvviso, una pacca sulla spalla, uno sguardo che ti comprende anche senza parole. Ti accorgi che anche nei gesti più semplici abita Dio. C’è Dio nel profumo che riporta alla memoria un giorno felice, nelle risate che scoppiano all’improvviso, nei giochi al biliardino con gli amici, nelle canzoni attorno a un falò estivo. C’è Dio nelle pizzate improvvisate, nei sogni raccontati a mezza voce, nei momenti in cui la vita sembra farti un dono senza motivo.

La Speranza è come l’estate: è quel calore che senti addosso anche quando fuori piove, è la luce che non ti lascia, è la carezza di Dio nei giorni più faticosi. È la gioia contagiosa dell’accoglienza, la pace che nasce dall’amore gratuito. È amare senza misura, amare fino alla fine, amare anche quando non ricevi nulla in cambio. È continuare ad amare quando tutto sembra perduto, quando la notte si fa lunga e il silenzio pesa. È allora che la Speranza si trasforma in una preghiera che sale dal cuore e dice: “So che Tu ci sei”.

E poi c’è la luna. Sorella luna, compagna delle notti insonni, delle veglie silenziose, delle preghiere sussurrate. La luna che veglia, che illumina anche il buio più profondo, che ricorda che dietro ogni oscurità si nasconde una luce che non si spegne. Le notti in cui non vuoi dormire per ammirarla diventano notti di adorazione, di attesa dell’aurora. E quando arriva l’alba, tutto cambia: il primo chiarore del giorno diventa una lode spontanea al Signore, un grazie per la vita, per le persone amate, per le meraviglie del creato che ogni giorno si rinnovano davanti ai nostri occhi.

Siamo quasi all’ultima tappa di questo Giubileo, un tempo che ci ha educati alla Speranza. Un anno che ci ha insegnato a perdonarci, a lasciare andare ciò che non riusciamo a sopportare di noi stessi o degli altri. Ci ha insegnato ad alzare lo sguardo da terra e a riconoscere chi cammina accanto a noi, spesso in silenzio, portando croci che non vediamo. Ci ha ricordato che non possiamo vivere da soli, che la vita cristiana è un cammino condiviso, fatto di soste, di attese e di mani che si tendono.

Questo tempo di grazia ci ha insegnato a fermarci, a guardare indietro non per rimpiangere ma per accorgersi di chi è rimasto indietro e tendere una mano. Ci ha insegnato a tessere relazioni vere, autentiche, a non avere paura di amare anche quando costa. Ci ha insegnato che l’amore è l’unica via che conduce alla Speranza e che ogni passo, se fatto nella fiducia, diventa già un frammento di eternità.

Perché amare, in fondo, è credere che la luce tornerà. Sempre.

Simona Arcidiacono

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15 ottobre: una data tra Cielo e terra

Ogni anno, il 15 ottobre illumina il mondo con una luce dolce e silenziosa. A parte essere la memoria liturgica della grande Santa Teresa d’Avila, non è una giornata festiva né chissà quale ricorrenza mondana, ma per milioni di famiglie in tutto il pianeta rappresenta un momento profondamente significativo: è la Giornata mondiale sulla consapevolezza del lutto prenatale e perinatale, dedicata a ricordare quei bambini che, per motivi diversi, non sono arrivati tra le braccia dei loro genitori o ci sono rimasti solo per poco tempo.

È una giornata sospesa tra Cielo e terra, come sospesa è la vita che non ha avuto il tempo di compiersi ma che ha lasciato un segno incancellabile nei cuori di chi l’ha amata dal primo istante.

Il lutto perinatale – che comprende la perdita di un figlio durante la gravidanza, al momento del parto o poco dopo la nascita – è una delle esperienze più traumatiche che una famiglia possa vivere. Eppure, è anche uno dei dolori più silenziosi, spesso ignorati o sottovalutati dalla società. Chi lo vive si trova spesso immerso in un silenzio che può sembrare assordante.

Le parole mancano, le frasi di circostanza feriscono più di quanto aiutino e la mancanza di riconoscimento del dolore può trasformare il lutto in un’agonia solitaria.

La Giornata mondiale del lutto prenatale e perinatale nasce con l’obiettivo di dare voce a chi non può parlare, di riconoscere l’esistenza di quei bambini non nati o vissuti solo per pochi istanti, e di sostenere i genitori e le famiglie che li portano per sempre nel cuore.

In tutto il mondo, il 15 ottobre si celebrano cerimonie, si accendono candele, si organizzano camminate della memoria, eventi simbolici e momenti di raccoglimento. Alle 19:00 (ora locale), si accende una candela generando un’onda di luce globale che percorre il pianeta per 24 ore: è il Wave of Light, l’Onda di Luce, il gesto collettivo che unisce milioni di cuori in un unico abbraccio.

Parlare di questi bambini non significa alimentare il dolore ma onorare la loro esistenza. Anche se non hanno camminato tra noi, hanno lasciato un’impronta profonda. Sono figli amati, desiderati, sognati. Il loro ricordo è intrecciato all’identità delle famiglie, che non possono né vogliono dimenticare.

La società spesso fatica a riconoscere questa forma di lutto. Si sente spesso dire: “Era solo un feto“, “Ne farete un altro“, “Meglio così, era troppo piccolo” e via dicendo. Queste frasi, anche se possono essere dette con buone intenzioni, non fanno che alimentare il senso di isolamento o di colpa. È per questo che il 15 ottobre ha anche lo scopo di sensibilizzare la collettività, promuovendo una cultura dell’ascolto, della comprensione e del rispetto.

Dietro ogni storia di lutto prenatale o perinatale c’è un intreccio di emozioni potentissime: amore, speranza, attesa, delusione, rabbia, tristezza. Ogni famiglia trova un proprio modo di affrontare il dolore: c’è chi scrive lettere, chi pianta un albero, chi conserva ecografie o vestitini mai usati. Altri trasformano il dolore in impegno sociale perchè questi genitori non sono “solo” sopravvissuti alla perdita: sono testimoni del valore di ogni vita, anche quella più breve.

E poi c’è chi, come me e mio marito, desidera ridonare agli altri la speranza cristiana e la forza della resurrezione ricevuti da Cristo: ecco perché abbiamo scritto libri, composto novene, realizzato cammini online di preghiera gratuiti, partecipato come relatori alla Scuola Nuziale di Mistero Grande e Intercomunione delle famiglie, donato la nostra testimonianza in tutta Italia!

Ed ecco anche perché ci definiamo genitori tra Cielo e terra: il compimento della promessa di Dio è in quella vita che non è mai persa completamente perché vive nell’amore vero, eterno e prefetto di un Padre che l’ha voluta e amata per prima. Ed per questo che, la vita di quel figlio Lassù, va anche da noi – sempre di più e sempre più consapevolmente – amata, rispettata, onorata.

La Giornata del 15 ottobre, insomma, ci invita a riflettere anche su quanto ancora ci sia da fare in termini di assistenza spirituale e psicologica, formazione degli operatori sanitari, accompagnamento delle famiglie. Troppo spesso, chi affronta una perdita simile si sente abbandonato, incompreso, perfino colpevolizzato. Serve un cambiamento culturale profondo: serve chiamare le cose con il loro nome, dare dignità a ogni lutto, offrire spazi sicuri dove il dolore possa essere espresso senza vergogna o giudizio. Le istituzioni, il mondo sanitario, la scuola e l’intera comunità possono e devono fare di più.

Il 15 ottobre, dunque, non è tanto o solo una giornata di lutto quanto piuttosto di riconciliazione e speranza. È l’occasione per rafforzare il ponte tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che è stato e ciò che sarà sempre. Per molti genitori questo giorno rappresenta l’occasione per dire al proprio figlio o alla propria figlia: “Non ti abbiamo dimenticato. Vivi in noi, nel nostro amore, nel nostro ricordo. E, soprattutto, nel cuore di Dio“.  È una data in cui la terra si fa un po’ più leggera e il Cielo un po’ più vicino. Una data tra Cielo e terra, appunto.

Il 15 ottobre è una data delicata, preziosa, carica di silenzio ma anche di luce. È il giorno in cui ricordiamo chi ha vissuto solo nel battito di un cuore. È il giorno in cui diciamo che ogni vita, per quanto breve, ha un valore infinito. È il giorno in cui abbracciamo, anche solo idealmente, tutte le madri, i padri, i fratelli, i nonni che portano dentro di sé un amore che non ha avuto il tempo di compiersi in questo mondo ma che lo farà, insieme a noi, Quel giorno. E allora, davvero, sarà per sempre.

Fabrizia Perrachon

Ho scritto i primi due libri in Italia sull’aborto spontaneo dal punto di vista di una mamma cattolica; li trovi qui. Desideri offrirmi un caffè, un cappuccino o una spremuta? Clicca qui! Mi darai una mano fondamentale nel sostenere tutte le mie numerose attività di evangelizzazione e diffusione della speranza cristiana! Grazie davvero dal profondo del cuore. Fabrizia

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Rabbia nel matrimonio: un’emozione da ascoltare e da trasformare

Quando parliamo di matrimonio, spesso ci concentriamo sugli aspetti più luminosi: l’amore, la tenerezza, la gioia di vivere insieme. Tuttavia, c’è un lato meno raccontato, ma altrettanto reale e prezioso da affrontare: la rabbia. Non quella che distrugge, ma quella che, se accolta e compresa, può diventare occasione di crescita personale, di guarigione interiore e di rinnovamento della relazione.

La rabbia come emozione parassita

L’Analisi Transazionale (AT) ci insegna che la rabbia, in molti casi, non è un’emozione primaria, ma un’“emozione parassita”. Che cosa significa? Significa che essa spesso copre, come un velo, un sentimento più profondo e più fragile: la paura.

Quando reagiamo con esplosioni sproporzionate di collera di fronte a un piccolo gesto del coniuge o dei figli, raramente stiamo reagendo solo a quel gesto. Spesso la nostra reazione funziona come un elastico che ci riporta indietro a momenti della nostra infanzia: paure antiche, ferite mai guarite, vissuti di abbandono o di svalutazione. Così, la rabbia “parassita” prende il posto della paura originaria, perché esprimere rabbia sembra meno rischioso che mostrare la propria vulnerabilità.

Ma la conseguenza è che, invece di comunicare al coniuge il nostro bisogno di sicurezza e di accoglienza, lo colpiamo con parole dure o atteggiamenti aggressivi. È qui che inizia il lavoro di consapevolezza: riconoscere che quella rabbia non è il vero messaggio, ma un segnale che c’è sotto qualcosa di più delicato da portare alla luce.

Un aneddoto personale: la paura dietro la rabbia

Ricordo bene i primi anni di matrimonio. Non era raro che, in momenti di tensione, reagissi con scatti di rabbia sproporzionati: arrivavo persino a sbattere porte con forza o a gettare bicchieri a terra. A distanza di tempo, posso riconoscere quanto quelle reazioni non avessero quasi nulla a che fare con il motivo concreto della discussione.

Con il tempo — e soprattutto grazie alla pazienza e all’accoglienza di Luisa — ho capito che dietro a quei gesti violenti c’era una paura nascosta: la paura di non essere all’altezza del matrimonio, di non essere capace di dare tutto quello che serviva, di non essere adatto a sostenere le responsabilità di sposo e soprattutto di genitore. In fondo, c’era la paura più grande: quella di non essere amato se non fossi stato all’altezza delle aspettative.

Abbiamo imparato insieme a dare un nome a quella paura. E questo ha trasformato la rabbia da muro che divideva a porta che si apriva: da quel momento non era più solo un problema da contenere, ma un invito a guardarmi dentro e a lasciarmi guarire. Questo percorso ci ha fatto capire che anche le emozioni più scomode, se accolte e illuminate, possono diventare luoghi di incontro e di crescita.

Il matrimonio come palestra del cuore

Il matrimonio è proprio la relazione in cui questa dinamica emerge con più forza. Perché? Perché il matrimonio è una relazione totalizzante, in cui mettiamo in gioco tutto noi stessi: la nostra storia, i nostri desideri, le nostre paure, i nostri limiti.

Nessun’altra relazione ci mette così a nudo come quella coniugale. La convivenza quotidiana, l’intimità, la progettualità comune fanno emergere inevitabilmente anche i lati più fragili. Ed è normale che, in questo cammino, emerga la rabbia.

Anzi, potremmo dire che il matrimonio è il luogo dove la rabbia va “curata”, non repressa né sfogata in maniera distruttiva, ma trasformata. Quando marito e moglie si accorgono che un’esplosione di rabbia nasconde in realtà una paura — di non essere amati, di non contare, di essere rifiutati — allora possono aprire uno spazio di dialogo più profondo, che li aiuta a conoscersi meglio e ad amarsi con maggiore autenticità.

La cura della rabbia nella prospettiva sacramentale

Dal punto di vista spirituale, il matrimonio cristiano non è solo una relazione umana, ma un sacramento: un segno efficace della grazia di Dio. Questo significa che anche le emozioni difficili, come la rabbia, non vanno viste solo come un problema da eliminare, ma come occasioni che lo Spirito Santo può usare per purificare e rafforzare l’amore coniugale.

San Paolo scrive: «Adiratevi, ma non peccate: non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26). Non ci viene detto di non arrabbiarci mai — perché la rabbia è un’emozione naturale — ma ci viene chiesto di non permettere che la rabbia diventi peccato, rancore o distanza permanente. La fede ci invita a trasformare la rabbia in occasione di riconciliazione.

Il Sacramento del Matrimonio dona agli sposi una grazia particolare: quella di poter vivere il perdono reciproco come riflesso dell’amore stesso di Cristo. Ma non solo: il matrimonio è un sacramento di un amore indissolubile, che non finisce. Quando diciamo “sì” davanti a Dio, promettiamo un amore che non dipende dai meriti dell’altro. È un amore che dice: ti amerò sempre, non devi meritarti di essere amato.

Se questa promessa viene vissuta giorno dopo giorno, diventa un balsamo che scioglie la paura più grande: quella di non essere degni d’amore. E quando la paura si attenua, anche la rabbia perde forza. La consapevolezza che l’altro ci amerà sempre, anche nei nostri limiti, ci libera dall’ansia di dover dimostrare continuamente qualcosa. Così, il sacramento stesso diventa una scuola di fiducia e di accoglienza reciproca, che aiuta a guarire dalla paura e a trasformare la rabbia in amore.

Dalla rabbia alla responsabilità

Prendersi cura della rabbia significa allora assumersi una responsabilità personale. L’Analisi Transazionale ci aiuta a chiederci:

  • Quale copione infantile si è riattivato in me?
  • Quale paura sto coprendo con questa reazione esagerata?
  • Sto parlando da Adulto, o sto lasciando che il Bambino ferito prenda il controllo?

Queste domande non servono a colpevolizzarci, ma a riportarci nella libertà. Il matrimonio, infatti, è il contesto in cui impariamo non solo a “scaricare” le emozioni, ma a trasformarle in occasioni di amore più maturo.

Sul piano spirituale, questo significa trasformare la rabbia in preghiera: portare davanti a Dio la nostra fragilità, chiedere luce per riconoscere la paura che ci abita, domandare la forza di amare anche quando siamo feriti. La grazia del sacramento non cancella la rabbia, ma ci aiuta a custodirla, a non esserne schiavi, a trasformarla in un cammino di maggiore libertà e comunione.

In definitiva, la rabbia nel matrimonio non è un fallimento, ma un segnale prezioso. Essa ci indica che c’è una paura da riconoscere, un bisogno profondo che chiede ascolto. Se impariamo a leggerla così, con l’aiuto della psicologia e con la luce della fede, la rabbia diventa una maestra: ci conduce a un amore più consapevole, più umile, più maturo.

Il matrimonio, allora, non è un luogo senza conflitti, ma una scuola in cui, insieme, marito e moglie imparano a crescere come persone, come sposi e come genitori. E ogni volta che dalla rabbia si passa al perdono, dalla paura si passa alla fiducia, la coppia diventa un piccolo Vangelo vissuto in casa: segno concreto dell’amore di Cristo che trasforma la fragilità umana in grazia condivisa.

Antonio e Luisa

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Quale eredità per gli sposi?

O Donna gloriosa, alta sopra le stelle, tu nutri sul tuo seno il Dio che ti ha creato. La gioia che Eva ci tolse ci rendi nel tuo Figlio e dischiudi il cammino verso il regno dei cieli. Sei la via della pace, sei la porta regale: ti acclamino le genti redente dal tuo Figlio. A Dio Padre sia lode, al Figlio e al Santo Spirito, che ti hanno adornata di una veste di grazia. Amen.

Questo inno glorioso è tratto dall’Ufficio divino della festa odierna della Beata Vergine Maria del Rosario, istituita da Papa Pio V nel 1572 per ricordare la vittoria di Lepanto (7 ottobre 1571). In quella storica battaglia la flotta cristiana sconfisse i turchi musulmani, e il Papa attribuì il trionfo all’intercessione di Maria, alla quale aveva invitato tutto il popolo a rivolgersi con la preghiera del Rosario.

Questo giorno è l’occasione per ricordare diverse realtà della nostra fede: la forza della preghiera specie quella comunitaria, la potente intercessione di Maria, la speciale devozione del Santo Rosario, il ruolo del Papa che si fa intercessore presso il Padre della preghiera di tutta la Chiesa, la Chiesa amata sposa di Cristo, la Vergine Madre della Chiesa, e altre che si intrecciano a queste. Noi ci concentriamo sulla figura di Maria come Madre.

Solitamente quando muore una celebrità si ragiona su quale sia l’eredità che tale persona lascia al mondo intero, lo abbiamo visto nei giorni scorsi riguardo a S.Francesco d’Assisi, per il quale si sono sprecate parole, a proposito ma anche a sproposito, per elogiarne “i tratti distintivi e coglierne il messaggio per il nostro tempo”. Se facciamo questo per un santo a cui mostriamo la nostra gratitudine e la nostra venerazione, ma pur sempre una creatura, cosa mai potremmo fare per il Figlio di Dio? Qual è dunque l’eredità che Gesù ci ha lasciato?

Di solito sul letto di morte i santi lasciano qualche parola come eredità spirituale ai propri discepoli, e Gesù non è stato da meno, infatti sulla Croce ci ha lasciato, come eredità, addirittura una Madre.

Gesù ci ha lasciato Maria come Madre, e certamente aveva le Sue buone ragioni. La memoria della battaglia di Lepanto ci ricorda che Maria non resta indifferente alle nostre vicende: è una Madre attenta, che accompagna i suoi figli e insegna loro come affrontare le avversità con fede e coraggio.

Spesso le madri seguono a distanza i passi dei figli ormai adulti, con le lacrime agli occhi e il cuore ferito. Pur vedendoli sbagliare, rispettano le loro scelte, anche quando li allontanano dalla Verità o li conducono su strade di vita disordinata. Restano madri silenziose che soffrono nel profondo, e talvolta questa sofferenza si riflette persino sul loro corpo. Patendo in silenzio, attendono: attendono che i figli ricordino gli insegnamenti ricevuti, perché una madre non può sostituirsi al libero arbitrio dei propri figli, può solo amarli e sperare.

E cosa aspetta la Vergine Maria dagli sposi cristiani? Che si affidino a lei come figli, proprio con la fiducia totale dei bimbi piccoli che non si chiedono il perché la mamma domandi di fare questo o quello, ma lo fanno semplicemente perché l’ha detto mamma, per i bimbi è sufficiente sapere che il comando viene dalla mamma che li ama, il resto è un dettaglio.

Cari sposi, anche noi dobbiamo imitare il popolo del 1571, affidarci alla potente intercessione della Vergine Madre, senza chiederci il perché, ci basti sapere che il comando di averla per Madre ci viene dalle parole del Figlio di Dio pronunciate poco prima di spirare, quindi hanno un certo spessore, sono come la nostra eredità.

Coraggio allora, dimostriamo alla Madonna in questo Ottobre, mese dedicato per l’appunto alla Vergine Maria del Rosario, che vogliamo vivere da figli suoi… come? cominciamo con l’imitare il popolo di quell’Ottobre del 1571 che recitò molti rosari.

Giorgio e Valentina.

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L’amore che sa aspettare il tempo di Dio

L’amore che attende non è un amore spento o trattenuto. È l’amore che sa aspettare il tempo di Dio, che non brucia in fretta ma si lascia purificare e maturare. Il Cantico dei Cantici ci racconta questa attesa fatta di desiderio e di fiducia: l’amata arde d’amore, ma sceglie di custodire il suo desiderio finché diventa dono.Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. La riflessione come sempre è tratta dal nostro libro Sposi sacerdoti dell’amore (Tau Editrice).

Oh, se tu fossi un fratello per me, allattato al seno di mia madre! Incontrandoti per strada ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi…

L’ultimo canto del Cantico dei Cantici è forse uno dei più intensi di tutta la Scrittura. L’amata parla con un linguaggio pieno di passione, di desiderio, di attesa. Ma, dietro la poesia, c’è una verità profonda sull’amore umano e sul suo compimento.

Questi versi erano cantati nei matrimoni e parlano di una coppia di promessi sposi, non ancora uniti nella loro intimità. Erano ancora nel tempo dell’attesa, in quell’anno che separava la promessa nuziale dal matrimonio vero e proprio. Un tempo sospeso, fatto di sguardi, sogni, desiderio… e autocontrollo.

Nell’Israele antico, prima delle nozze, non erano permesse effusioni affettive. L’amata sa che non può ancora toccare, ma può desiderare. Brucia d’amore, ma sa che quell’amore deve essere custodito, perché ha un senso più grande.

Il desiderio che non brucia ma illumina

In queste parole della sposa risuona una tensione che tutti, in modi diversi, conosciamo: la tensione tra il desiderio e il tempo dell’attesa. È la stessa dinamica che attraversa ogni relazione umana: ciò che si desidera profondamente, per diventare fecondo, ha bisogno di tempo.

In psicologia diremmo che l’“Adulto” interiore custodisce l’impeto del “Bambino”, senza spegnerlo. Non lo reprime, ma lo orienta. Anche nella coppia credente, la maturità affettiva nasce quando si impara a trasformare l’impulso in promessa, l’istinto in dono.

L’amata desidera baciare il suo sposo per strada, senza vergogna, ma riconosce che non è ancora il momento. È la libertà di chi sa attendere per amore, non per paura. L’amore vero, infatti, non è mai pretesa: è fiducia nel tempo di Dio.

Maria, la donna dell’attesa e del rischio

In questa donna del Cantico possiamo scorgere un’immagine di quella che sarà Maria di Nazaret, la giovane promessa a Giuseppe. Anche lei vive un tempo sospeso, un “quasi matrimonio”. E proprio lì, in quel tempo incompiuto, Dio entra nella storia.

Quando Maria dice “sì” all’angelo, si espone a tutto: alla perdita dell’onore, al giudizio, persino alla condanna. In un contesto dove una gravidanza prima delle nozze era punita con la lapidazione, Maria offre tutta sé stessa alla volontà di Dio.

Il suo “fiat” è un atto di fede coraggiosa e affettiva: non un atto intellettuale, ma una consegna d’amore totale. Come l’amata del Cantico, anche Maria attende, ma non da passiva: attende con il cuore aperto e pieno di fiducia. Maria è la donna dell’attesa operosa, della speranza attiva, della tenerezza che custodisce la vita prima ancora che nasca.” (Papa Francesco, Angelus 2015)

Il matrimonio: la tenda di Dio tra due cuori

Il desiderio dell’amata non è peccato, ma promessa. È come un fuoco che Dio ha messo nel cuore dell’uomo e della donna perché imparino a donarsi totalmente. Ma questa donazione ha bisogno di un “luogo sacro”: il matrimonio. Nel matrimonio cristiano, Dio pone la sua tenda nel “noi” degli sposi. Lo Spirito Santo salda i due cuori in una comunione reale: non sono più due, ma una carne sola (Mt 19,6).

Quando questo accade, anche il corpo diventa linguaggio teologico: la carezza, l’abbraccio, la tenerezza diventano segni della grazia. L’unione fisica degli sposi non è più solo gesto umano, ma rito d’amore, sacramento vissuto nella carne. Come scrive san Giovanni Paolo II nella Teologia del corpo: “L’uomo e la donna, unendosi nel matrimonio, partecipano al mistero dell’amore creativo di Dio. Nel loro dono reciproco, il corpo parla il linguaggio della verità.

Quando l’amore raggiunge questo livello di consapevolezza, l’intimità diventa casta. Non nel senso povero o negante che a volte si attribuisce alla parola, ma nel senso più pieno: pura, vera, integra. La castità non è assenza, ma pienezza. È la capacità di unire corpo e spirito in una sola intenzione d’amore.

Il vino aromatico e il succo di melograno

L’amata dice: «Ti farei bere vino aromatico e succo del mio melograno». Sono immagini simboliche, ma profondissime. Conferma quanto abbiamo già letto nei versetti precedenti. Il melograno è frutto fresco, vivo, pieno di semi: rappresenta la fecondità immediata, la gioia del primo amore, l’ebbrezza del desiderio. Il vino aromatico, invece, richiede tempo. Non nasce in un giorno. È l’amore che si affina, che sa aspettare, che diventa più buono col passare degli anni.

Nel linguaggio simbolico, possiamo dire che il vino è l’amore maturo, quello che attraversa le stagioni, le ferite, le prove. È il frutto del tempo e della fedeltà. È il passaggio dal “Bambino innamorato” al “Bambino libero e integrato”: non un amore che brucia e consuma, ma un amore che matura e costruisce. L’amore vero, come il vino buono, ha bisogno di tempo, di luce e di buio, di fermentazione e di pazienza. Non è mai istantaneo: nasce dal quotidiano, dalla scelta ripetuta di amare anche quando l’emozione si spegne.

L’abbraccio che non passa

La sua sinistra è sotto il mio capo e la sua destra mi abbraccia.

Questo abbraccio racchiude tutta la tenerezza di Dio. È l’immagine dello sposo che sostiene e custodisce. La mano sotto il capo è il gesto di chi solleva, non schiaccia. È l’amore che sostiene la fragilità dell’altro. Nelle coppie di oggi, questo versetto ci ricorda che l’amore vero è sostegno reciproco, non possesso. È dire “sono qui” quando l’altro è stanco, quando non ha più forza, quando sembra distante.

Ogni matrimonio attraversa momenti di desiderio e momenti di distanza. Ma chi sa amare come l’amato del Cantico sa anche rispettare il ritmo dell’altro. Per questo egli dice: Non destate, non scuotete dal sonno l’amore, finché non lo desideri. L’amore non si impone. Non si forza. Si lascia fiorire nel tempo giusto, come un germoglio che cresce al sole e nella notte.

Il Cantico dei Cantici non è solo una poesia d’amore. È una profezia del matrimonio come cammino di salvezza. L’attesa dell’amata è l’attesa di ogni credente, di ogni coppia che desidera amare come Dio ama: con passione, ma anche con pazienza; con desiderio, ma anche con rispetto. Alla fine, l’amore umano non è solo un sentimento, ma una vocazione. È chiamata a trasformare il desiderio in dono, la passione in comunione, il tempo dell’attesa in eternità condivisa.

Antonio e Luisa

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Beati gli sposi di “poca fede”!

Cari sposi, oggi il Vangelo ci mostra una scena davvero toccante, perché gli apostoli fanno una richiesta quanto mai lecita nel chiedere a Gesù di aumentare la loro fede. In realtà si tratta di una vera e propria supplica perché poco prima Egli ha parlato delle gravissime conseguenze di chi scandalizza un bambino così come del comando perentorio di perdonare sempre… Se queste sono le condizioni per seguire Gesù, meglio chiederGli subito di aumentare la nostra poca fede, altrimenti siamo perduti!

La risposta di Gesù in apparenza sembra alzare ancora il tiro e non pare li abbia rincuorati, infatti chiede qualcosa di paradossale, con l’immagine del gelso. Vediamo però di cosa si tratta, addentrandoci nel mondo di allora. Il gelso bianco o nero è un albero di origini antichissime in Palestina e che può raggiungere i 15-20 metri di altezza, per cui le radici sono ben robuste, elastiche con estensioni profonde nel terreno, cosa che rendeva il loro sradicamento estremamente faticoso e laborioso. Di contro, il seme della pianta di senape è notoriamente microscopico, cosicché Gesù sta giocando su un evidente contrasto: da un lato, la grandezza del lavoro e sforzo per estirpare un gelso, dall’altro la piccolezza del semino di senape. Contrasto che aumenta con la menzione del mare, che molto probabilmente non si riferiva al Mediterraneo bensì al “Yam ha-Melah”, ossia al Mar morto.

Gesù, a ben vedere, non chiede una fede “abnorme” per realizzare una cosa così difficile e ai limiti della ragionevolezza bensì proprio quella loro “fedina”, che spesso stentava e batteva la fiacca – pensiamo alla scena dell’esorcismo fallito. Quindi, in fondo, Gesù non sta esasperando i già provati apostoli, bensì con questo risposta nel fondo sta solo incoraggiandoli a ravvivare di continuo la loro fede.

Ci aiuta a comprendere il messaggio di Gesù la prima lettura nella quale il profeta Abacuc, riferendo le parole di Jahvé, afferma: “il giusto vivrà per la sua fede”. Ovvero, la fede non è un optional di cui si può fare a meno, o quel gadget di Amazon che ogni tanto può far comodo; è piuttosto questione di vita o di morte: se si ha, si vive e sennò, si perisce.  Quel “per” sta a significare “a causa di, per mezzo di”, un significato molto forte.

È impattante che questo oracolo del Signore venga detto proprio ad Abacuc, uno dei dodici profeti minori, vissuto in Giudea nel VI secolo e testimone oculare di un dramma epocale, espresso chiaramente in questa prima lettura. Si tratta dello sfacelo che accadde nell’anno 587 a.C. quando Gerusalemme venne assediata, saccheggiata e distrutta – Tempio incluso -, dal poderoso esercito babilonese. A chi verrebbe spontaneo, vedendo la propria città, la propria casa, in preda alle fiamme e alla guerra, far leva sulla fede per sopravvivere?

Ora capiamo meglio Gesù e cosa vuol trasmettere nel fondo ai suoi accostando l’immagine del gelso sradicato e del granello. Di nuovo, ci scontriamo con il paradosso che Cristo ha incarnato con la sua vita: ha detto e fatto cose che la nostra povera mente, per quanto valida e capace di conoscere il vero e il bene, non riescono a comprendere. Diceva Papa Francesco, scrivendo proprio sulla figura del filosofo cristiano Blaise Pascal, che “la fede è di un ordine superiore alla ragione, ciò non significa affatto che vi si opponga, ma che la supera infinitamente” (lettera apostolica Sublimitas et miseria hominis).

Ecco perché, come gli apostoli, anche noi dobbiamo supplicarLo ogni giorno di farci crescere nella nostra relazione con Lui e mai accontentarci di quel che siamo. Da Abacuc fino al gelso e alla senape, tutto ciò ci insegna che credere vuol dire saper aspettare l’opera e l’azione di Dio. Fede è essere certi che Egli agisce nella nostra vita, come solo Lui lo sa. Nella vita ci possono essere tante difficoltà, tante croci, tanti mali e per questo la tentazione di mollare tutto è sempre dietro l’angolo, come lo smettere di pregare, di ricevere i sacramenti, di frequentare la chiesa. Ecco allora che Abacuc e con lui il Signore ci dice di non mollare, di restare nel servizio e nella fiducia verso il Signore. E quella fede lì ci salverà!

Gesù ci dice che basta un poco di fede per starGli vicino e permettere che Lui lo sia a noi: Diceva infatti San Tommaso d’Aquino “È meglio zoppicare sulla strada giusta che camminare a forte andatura fuori strada” (Esposizione su Giovanni, cap. 14, lectio 2). Ora è chiaro quanto tutto ciò si possa innestare nel matrimonio!

Anzitutto che il matrimonio è fondato sulla fede. Tutti voi ricorderete il momento iniziale della vostra celebrazione nuziale, quando davanti al fonte battesimale, avete fatto memoria e ringraziato la Trinità di essere figli amati. Questa è fede! Sapere che l’amore nuziale non sussiste se non crediamo all’Amore che Dio ha per noi. Ed è fede soprattutto continuare a crederlo anche quando il coniuge non corrisponde a questo Amore e si blocca o, peggio, se ne allontana.

Talvolta il matrimonio e la vita familiare presentano sfide assurde come sradicare a mani nude un albero possente e a metterlo a bagno maria in acqua salata. Che facciamo allora? Gesù vi sta incoraggiando a fare uso di quei pochi granelli di senape, simbolo della nostra fede, e di confidare che basterà ad andare avanti, a perseverare.

Che bello pensare che Gesù è lì con noi anche nelle situazioni più grige e meno sublimi: “Oggi possiamo dire anche che la Trinità è presente nel tempio della comunione matrimoniale” (Francesco, Amoris laetitia, 314). Questa fede ci aiuti vi aiuti non solo a perseverare ma anche a crescere in essa.

ANTONIO E LUISA

Quando pensiamo alla fede da sposi, l’anello che portiamo all’anulare diventa un segno concreto: non è soltanto un ricordo del giorno delle nozze, ma un richiamo quotidiano al fatto che non siamo soli. La fede nel matrimonio non è mai solo personale, ma condivisa: io credo anche per te, tu credi anche per me. Ci sono giorni in cui il peso della vita, le prove, le delusioni, possono farci dubitare della vicinanza di Cristo. Ma proprio allora l’altro diventa specchio della presenza di Dio: il suo “io credo” diventa sostegno al mio “faccio fatica a credere”. Questa è la bellezza della comunione sacramentale: non due cammini paralleli, ma un’unica strada percorsa a due, in cui la fede di uno diventa forza, luce e speranza anche per l’altro. Così l’anello non è solo oro, ma memoria viva di una promessa che sostiene la fede reciproca.

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Cinque anni dal nostro Matrimonio in Cristo

Oggi festeggiamo cinque anni dal nostro Matrimonio in Cristo, dal giorno in cui abbiamo ricevuto il Sacramento delle Nozze. Guardandoci indietro possiamo dire con gratitudine che oggi il nostro matrimonio è ancora più bello di allora. Non perché sia stato un cammino senza difficoltà, ma perché insieme a Dio abbiamo imparato a costruire ogni giorno, passo dopo passo, la nostra vocazione di sposi.

Il nostro equipaggiamento per il viaggio

In questi anni abbiamo scoperto che, per vivere il matrimonio nella gioia e nella fedeltà, servono dei punti di riferimento solidi, dei veri e propri “capisaldi”. Noi li abbiamo riassunti in un ordine che per noi è diventato stile di vita: prima Dio, poi Noi, poi gli altri, e infine tutto il resto.

  1. Dio al centro
    È Lui la sorgente del nostro amore. Senza la Sua grazia il matrimonio rischia di ridursi a un semplice contratto umano. Il Sacramento delle Nozze ci ha resi segno visibile del Suo amore fedele, e questo ci ricorda ogni giorno che non siamo soli. La fede, la partecipazione ai Sacramenti, la Santa Messa, l’adorazione, la preghiera personale e di coppia, l’ascolto della Sua Parola: tutto questo è il nostro “carburante” spirituale.
  2. Noi due
    Dopo Dio, viene la nostra relazione. Custodirla significa coltivare il dialogo, perdonarci quando sbagliamo, vivere la tenerezza, rispettarci, sostenerci a vicenda. Non sempre è facile: ci sono stati litigi, momenti di incomprensione, ferite e fatiche. Ma l’amore non è l’assenza di problemi, bensì la scelta di affrontarli insieme. Abbiamo imparato ad ascoltarci, a venirci incontro, a gioire delle cose belle e a portare insieme i pesi.
  3. La leggerezza
    Il matrimonio non è solo sacrificio: è anche gioia, svago, viaggi, solarità. Abbiamo sperimentato che la leggerezza, vissuta insieme, diventa un modo per ricaricarsi e guardare con più fiducia al futuro.
  4. Il sostegno della comunità
    Non si cresce da soli. In questi anni abbiamo cercato corsi e percorsi per sposi cristiani, guide spirituali, letture, testimonianze, e soprattutto cammini condivisi con altre coppie. Alcune erano alla pari con noi, altre più avanti: da ognuna abbiamo ricevuto uno stimolo a crescere.

Il matrimonio non è una vetta raggiunta una volta per tutte: è un cammino in continuo divenire. Non si arriva mai, non ci si ferma mai. Per questo il nostro anniversario ha per noi più valore dei compleanni: celebra la nostra vocazione, il senso stesso della nostra vita insieme.

Certo, non siamo perfetti. Abbiamo limiti e fragilità, ma cerchiamo di fare del nostro meglio ogni giorno, con l’aiuto di Dio e con i piccoli passi possibili. La gratitudine è la nostra bussola: nulla è scontato, tutto è dono, grazia e benedizione.

Verso una fecondità più grande

Ci sentiamo ancora “work in progress” anche nel servizio e nella fecondità spirituale. Non sempre i cammini ecclesiali che abbiamo incontrato hanno risposto alle nostre esigenze: a volte abbiamo trovato troppa organizzazione e poco contenuto, altre volte un’attenzione esclusiva alla genitorialità. Ma confidiamo che Dio ci mostrerà la strada, aprendoci porte nuove. Pregate per noi, come noi preghiamo per voi. Desideriamo restituire quello che abbiamo ricevuto e lodare Dio con la nostra vita.

Vent’anni fa un frate francescano ci disse: «Quello che si è da single, lo si porta nel fidanzamento; quello che si è nel fidanzamento, lo si porta nel matrimonio». È un consiglio che si è rivelato vero. Per questo è importante coltivarsi bene in ogni stagione della vita: da single, da fidanzati e da sposi.

Arrivati a questa tappa, possiamo dire che ci sentiamo più vivi e grati che mai. Io personalmente mi sento bella come a trent’anni e più saggia di quanto dica la mia età anagrafica. È un dono grande poter camminare accanto a mio marito, ringraziare Dio ogni giorno per la nostra storia e guardare al futuro con fiducia.

Cinque anni di matrimonio in Cristo non sono solo un ricordo: sono la certezza che l’amore, se custodito nella grazia di Dio, diventa sempre più bello col passare del tempo.

Paola BT

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La sacramentalità del matrimonio: amore e mistero

Proseguiamo oggi con l’analisi delle catechesi di Giovanni Paolo II sul matrimonio. In particolare con quella del 8 settembre 1982. Il matrimonio è il “grande mistero”: nell’amore quotidiano degli sposi si rende visibile l’amore di Cristo per la Chiesa, segno vivo di fedeltà, dono e presenza di Dio. Potete rileggere i capitoli già pubblicati a questo link.

San Paolo, nella lettera agli Efesini, scrive una frase che è diventata la chiave di lettura del matrimonio cristiano: “Nessuno mai ha preso in odio la propria carne; al contrario la nutre e la cura, come fa Cristo con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo” (Ef 5,29-30).

Qui Paolo cita subito dopo il versetto di Genesi 2,24: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due formeranno una carne sola”. Non lo fa soltanto per ribadire l’unità dei coniugi “fin dal principio”, ma per dire qualcosa di molto più grande: il matrimonio umano è immagine e riflesso dell’amore di Cristo per la sua Chiesa.

Ecco la chiave: il legame tra marito e moglie diventa segno concreto e quotidiano di un amore più grande, quello che Cristo ha mostrato sulla croce. Non si tratta quindi solo di un’unione naturale, ma di una realtà che appartiene al cuore stesso del progetto di Dio.

Il mistero rivelato

Paolo chiama questo legame “grande mistero” (Ef 5,32). La parola greca mysterion indica un disegno che era nascosto in Dio e che si manifesta nel tempo, nella storia dell’uomo. È un mistero perché va oltre quello che possiamo capire con la sola ragione: è la rivelazione che Dio vuole sposarsi con l’umanità, unirsi a lei in un amore fedele ed eterno.

Nella Bibbia questo mistero attraversa due fasi: la prima, antica, è la creazione, quando Dio dona all’uomo e alla donna la possibilità di diventare una sola carne; la seconda, piena e definitiva, è Cristo, che dona la vita per la Chiesa e si unisce a lei in modo sponsale. C’è una continuità: ciò che Dio ha inscritto nella natura umana fin dal principio trova il suo compimento nella Pasqua di Cristo.

In fondo è lo stesso linguaggio che ritroviamo in tante tue riflessioni: quando dici che l’amore sponsale non è solo un sentimento, ma una vocazione che ha dentro un seme di eternità, è esattamente questo.

Mistero e sacramento

Ora: Paolo parla direttamente del “sacramento del matrimonio”? Non proprio in senso tecnico. Però pone le basi della sacramentalità. Il sacramento, infatti, è quel segno visibile ed efficace che non solo annuncia un mistero, ma lo rende presente e lo realizza.

Il matrimonio cristiano, quindi, non è solo simbolo: è il luogo in cui il mistero dell’amore di Dio diventa carne, gesti, vita quotidiana. L’amore coniugale – con le sue fatiche, le sue gioie, la fedeltà quotidiana – rende visibile l’amore di Cristo per la Chiesa. È come se Dio dicesse: “Guardate due sposi che si amano, e capirete un po’ del mio amore per voi”.

Questo spiega anche perché i sacramenti sono al centro della vita cristiana: sono i segni attraverso i quali Dio continua ad amarci, a nutrirci e a curarci, proprio come Cristo fa con la sua Chiesa.

La Chiesa, sacramento dell’amore di Dio

Il Concilio Vaticano II lo ha espresso in maniera bellissima: “La Chiesa è in Cristo come sacramento, o segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen Gentium, 1). Non è solo un’istituzione o un’organizzazione: è il luogo in cui il mistero di Dio prende forma e tocca la vita concreta delle persone.

Allo stesso modo, il matrimonio non è solo un contratto o una scelta privata: è un sacramento che partecipa a questa stessa logica, perché mostra e rende presente l’amore fedele di Dio.

Per noi sposi oggi

Che cosa significa tutto questo, detto in parole semplici per le coppie di oggi? Che il matrimonio non è un “peso” da portare, né una prova di resistenza, ma una vocazione grande. È un dono da accogliere e un compito da custodire.

Ogni volta che un marito e una moglie scelgono di amarsi, di perdonarsi, di restare fedeli, di mettere al centro non l’egoismo ma il bene dell’altro, lì si manifesta Cristo stesso. È un “piccolo Vangelo vissuto in casa”, la prima carità comincia tra le mura domestiche.

In fondo, dire “sì” nel matrimonio non è altro che accogliere e rendere visibile questo mistero d’amore. Un mistero che ha radici in Dio e che, proprio per questo, non si consuma, ma diventa via di salvezza e di santità.

Quando San Paolo parla del “grande mistero” non intende qualcosa di astratto, ma una realtà concreta che tocca la carne e il cuore degli sposi. Cristo e la Chiesa, marito e moglie: due unioni che si illuminano a vicenda.

Capire questo ci aiuta a non ridurre il matrimonio a un semplice accordo tra due persone. È molto di più: è il segno vivo che Dio continua a dire all’umanità: “Ti amo, ti scelgo, ti resto fedele per sempre”.

Ecco perché il matrimonio cristiano, pur nella sua fragilità umana, rimane il sacramento più “antico” e al tempo stesso più attuale: perché ci ricorda che l’amore vero non finisce, ma ha il volto stesso di Dio.

Basta una parola

Immaginate una coppia che, dopo una giornata faticosa, si ritrova la sera a tavola. Lui è stanco, lei magari è irritata perché i bambini hanno fatto i capricci. Potrebbero rimanere ciascuno nel proprio silenzio, oppure decidere di “nutrire e curare” l’altro, come dice San Paolo. Allora uno prende l’iniziativa: un sorriso, una carezza, un “come stai davvero?”. Quel gesto cambia l’atmosfera: non è solo gentilezza, ma diventa segno concreto di quell’amore più grande che Cristo ha per la Chiesa.

È come una candela accesa in una stanza buia: la luce è piccola, ma rende visibile la presenza di Dio. Il matrimonio funziona così: nei gesti semplici – un perdono chiesto, un piatto cucinato, un abbraccio dopo una lite – si rivela il mistero nascosto da sempre in Dio.

Per questo Paolo può dire: “Questo mistero è grande”. Non è un’idea astratta: è la vita quotidiana che diventa luogo di Dio. Come Cristo ha dato se stesso per la Chiesa, così gli sposi imparano a donarsi a vicenda. Ogni piccolo dono, anche quello nascosto, è partecipazione a un amore eterno.

Antonio e Luisa

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Nonni: angeli custodi delle nostre famiglie

Due ottobre: festa degli angeli custodi, divenuta anche – almeno in Italia – la festa dei nonni. Ma per quale motivo?  In un mondo in continua evoluzione, dove il ritmo della vita sembra accelerare ogni giorno di più, esiste una figura silenziosa ma fondamentale che rappresenta un punto fermo nelle nostre vite: i nonni.

Definirli semplicemente come i genitori dei nostri genitori sarebbe riduttivo. I nonni sono molto di più: sono custodi di memoria, maestri di vita, fonti inesauribili di amore incondizionato. Sono, per molti di noi, dei veri e propri angeli custodi delle famiglie.

I nonni rappresentano una presenza affettuosa e rassicurante. Con la loro esperienza, saggezza e capacità di ascolto, riescono a trasmettere sicurezza e calore, creando un senso di protezione che va ben oltre le parole. In molte famiglie, sono coloro che più di tutti riescono a dare conforto nei momenti difficili, offrendo consigli sempre ricchi di significato. La loro presenza calma, spesso silenziosa, è come un abbraccio che avvolge tutta la famiglia.

I nonni sono la nostra memoria vivente. Attraverso i loro racconti, ci collegano a un passato che altrimenti andrebbe perduto. Parlano di tempi lontani, di difficoltà superate, di un mondo diverso ma non per questo meno importante. Questi racconti, ben più che semplici aneddoti, sono veri e propri insegnamenti di vita. Valori come il rispetto, la solidarietà e la gratitudine vengono trasmessi in modo naturale, spesso senza nemmeno rendersene conto.

Non lo dico io ma la Bibbia! Nelle Sacre Scritture, infatti, l’anziano rappresenta un valore prezioso per la famiglia, la discendenza e la comunità, non tanto come simbolo generico di saggezza, piuttosto come testimonianza concreta della relazione piena con Dio.

È segno della fedeltà divina e del compimento dei suoi comandamenti, come esprime chiaramente il passo: “Fino alla vostra vecchiaia io sarò sempre lo stesso, io vi porterò fino alla canizie. Come ho già fatto, io vi porterò e vi salverò” (Is 46,4). Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe non solo valorizza la vita dell’anziano, ma lo accompagna fino alla vecchiaia con l’obiettivo di affidargli una missione specifica. Questo ruolo emerge nelle parole del profeta Gioele: “Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni” (Gl 3,1).

Con l’evoluzione della società e l’aumento delle famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, i nonni hanno assunto un ruolo sempre più pratico e concreto nella gestione quotidiana della famiglia. Si occupano dei nipoti, li accompagnano a scuola, li aiutano con i compiti, li crescono con pazienza e dedizione. Sono una risorsa insostituibile anche dal punto di vista economico: in molti casi, il loro aiuto consente ai genitori di lavorare serenamente, riducendo la necessità di ricorrere a babysitter o servizi a pagamento.

Il rapporto tra nonni e nipoti è unico, libero dalle pressioni educative che gravano sui genitori. I nonni possono permettersi di essere più indulgenti, più pazienti, più giocosi. Questo genera un legame profondo, basato sull’amore puro e sull’accettazione totale. I nipoti, da parte loro, vedono nei nonni dei confidenti fidati, con cui condividere pensieri, sogni e paure. È un rapporto reciproco, in cui entrambi crescono e imparano: i nonni restano giovani grazie alla freschezza dei nipoti e questi imparano a conoscere l’importanza delle radici e del rispetto.

La perdita di un nonno o di una nonna, dunque, lascia un vuoto immenso. È come perdere una parte di sé, un pezzo di casa, un faro nella notte. Eppure, anche dopo la loro scomparsa, i nonni continuano a vivere dentro di noi, nei valori che ci hanno trasmesso, nei gesti che ripetiamo senza accorgercene, nelle parole che ci tornano alla mente nei momenti più inaspettati. La loro eredità è fatta di cose semplici, ma essenziali: una ricetta di famiglia, un proverbio, una carezza.

Nella società moderna, spesso concentrata sull’efficienza e sulla produttività, si rischia di trascurare l’importanza degli anziani. Eppure, prendersi cura dei nonni, ascoltarli, coinvolgerli nella vita familiare, non è solo un atto d’amore ma anche un gesto di giustizia. Non sono solo beneficiari del nostro affetto: sono parte attiva della famiglia, con tanto ancora da dare. Valorizzarli significa riconoscere il loro ruolo essenziale e fare in modo che si sentano utili, amati, rispettati.

I nonni sono molto più di semplici figure familiari: sono angeli custodi, che vegliano silenziosamente sulle nostre vite. Ci guidano, ci proteggono, ci insegnano con l’esempio. In un mondo che cambia, i nonni restano un punto fermo. Non smettiamo mai di ringraziarli, di abbracciarli, di ascoltarli. Perché in ogni sorriso, in ogni racconto, in ogni gesto d’amore, c’è tutto il loro mondo… e il nostro futuro.

Fabrizia Perrachon

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L’illusione di poter controllare tutto: i contratti prematrimoniali

Ho scritto nel precedente articolo che il nostro sistema giudiziario, così com’è, genera ingiustizie nelle separazioni; infatti ci sono da vari fronti alcune proposte che potrebbero portare a dei miglioramenti: c’è qualcuno che ritiene che un contratto prematrimoniale possa risolvere molti problemi.

In Italia i patti prematrimoniali, con cui si regolano in anticipo le condizioni di un’eventuale separazione o divorzio (es. assegno di mantenimento, affidamento dei figli, rinuncia a diritti successori), non sono validi, mentre sono contemplati gli accordi patrimoniali (es. restituzione d’immobili, auto, barche, somme di denaro).

Io penso che firmare un contratto che vada a stabilire cosa dovrà succedere in caso di separazione sia, non solo di una tristezza infinita, ma anche poco utile.

Infatti, tutto questo riduce il matrimonio a un accordo economico, a un calcolo di convenienza, quando invece – per noi cristiani – il matrimonio è un sacramento, una consacrazione della relazione che prevede di dare la vita, qualsiasi cosa accada.

Provate a immaginare due fidanzati che si siedono davanti a un notaio: invece di sognare i figli, la casa da arredare insieme, i progetti di vita, discutono di come spartirsi i beni in caso di fallimento. A me sembra paradossale, sarebbe come promettere amore “finché dura”, invece del “per sempre” (e questo minerebbe anche la validità del Sacramento).

Chi inizia un matrimonio con la paura del domani, rischia di vivere nell’ansia di perdere e non nella gioia di donarsi: l’amore, quello vero, non è un investimento a rendimento garantito, è dono totale, è rischio, è fiducia.

Io ho una formazione logico-matematica e per molto tempo della mia vita ho provato inutilmente a organizzare e a tenere tutto sotto controllo, fino a costatare che, per fortuna, non siamo noi a tenere le fila; non puoi prevedere il futuro, non puoi preservarti da ciò che accadrà, puoi solo affidarTi.

San Paolo chiama il matrimonio “mistero grande” (Ef 5,32): se Cristo avesse amato la Chiesa con clausole di uscita, nessuno di noi oggi sarebbe qui a credere. Se gli sposi iniziano la loro vita insieme pensando già al divorzio, come possono credere davvero nella Grazia che li sostiene? Soprattutto si tratta di un sacramento valido?

Certo, non voglio essere ingenuo: le crisi ci sono, i tradimenti ci sono, le ferite ci sono, ma la risposta non è la paura preventiva, bensì la preparazione e l’accompagnamento. È come per un viaggio in mare: non si parte pensando subito al naufragio, ma ci si forma a navigare, a leggere i venti, a superare le tempeste insieme.

Quante coppie si separano non perché “non si amano più”, ma perché non hanno saputo parlarsi, perdonarsi, mettersi in discussione! Nessun contratto prematrimoniale avrebbe risolto queste situazioni, al contrario, li avrebbe illusi che la soluzione fosse già scritta su un foglio, quando invece era nascosta nel loro cuore: nella capacità di ricominciare, di chiedere aiuto, di perdonarsi settanta volte sette.

La logica dei contratti prematrimoniali porta a vivere il matrimonio come una polizza assicurativa: paghi un premio (la firma) per essere “coperto” in caso di danno (la separazione), ma l’amore non è una polizza. Non c’è nessun assicuratore che possa garantire la fedeltà, la tenerezza, il sacrificio.

Come cristiani dovremmo chiederci: dove nasce la fragilità dei matrimoni? Non dalla mancanza di clausole legali, ma dalla mancanza di radici spirituali e relazionali. Una coppia che prega insieme, che appartiene a una comunità viva, che coltiva il dialogo e la tenerezza, sarà molto più protetta dalle crisi di una coppia che firma mille carte.

Ecco perché penso che, invece di spingere i giovani a fare contratti, dovremmo spingerli a fare cammini di preparazione seri, a scoprire cosa significa davvero donarsi, a imparare la grammatica dell’amore: ascolto, perdono, sacrificio, pazienza, umiltà. E’ una logica contraria a come pensa il mondo: un contratto divide equamente, l’amore dona totalmente.

Oggi i giovani vedono troppi matrimoni falliti e hanno paura, ma io credo che i giovani abbiano bisogno di vedere non contratti ben fatti, ma sposi che restano fedeli, che si rialzano dopo le cadute, che mostrano che il “per sempre” è possibile, perché Dio lo rende possibile.

La vera sicurezza nel matrimonio non viene da una firma, ma da quel “sì” detto davanti a Dio e rinnovato ogni giorno nella concretezza della vita. Ogni volta che preparo la cena per il coniuge, ogni volta che mi alzo di notte per un figlio, ogni volta che sopporto un difetto dell’altro, io sto rinnovando il mio sì.

E allora mi chiedo: quale contratto potrà mai contenere la grandezza di un amore che decide di riflettere Cristo? Nessuno. L’unico “patto prematrimoniale” che conta è la decisione del cuore: “Io scelgo di amarti sempre, con l’aiuto di Dio”.

Ettore Leandri (Presidente Fraternità Sposi per Sempre)

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Dal nome, l’azione

Dalle «Omelie sui vangeli» di san Gregorio Magno, papa (Om. 34, 8-9; PL 76, 1250-1251) È da sapere che il termine «angelo» denota l’ufficio, non la natura. Infatti quei santi spiriti della patria celeste sono sempre spiriti, ma non si possono chiamare sempre angeli, poiché solo allora sono angeli, quando per mezzo loro viene dato un annunzio. Quelli che recano annunzi ordinari sono detti angeli, quelli invece che annunziano i più grandi eventi son chiamati arcangeli. […] Quando deve compiersi qualcosa che richiede grande coraggio e forza, si dice che è mandato Michele, perché si possa comprendere, dall’azione e dal nome, che nessuno può agire come Dio. […] A Maria è mandato Gabriele, che è chiamato Fortezza di Dio … Doveva dunque essere annunziato da «Fortezza di Dio» colui che veniva quale Signore degli eserciti e forte guerriero. […] Raffaele, come abbiamo detto, significa Medicina di Dio. Egli infatti toccò gli occhi di Tobia, quasi in atto di medicarli, e dissipò le tenebre della sua cecità. Fu giusto dunque che venisse chiamato «Medicina di Dio» colui che venne inviato a operare guarigioni

Ieri abbiamo vissuto la bellissima festa dei santi arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele, anche se siamo nel giorno seguente non ci fa male riflettere un poco sulla figura di Raffaele. Nello stralcio di omelia di san Gregorio Magno troviamo uno schema conciso ma chiaro di questi tre arcangeli, però noi ci limitiamo a concentrare la nostra riflessione su Raffaele, in quanto è protagonista nel libro di Tobia, un libro che narra la storia d’amore di una coppia, quasi fosse una sorta di romanzo rosa dell’epoca.

Ci sono già autori illustri che hanno approfondito questo libro con saggi e pubblicazioni di vario genere, noi facciamo solo un focus su un dettaglio anche se per saperne di più vi invitiamo a leggere il già citato libro di Tobia.

Raffaele è stato l’aiuto che Dio inviò a Tobia certamente per togliere la cecità a Tobi (il padre di Tobia) ma soprattutto per sanare la situazione di Sara, successe quello che col linguaggio moderno chiameremmo una liberazione da un’infestazione demoniaca di cui era vittima la promessa sposa di Tobia, Sara per l’appunto.

Vi riportiamo alcuni versetti del capitolo 8 del succitato libro, nei quali si racconta la prima notte di nozze tra Tobia e Sara:

[1]Quando ebbero finito di mangiare e di bere, decisero di andare a dormire. Accompagnarono il giovane e lo introdussero nella camera da letto. [2]Tobia allora si ricordò delle parole di Raffaele: prese dal suo sacco il fegato e il cuore del pesce e li pose sulla brace dell’incenso. [3]L’odore del pesce respinse il demonio, che fuggì nelle regioni dell’alto Egitto. Raffaele vi si recò all’istante e in quel luogo lo incatenò e lo mise in ceppi. [4]Gli altri intanto erano usciti e avevano chiuso la porta della camera. Tobia si alzò dal letto e disse a Sara: «Sorella, alzati! Preghiamo e domandiamo al Signore che ci dia grazia e salvezza». [5]Essa si alzò e si misero a pregare e a chiedere che venisse su di loro la salvezza, dicendo: […]

A questo punto comincia una preghiera meravigliosa che vi invitiamo a fare vostra, ma soprattutto è qui il punto nevralgico della presenza di Raffaele: la medicina di Dio.

Cari sposi, forse proprio ora che state leggendo vi sentite malati, malati non tanto nel corpo quanto nel cuore, nell’anima, nella relazione. Se avete la percezione che la vostra relazione sia malata, allora c’è bisogno di una medicina superiore, una medicina che guarisca la cecità di lui che non vede la femminilità di lei, la cecità di lei che non fa fiorire la mascolinità di lui. Se è così avete bisogno di Raffaele.

Invocatelo, invocatelo insieme, se questo è un periodo di malattia spirituale, morale o relazionale che sia, non vergognatevi di invocarlo e soprattutto di invocarlo insieme. Spesso capita che in questi periodi bassi gli sposi si allontanino l’uno dall’altra ancora di più, mentre invece in questi momenti l’unione fa la forza, proprio come fanno le formiche quando devono uccidere il terribile calabrone che vuole depredare il loro nido : essendo esse molto più piccole del predatore, si uniscono in un numeroso gruppo, lo accerchiano e lo assaltano insieme, così facendo la temperatura del calabrone sale fino a che muore abbrustolito dal troppo calore corporeo raggiunto.

Coraggio allora, cominciamo con il fare squadra tra noi e se volete chiedere aiuto attraverso una novena qui il link.

Giorgio e Valentina.

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L’amata: eros, agape e la fedeltà che matura nel tempo

Nei versetti che afforntiamo in questo capitolo il Cantico dei Cantici mostra l’amore sponsale come integrazione di eros e agape: passione e fedeltà, freschezza e maturità, dono reciproco che, nutrito, diventa profezia dell’amore eterno di Dio. Clicca qui per leggere quanto già pubblicato. La riflessione come sempre è tratta dal nostro libro Sposi sacerdoti dell’amore (Tau Editrice).

«Le mandragore fanno sentire il loro profumo. Alle nostre porte ci sono tutti i frutti più squisiti, quelli freschi e quelli stagionati che ho conservato per te, amore mio.» (Ct 7,14)

Queste parole del Cantico dei Cantici aprono uno squarcio affascinante sul mistero dell’amore sponsale. Il linguaggio è poetico, ma racchiude in sé una sapienza profonda, capace di parlare tanto al cuore quanto alla mente. Le immagini bibliche non sono semplici ornamenti, ma chiavi interpretative per entrare nel mistero dell’amore umano, che è corpo e spirito, eros e agape, passione e fedeltà.

La mandragora: tra attrazione e ambiguità

Il testo nomina la mandragora, pianta che, nella tradizione antica, è legata al desiderio, alla fertilità e persino alla magia. La Bibbia stessa la ricorda come oggetto di contesa tra Rachele e Lia, mogli di Giacobbe, che vedevano in essa una promessa di fecondità (cf. Gen 30,14-16). La mandragora, infatti, è pianta ambivalente: può essere medicina o veleno, dono o inganno, a seconda dell’uso che se ne fa.

Questa ambivalenza diventa un simbolo perfetto dell’eros. L’attrazione erotica tra uomo e donna è una forza potente, capace di condurre alla comunione più profonda o, se deformata, di trasformarsi in possesso e distruzione. Come nota San Giovanni Paolo II:

«L’uomo è diventato dono per la donna, e la donna per l’uomo. Nell’esperienza del corpo, l’uomo e la donna scoprono il significato sponsale della loro esistenza.» (Udienza generale, 9 gennaio 1980).

In chiave psicologica, potremmo dire che l’eros è quella spinta originaria che permette di uscire dal proprio “io” chiuso e autoreferenziale per cercare l’altro. Non è quindi, come spesso viene ridotto, una forza cieca di possesso. È, piuttosto, un motore che spinge a superare l’egoismo e a scoprire la gioia dell’incontro.

Estasi e dono

La parola greca éxtasis significa letteralmente “essere fuori da sé”. L’estasi amorosa è dunque il movimento che porta oltre i propri confini, verso l’altro. In un mondo segnato dal peccato, questo movimento rischia di degenerare in volontà di dominio, ma nel disegno originario di Dio esso è chiamato a fiorire come dono

L’eros, se purificato dall’agape, diventa una via per imparare l’amore vero, quello che non si esaurisce nel piacere, ma che si apre al servizio, alla fedeltà, alla vita generata insieme. È come un “motorino di avviamento”: accende la passione, ma non basta a portare avanti il viaggio. Occorre il motore più grande dell’agape, l’amore che si fa dono quotidiano.

I frutti freschi e i frutti stagionati

Il Cantico prosegue con un’immagine altrettanto suggestiva: i frutti freschi e quelli stagionati conservati “alle porte” per l’amato. È il simbolo dell’amore coniugale che conosce diverse stagioni.

I frutti freschi sono la passione, la sorpresa, l’attrazione immediata che caratterizza i primi tempi. I frutti stagionati, invece, parlano della fedeltà, della maturità che nasce dalla vita condivisa, dalle prove superate, dalle ferite trasformate in cicatrici. Entrambi sono preziosi e necessari.

Cristiane Singer osserva con finezza: «Il matrimonio nasce dalla pazienza che Dio ha nei riguardi dell’uomo: Io ti dono una vita per realizzare la tua opera. La passione invece nasce dalla sua impazienza: Come, stai ancora dormendo?» (Elogio del matrimonio, della passione e della fedeltà).

Nelle coppie che hanno costruito un rapporto sano, passione e fedeltà non si escludono, ma si alimentano a vicenda. La passione non è un capriccio passeggero, ma può essere educata, custodita, rigenerata. Ogni gesto di tenerezza, di cura, di ascolto diventa come acqua che irriga le radici dell’amore, mantenendo viva la fiamma.

Una dinamica psicologica e spirituale

Qui possiamo cogliere un parallelo con le dinamiche interiori dell’uomo. Ogni relazione vive della tensione tra spontaneità e stabilità, tra desiderio e responsabilità. Quando uno dei due poli viene escluso, l’amore si impoverisce: senza passione, rischia di diventare routine fredda; senza fedeltà, si riduce a consumare emozioni senza costruire nulla.

La Bibbia mostra che Dio stesso ama con passione e fedeltà. «Con amore eterno ti ho amato» (Ger 31,3), dice il Signore a Israele. E al tempo stesso Gesù parla dello sposo che arde di desiderio per la sua sposa, che è la Chiesa (cf. Mc 2,19).

Nell’esperienza matrimoniale, allora, gli sposi sono chiamati a riflettere questa immagine di Dio: vivere la pazienza dell’amore che dura e, insieme, custodire l’impazienza della passione che rinnova.

Recuperare la passione perduta

Molte coppie, dopo anni, si chiedono se la passione sia definitivamente tramontata. Ma il Cantico insegna che i frutti freschi possono sempre ritornare, se vengono conservati e custoditi. Non è una forza cieca che sfugge al nostro controllo: è un dono che si alimenta.

Come dice Papa Francesco: «L’amore che non cresce in modo dinamico rischia di essere un amore malato. Cresce e matura man mano che la vita diventa più fragile.» (Amoris Laetitia, 134).

La coppia che investe nella cura reciproca, nel dialogo, nella preghiera condivisa, nei gesti concreti di servizio, non perde la passione, ma la trasfigura. Anche quando sembra spenta, essa può essere ravvivata, come brace che torna fuoco vivo se alimentata.

L’immagine della mandragora e dei frutti freschi e stagionati ci mostra che l’amore coniugale è un cammino di integrazione. È eros che diventa agape, è passione che si trasforma in fedeltà, è dono che si rinnova ogni giorno.

Il matrimonio non elimina la passione, ma le dà una casa. Non soffoca l’eros, ma lo orienta al dono. Non teme il tempo, perché sa che l’amore vero, come il vino buono, matura e diventa più gustoso. Ecco perché il Cantico ci offre non solo poesia, ma profezia: l’amore umano, con le sue fragilità e le sue grandezze, è segno di quell’amore eterno e fedele che Dio ha per noi.

Antonio e Luisa

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Tu sei l’aiuto di Dio

Cari sposi, circa 5 anni fa a Milano venne realizzato un esperimento sociale. In una strada affollata venne collocata una telecamera nascosta e poi lì vicino da una parte fu legato un cagnolino a un albero e dall’altra, a pochi metri di distanza, sedeva un anziano, travestito da clochard. Lascio a voi immaginare chi abbia ricevuto più sguardi e segni di attenzione… un fatto che ci porta diritti nella liturgia di oggi.

La prima lettura ci aiuta a comprendere meglio il Vangelo. Il profeta Amos vive nell’VIII secolo, è uno tra i primi a profetizzare in nome di Dio nel regno di Israele. Visse in un tempo di grande prosperità economica, grazie ai commerci di olio, vino e cavalli con altri stati del Medio Oriente, il che portò ad una corruzione morale e religiosa. Da qui il suo monito solenne: “guai agli spensierati di Sion”.

Il termine biblico greco con cui abbiamo tradotto “guai agli spensierati” ha nell’originale un participio presente neutro, derivante dal verbo ἐξουθενῶ che sta a significare “disprezzare, sottovalutare o considerare di poco conto”. Quindi alla lettera suonerebbe come “guai al disprezzante e sottovalutante”. Mentre sorprende che la Vulgata latina traduce lo stesso termine con “opulenti”, cioè chi abbonda in ricchezze e beni. Come a dire: chi ha ogni comodità, nel fondo non apprezza la vita, sebbene ostenti una certa religiosità esteriore.

Sono parole che valgono anche per noi oggi, in cui il tenore di vita medio è ancora maggiore a tanti popoli e paesi del mondo, nonostante la crisi abbia creato non pochi problemi. Di fatto, il rischio di barricarci dietro a confort, comodità e gadget vari è sempre reale, rendendoli nel fondo idoli. Una cultura così produce solo scarti, come ha avvertito sovente Papa Francesco: “La cultura dello scarto dice: ti uso finché mi servi; quando non mi interessi più o mi sei di ostacolo, ti butto via. E si trattano così specialmente i più fragili: i bambini non ancora nati, gli anziani, i bisognosi e gli svantaggiati. Ma le persone non si possono buttare via, gli svantaggiati non si possono buttare via! Ciascuno è un dono sacro, ciascuno è un dono unico, ad ogni età e in ogni condizione” (Angelus, 23 gennaio 2023).

E non solo, l’agiatezza, come detto sopra, diventa autodistruttiva, non solo per i poveri ma per chi ci sguazza dentro, come ricordava il Card. Giacomo Biffi nella lettera pastorale alla città di Bologna nel 2000, definendola “sazia e disperata”.

Chi ci può scuotere e risvegliare da tale apatia e intontimento? Gesù nel vangelo ce lo dice chiaramente: il bisogno del fratello che hai accanto. È la storia di tanti santi delle chiesa che hanno percorso la stessa strada e hanno raggiunto le vette dell’amore. In particolare, cito gli ultimi due, proclamati da Papa Leone: Pier Giorgio Frassati e Carlo Acutis. Il primo è stato un assiduo volontario della San Vincenzo e aveva detto: “se c’è un povero che ha fame e papà non gli ha dato da mangiare, forse è Gesù che ce lo manda”; il secondo ha dimostrato una grande maturità spirituale e, già da adolescente, si prodigava per i senzatetto.

Sappiamo bene che la povertà non è affatto solo quella economica, come ci ricordava Papa Benedetto: “Se la povertà fosse solo materiale, le scienze sociali che ci aiutano a misurare i fenomeni sulla base di dati di tipo soprattutto quantitativo, sarebbero sufficienti ad illuminarne le principali caratteristiche. Sappiamo, però, che esistono povertà immateriali, che non sono diretta e automatica conseguenza di carenze materiali” (Messaggio per la XLII Giornata Mondiale della Pace).

Come credenti, quindi, abbiamo “bisogno dei bisognosi” perché ci aiutano ad uscire da noi stessi, sono un pungolo per il nostro egoismo e un dito di Dio che ci plasma sempre più aperti e generosi.

È singolare che tra tutti i numerosi nomi a cui poteva attingere Gesù per articolare la sua parabola abbia scelto proprio Lazzaro. Difatti tale nome in ebraico si scrive אֶלְעָזָר (El’azar) e significa “Dio ha aiutato” o “colui che è assistito da Dio”. Ciò si può intendere non solo nel fatto che Lazzaro riceve da Dio l’aiuto necessario ma che Dio stesso abbia voluto utilizzare Lazzaro per aiutare il ricco epulone!

Ora il significato nuziale diventa chiaro. Ciascuno di voi coniugi è per l’altro il “prossimo” perché il più vicino. Anche per voi il consorte diventa via di salvezza a causa di un carattere spigoloso o per altri difetti da cui non si riesce a liberare. È bene illuminare con la fede questo lato oscuro e vedervi l’occasione di crescere nell’amore vicendevole e in definitiva una via di salvezza.

Se Gesù nella parabola mostra come i gesti fatti o non fatti dai protagonisti si ripercuotono nell’eternità, allora pensate che ogni parola, azione, favore, servizio, premura avuta tra voi, riecheggerà per sempre a vostro beneficio. Ne vale allora veramente la pena e la fatica che esso comporta! Cari sposi, la grazia sacramentale è quel “Dio che aiuta”, come esprime il nome Lazzaro, che avete dentro di voi. Egli vi chiama continuamente ad uscire da voi e a farlo agire nella vostra relazione.

ANTONIO E LUISA

Le riflessioni di padre Luca ci offrono l’occasione per mettere in guardia gli sposi da un pericolo reale. Molti sposi cristiani si spendono in parrocchia o nel volontariato, ma rischiano di trascurare il loro primo compito: amare il coniuge. Il Vangelo ricorda che il “prossimo” non è un concetto astratto: per gli sposi ha il volto concreto del marito o della moglie. La misericordia comincia in casa, con ascolto, perdono, pazienza e tenerezza quotidiana. Se non si ama chi ci vive accanto, l’impegno fuori rischia di diventare una fuga spirituale. Il matrimonio è la prima forma di carità: da qui nasce un amore credibile, capace di traboccare autenticamente verso la comunità e il mondo.

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Sposare qualcuno che sa amare anche i tuoi sogni

Ricordo l’uscita del mio primo libro come uno dei momenti più emozionanti della vita. Sentivo da tempo, dentro di me, di voler annunciare ai giovani che l’amore vero esiste, che possono guardarsi dentro senza paura, che hanno tutto il diritto di puntare in alto, perché siamo stati creati per cose grandi. Con questo scopo avevo scritto “Non lo sapevo, ma ti stavo aspettando” (Mimep Docete, 2106), una storia d’amore dove il protagonista, oltre a incontrare una ragazza di cui si innamora, si lascia portare da lei verso Cristo.

Quando lo presi in mano la prima volta aveva il tipico odore della carta appena stampata. Sentii che era un traguardo indescrivibile. Sono passati 10 anni esatti da quando la Casa Editrice, nel settembre 2015, aveva dato l’ok per la sua pubblicazione. Esattamente un mese prima, in agosto 2015, avevo detto “sì” ad una proposta di matrimonio.

Tutto, da quel momento, è andato di pari passo e senza il sostegno di mio marito oggi non sarei qui a raccontarvi come sono diventata scrittrice. Certo, è merito dei miei genitori, che mi hanno fatto studiare, dell’Università, che mi ha formata, delle diverse case editrici che nel tempo hanno creduto in me. Merito di Dio, che mi ha donato una speranza da comunicare e la forza per farlo.

Eppure, quando mi riguardo indietro, vedo in particolare un progetto realizzato nella comunione con l’uomo che mi è stato compagno di viaggio in tutto questo tempo.

Spesso si dice che la donna debba essere “indipendente” rispetto all’uomo, che debba mantenersi da sola; non solo per realizzarsi, ma anche per “difendersi”. In qualunque momento la relazione dovesse finire, lei può andarsene e provvedere a sè stessa. E poi, così, non deve rendere conto a nessuno delle sue spese, di quello che fa. Non dirò mai che una donna non deve lavorare, anzi, al contrario, sostengo l’importanza delle donne in ogni campo della società. Però, è davvero “l’indipendenza” il segreto di una vita matrimoniale felice?

La nostra storia è iniziata in un momento della mia vita in cui io ero ancora una giovanissima donna al primo anno di università. Il mio obiettivo non era, in quel momento, guadagnarmi da vivere da sola. Facevo qualche lavoretto, in biblioteca, per non gravare completamente sulla famiglia, ma il mio impegno principale era studiare e farlo seriamente. Lui, invece, quasi otto anni più grande, aveva già un buon lavoro.

Ci siamo sposati un mese dopo la mia laurea. Avremmo potuto aspettare? Avrei potuto prima cercare un lavoro? Certo, ma ci piaceva troppo l’idea di iniziare la vita insieme, dopo quasi quattro anni insieme, e così abbiamo deciso di intraprendere quel cammino coi mezzi che avevamo. Eravamo convinti del nostro sì. Avremmo fatto qualche sacrificio con un solo stipendio, ma ne valeva la pena. Poco dopo, ero già incinta. E io non avevo ancora un lavoro. Qualcuno, lo so, mi dava della pazza: “Hai fatto tanti sacrifici per studiare a Roma, e adesso torni nel tuo paese, ti sposi e resti incinta prima di mettere a frutto i tuoi studi?

Ovviamente, c’è molto più di questo, ma con i miei soli 24 anni di allora so di aver scandalizzato tanti coetanei. Per noi, però, il matrimonio era un progetto di vita senza data di scadenza, credevamo nel sacramento e sapevamo che Dio ci avrebbe aiutati a mantenere vivo il nostro amore nel tempo. Mi fidavo di mio marito e non dovevo preoccuparmi di “tutelarmi da lui”. Non dovevo correre a trovarmi un lavoro qualunque, perché “chissà, se domani ci lasciamo”. E no, non ho rinunciato ai miei progetti per lui. Vi dirò di più: mio marito è stato il primo a investire, in tutti i sensi, nei miei sogni.

Quando ho trovato l’editrice disponibile a stampare il mio primo romanzo (e noi stavamo per sposarci), dovevo acquistare un gran numero di copie come autrice. Non avevo i soldi, perché ero ancora studentessa fuori sede. I miei genitori facevano già molti sacrifici per mantenermi all’università, io avevo guadagnato qualcosa in quel periodo, ma avevo speso tutto per mantenermi a Roma: non potevo chiedere ai miei quella cifra e io non ce l’avevo.

Il mio futuro marito, senza farmelo pesare, ha deciso di regalarmi l’acquisto delle copie. È stato lui ad acquistare il numero di libri necessario perché l’editore accettasse la stampa. E no, non l’ha fatto per dimostrarmi la sua “superiorità economica”, per tenermi sotto scacco, per ricattarmi in futuro, per assoggettarmi. L’ha fatto perché mi amava e non voleva che rinunciassi per mancanza di fondi.

Appena sposati, in accordo, abbiamo deciso che non era un problema se per un po’ avrebbe provveduto lui a entrambi: io mi sarei presa del tempo per inserirmi nel mondo che amavo, quello del giornalismo e della scrittura e sarei diventata mamma, che era il mio “sogno numero uno”. Volevo che scrivere diventasse il mio lavoro, ma sembrava evidente a entrambi che la gavetta fosse lunga. Se avessi dovuto seguire i consigli del femminismo ideologico avrei dovuto, a prescindere, trovarmi un lavoro qualunque, pur di non accettare l’aiuto di mio marito.

Nell’amore, però, non esistono regole così rigide. Nel nostro caso, andava bene così. In fondo, ce la facevamo. Io volevo provare a diventare una scrittrice davvero, ma servivano tempo, energie. Volevo dedicarmi e provarci. Beh, piano piano, il mio sogno ha iniziato a prendere forma (soprattutto grazie al libro “Sei nato originale, non vivere da fotocopia”, dedicato a Carlo Acutis, uscito nello stesso anno di nascita del mio primo figlio, il 2017, garzie al contatto rimasto con la Casa Editrice dopo il primo libro).

Se avessi dovuto pensare solo ai soldi, a mantenermi “da sola” per principio, quei libri non sarebbero stati pubblicati. Se non avessi potuto fidarmi di mio marito, oggi non sarei realizzata come scrittrice, non avrei 26 libri all’attivo (alcuni scritti da sola, altri a quattro o sei mani), non avrei girato l’Italia, in lungo e in largo per le presentazioni (e tanti di questi viaggi, in terre bellissime, ho potuto regalarli io alla famiglia).

Oggi, quando ripenso alla nostra storia, vedo un disegno in cui non vi è stata alcuna contrapposizione tra sogni personali, matrimonio, figli: tutto si è integrato in modo armonioso con il resto, tutto è andato di pari passo.

Penso che il vero segreto di una relazione sana e sicura non sia “l’indipendenza” (assicurarmi di “poter scappare quando voglio”), ma lavorare per far crescere la comunione (“posso fidarmi di te e insieme costruiamo il nostro futuro, dando ognuno il meglio per l’altro”).

Non voglio dire che in alcuni casi – dove ci sono situazioni di maltrattamento ad esempio – non sia necessario per una donna essere indipendente, così da potersi liberare da una trappola. Non dico che la mia storia sia legge universale. È unica, è la mia.

Dico, però, che ai giovani dobbiamo insegnare che l’amore è saper vivere in comunione e cercare una relazione dove ciascuno possa essere e restare pienamente sé stesso, con tutto il suo pacchetto di sogni da realizzare. A me è successo e vorrei che succedesse a tutti.

Cecilia Galatolo

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Una mail che ha cambiato tutto. La seconda possibilità di Ugo e Paola

La storia insegna che gli opposti si attraggono! Così è capitato a noi. Io sono cresciuta in mezzo alle difficoltà economiche, ma con una famiglia fiduciosa nella provvidenza e negli altri, con un papà dolce e presente e una mamma fragile. Ugo è vissuto in una famiglia solida, il suo papà era per lui un esempio da seguire e la mamma molto dolce; e da loro ha imparato a contare sulle proprie forze.

La nostra storia è cominciata da giovanissimi, quando la vita era un libro aperto sul quale poter scrivere i progetti e i sogni. Paola mi piaceva fisicamente, mi piaceva il suo volto, amavo pettinarle i lunghi capelli e fotografarla quando passeggiavamo. Di Ugo mi aveva attratto la sua sicurezza, i suoi progetti, la determinazione nel perseguirli e la sua solidità di vita.

Ci siamo innamorati e il tempo è volato: dodici anni che ci hanno visti sempre insieme, a condividere tutto, fino al matrimonio, promessa di autonomia e di serenità! Poi sono arrivate le prime crepe ad incrinare questa nostra vita di coppia. Io, Paola, faticavo molto ad accettare la presenza continua dei genitori di Ugo nella nostra famiglia e con la nostra prima figlia. Non lo manifestavo, accettavo tenendomi tutto dentro e soffrivo per la mancanza di rapporti con i miei genitori.

Io, Ugo, vedendola tranquilla, non mi preoccupavo di chiederle cosa ne pensasse del condividere con i miei la nostra vita né se desiderasse qualcosa di diverso per noi. Poi sono arrivati i problemi di lavoro, i licenziamenti, le morti dei nostri papà, la malattia di nostra figlia e poi la malattia di Paola…

Le crepe sono diventate ferite, brucianti, laceranti, che abbiamo vissuto individualmente, ognuno per proprio conto. Ci siamo allontanati sia sentimentalmente che fisicamente. Abbiamo smesso di comunicare se non per ferirci ancora di più, facendo soffrire i figli, spesso presenti ai nostri litigi.

Nel momento più nero, quando l’unica soluzione sembrava la separazione, Paola ricevette una semplice mail, letta quasi per caso, ma che aprì la porta alla speranza. Abbiamo conosciuto Retrouvaille. Ci sono stati donati strumenti per ritornare a dialogare, per ritornare a conoscerci reciprocamente e ritrovare la nostra intimità. Abbiamo ascoltato coppie che, come noi, avevano sofferto e ci hanno raccontato la loro sofferenza e la loro guarigione. Ci siamo resi conto che, lavorando ed impegnandoci, potevamo farcela anche noi.

Ci è stato gettato un salvagente potente dall’alto e con esso una seconda possibilità. Ora siamo qui per testimoniare la speranza! Siamo qui a dirvi che quelle ferite sono diventate cicatrici di cui non ci vergogniamo: sono i segni che la nostra relazione è guarita ed è diventata salda e forte come mai prima.

Siamo qui a dirvi che se ce l’abbiamo fatta noi, potrete farcela anche voi!

Ugo e Paola – Retouvaille Italia

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