La speranza che abitiamo (anche in rete)

Tutto il mondo cattolico è in pieno fermento per l’inizio dell’anno Giubilare. Com’è giusto che sia. In ogni dove sono stati organizzati incontri di preghiera, convegni, testimonianze, conferenze e catechesi. Tutto questo è in preparazione a questo anno di grazia. Pure sul web!

È risaputo che la Chiesa abbia aperto cuore e porte alla cultura e al mondo digitale, utilizzando le risorse di internet con scopi sinodali e di evangelizzazione. A seguito della GMG ’23 di Lisbona è nata La Chiesa ti ascolta. Si tratta di una realtà mondiale e significativa per la Chiesa e per il territorio digitale che hanno accolto la richiesta di Papa Francesco ad essere una “Chiesa in uscita”.

La Chiesa si sta impegnando a creare una comunità di persone che sposano la stessa missione e che spontaneamente annunciano con fede e con la propria creatività il messaggio evangelico alle innumerevoli persone presenti in rete, abitando i social in modo consapevole e portandoci la Chiesa. Dove sta l’uomo deve stare la Chiesa (mons. Lucio Ruiz, segretario del Dicastero della Comunicazione).

Tale mandato è considerato così importante da entrare nel pieno flusso missionario della Chiesa che ha destinato due giorni, il 28 e il 29 luglio 2025, al Giubileo dei missionari e degli influencer cattolici di tutto il mondo.

Ma torniamo a noi! Sabato scorso ho avuto il piacere di partecipare al webinar con il Pro-prefetto del Dicastero per l’Evangelizzazione, mons. Rino Fisichella, che ci ha illuminato riguardo al significato profondo del Giubileo e ispirato su come possiamo essere autentici missionari di speranza -anche- attraverso i nostri social media.  

Il leitmotiv era, chiaramente, la speranza, essendo questo il tema centrale del Giubileo: “Pellegrini di Speranza“, tema che richiama l’attenzione sull’importanza del pellegrinaggio come metafora del viaggio della vita, un percorso di speranza verso la redenzione e la pace interiore.

È necessaria la speranza?“, “Cosa c’è dietro ad essa?“, “È vero che la speranza non delude?“, queste sono le tre domande che hanno animato l’intervento di mons. Fisichella. Le risposte possono sembrare scontate e semplici: ““, “Dio“, “ovviamente sì!“.

Ma la verità è che se crediamo di sapere tutto sulla speranza, abbiamo ancora un viaggio lungo da fare. La speranza è dà Dio. Il Giubileo vuole condurci a Lui. È necessario capire nella propria vita cosa vuol dire avere lo sguardo inchiodato alla speranza nonostante tutto e ad essere animati da lei. Serve essere testimoni visibili e credibili della speranza che è in noi e occorre assumersi la responsabilità di tenere viva la speranza in noi e attorno a noi.

Questa è la responsabilità dei cristiani in un mondo disperato. Talvolta, esso si nutre di una speranza illusoria creata da mani d’uomo. La speranza non dipende da noi, ma se in noi è come una fiaccola accesa, per opera dello Spirito Santo, allora dobbiamo custodirla e portarla lì dove non c’è luce, perché “il proposito della speranza è la salvezza e la salvezza è universale” (mons. Fisichella). Universale come Dio, universale come la Chiesa, infatti è la Chiesa il mio soggetto che spera.

Ma come è possibile questo? Il Vangelo e la bellezza sono il linguaggio universale della speranza.

Buon cammino a tutti e a tutte!

Francesca Parisi

Casa è Chiesa (l’accento non è un errore)

Dalla Genesi all’Apocalisse, la Bibbia è piena di riferimenti all’amore sponsale che aiutano i lettori a comprendere in modo autentico la relazione amorosa tra Dio e il Suo popolo. Non sono una biblista, quindi concludo qui la mia parentesi esegetica, ma mi apro alla condivisione di una verità indiscutibile: con il matrimonio la nostra famiglia, quindi la nostra casa, diventa una piccola e primitiva Chiesa.

Sappiamo che Chiesa vuol dire “riunione dei fedeli”, potremmo dire che è l’assemblea degli assemblati a Cristo, nientemeno che il Capo della Chiesa! Quando Dio creò la luce, l’universo, la terra e l’uomo, accanto a lui mise la donna «e i due saranno una carne sola» (Gen 2, 24). Il matrimonio, in quanto sacramento, riconferma questo amore “tra tre” e rende la famiglia una chiesa in cui Dio è perpetuamente esposto; in cui gli sposi adornano il loro altare per consacrare e offrire quell’amore generativo unico del Creatore e riversato sugli sposi (con “altare” non mi riferisco agli altarini che abbiamo nelle nostre case con il centrino, i fiorellini e l’immagine di qualche santo… ma al letto matrimoniale!) e manifestano al mondo circostante il volto di Dio-Amore, la passione per la vita e infondono la concretezza della Parola. 

In quanto battezzati, tutti i fedeli vengono innestati in Cristo sacerdote, re e profeta e diventano partecipi della Sua vita e della Sua missione; in più, gli sposi, «chiamati a celebrare nella loro relazione questo amore unitivo di Gesù con la Chiesa […] esercitano il loro sacerdozio battesimale dentro il vivere normale di una casa, che diventa Chiesa domestica nella nuova modalità dell’essere una sola carne» (Battesimo e liturgia della famiglia, di mons. R. Bonetti), ma non mi dilungo su questo, anche perché Antonio e Luisa De Rosa hanno largamente e validamente espresso cosa vuol dire essere “Sposi, re nell’amore”, “Sposi, sacerdoti dell’amore” e “Sposi, profeti dell’amore”.

La casa è dunque un luogo umano e divino, se ci rendessimo conto di questa grandezza ogni gesto e ogni situazione sarebbero sotto una nuova  luce; lo sguardo sul nostro compagno di vita/sulla nostra compagna di vita sarebbe più acuto e limpido; la vicinanza dei figli che sono stati donati e quelli che ci sono stati donati e “tolti” troppo presto, rinnoverebbe in noi una tenerezza sempre nuova; l’attesa e il futuro diventerebbero più sostenibili… o, perlomeno, terremmo la casa più in ordine e pulita. Scherzo! 

A volte mi chiedo: ci sentiamo sacerdoti e custodi della nostra chiesa domestica? 

Francesca Parisi

Essere e non fare… la moglie!

Quando ci si sposa, si inizia un’avventura tutta nuova, una di quelle di cui si sente parlare grazie alle testimonianze, grazie ai corsi prematrimoniali, ai libri, ai blog, alla Bibbia e alla Chiesa, pertanto si inizia a familiarizzare con l’idea del matrimonio, ma la realtà dei fatti… non è affatto scontata!

Quando mi sono sposata, quasi due anni fa, sapevo cosa desideravo e cosa dovevo fare e non fare per mantenere vivo il matrimonio: collaborazione, passione, complicità, sincerità, dialogo, amicizia, perdono, custodia dell’altro, sono virtù che alleniamo e apprendiamo in parte durante il – buon – fidanzamento. Ma, per quanto mi riguarda, non è stato sempre ovvio e spontaneo praticare queste virtù nella quotidianità. Confrontandomi con alcune persone, ho notato che per più di qualcuno il primo periodo matrimoniale è stato vissuto come una montagna russa di emozioni, positive e negative, non per problemi della coppia in sé, ma per tutto ciò che la circonda: per alcuni era la famiglia del partner, per altri la questione economica, per altri la mancata capacità di gestire gli spazi personali, la convivenza, la lontananza dai familiari, insomma tutte situazioni di cui senti solo l’odore durante il fidanzamento e che assapori dopo il “sì, lo voglio”.

Anche io ho vissuto una piccola ma significativa difficoltà e oggi voglio condividerla con voi. La convivenza con mio marito, per motivi logistici, è iniziata più di un mese dopo il matrimonio, eravamo a 730 km di distanza. Trovata casa, in affitto, quindi consapevole del fatto che non fosse la nostra; nel posto in cui lui lavorava, cioè in un luogo nuovo, a me sconosciuto e che non avevo scelto; tra persone estranee e alla ricerca fallimentare del lavoro per cui ho studiato, una macchia di malinconia ha iniziato a pervadermi l’animo. Questo mi faceva infuriare, perché notavo come mi stava rovinando quello che doveva essere il periodo più felice della mia vita! A gravare su questo, c’era la sciocca pretesa della tanto idolatrata indipendenza economica. Il fatto di non lavorare, per me, significava stare sotto lo schiaffo di qualcuno. Mio marito lavorava regolarmente, ogni giorno, 8 ore al giorno, mediamente. Come si dice nel gergo comune, “portava il pane a casa”.

E quindi io cosa dovevo fare? Mi svegliavo presto, preparavo la colazione e, salutatolo, iniziavo con le faccende domestiche: sistemare gli scatoloni, pulire casa, lavare, stirare, cucinare, fare la spesa, insomma, nulla di straordinario, cose che (quasi) tutti fanno quotidianamente. Finito tutto, in attesa del ritorno di mio marito che doveva trovare una super moglie, un super pasto e una super casa pulita e profumata, avevo sempre un vuoto dentro e un nodo alla gola. Ogni tanto avevo pensieri tipo “non è per questo che mi sono rotta la schiena sui libri” e “è il mio dovere, lui guadagna, io sistemo casa”.

Stavo male e mi vergognavo di condividerlo a mio marito. Frustrazione? Tristezza? La radice di quel malessere era un’altra: stavo facendo la moglie ignorando di esserlo. Infatti, mi comportavo più come una colf assunta da lui (che era ignaro di tutte queste paranoie) che come una moglie. Avevo inconsciamente alterato il significato del servizio trasformandolo in lavoro, preda della logica del do ut des, quindi “lui lavora (porta lo stipendio a casa), io lavoro per lui (do il mio contributo perché mai mi si dica che sono una nullafacente)”.

La teoria appresa prima dello scambio degli anelli e l’esperienza del fidanzamento, sono stati spazzati via dalla logica del fare in connubio alla logica patriarcale: più cose fai, più meriti attenzioni, riconoscimenti, amore e cura, ma se non lavori, se non produci e se non hai uno stipendio, non hai voce in capitolo; se ti serve qualcosa, devi chiedere il permesso, devi chiedere per favore. Mi ci sono voluti due mesi, tanto dialogo, tante coccole e tanta preghiera per imparare come camminare lungo questo sentiero e di quale equipaggiamento avevo bisogno imparare a essere la moglie di cui mio marito ha bisogno e di accogliere con pace il susseguirsi delle cose.

Ho avuto modo di sperimentare il significato profondo delle parole evangeliche «costruire la casa sulla roccia», una roccia itinerante che non si fossilizza e non è mai statica, perché la roccia è Cristo, che e la casa è il “noi” del matrimonio; così ho iniziato a concepire ogni cosa come un atto di cura e amore per lui, perché è colui a cui ho scelto di donare la mia vita e non “per lui, perché lui lavora e mi dà a campare”; così come lui, me lo ha rivelato solo dopo, ha sempre concepito il suo lavoro come il servizio e la missione per me e per la nostra famiglia. È incredibile vedere come un semplice modo di intendere le cose possa cambiare radicalmente il modo di viverle. Mi stupisco ogni giorno e lodo Dio per questo, perché tutto, se fatto con amore e per l’Amore, diventa sacro, e non ci sono stipendi e titoli che possano esserne all’altezza!

Francesca Parisi

Amarsi: una scelta consapevole

“Amarsi è una scelta quotidiana”, era una delle frasi sentite più spesso da quando io e il mio attuale marito abbiamo iniziato a interessarci alla vita matrimoniale. Era diventata un mantra ed era così in loop nella mia testa che anche io lo dicevo… pur non capendone appieno il senso.

Quando mi fermavo a riflettere dicevo razionalmente tra me e me che, in realtà, non è possibile scegliere di amare. L’amore è un sentimento che viene da dentro e che non puoi controllare, è lui che guida, è spontaneo. Puoi scegliere di essere fedele, di rispettare, di perdonare, ma non di amare. Capite dov’è la falla? Io l’ho capita dopo un anno di matrimonio (Bonjour!).

Quel mio ragionamento, alquanto comune, portava in sé qualcosa di incoerente; ci dice che “l’amore c’è finché dura”, in totale opposizione all’amore stesso la cui sola parola “a-mors”, cioè “senza morte”, basta per descrivere che cos’è l’amore; in più riduce l’amore a mero sentimentalismo che si aggiunge alle altre cose: fedeltà, passione, misericordia, serenità.

Ho letto libri, ho ascoltato catechesi sull’amore, ho provato a capirne l’essenza contemplando Dio, che è Amore, ma solo nel matrimonio ho avuto la grazia di iniziare a toccare con mano cosa vuol dire amare consapevolmente e sceglierlo ogni giorno. Dopo un anno di matrimonio l’enfasi iniziale della vita nuova passa, la magia del “vissero felici e contenti” diventa impegno e responsabilità e tutte le “prime volte” non sono più le prime, giustamente e lode a Dio per questo, anche se ammetto che lo stupore e le sorprese non finiscono di certo.

Provo a utilizzare due immagini per descrivere ciò: lo sposo, o la sposa, diventa pane quotidiano: essenziale, nutriente, su cui puoi contare, frutto del lavoro dell’uomo, che mette insieme fatica, attesa, dedizione e delicatezza. Se Cristo Gesù ha usato il simbolo del pane per parlare di Sé ed essere costantemente presente per la Sua sposa, così anche noi per il nostro sposo, la nostra sposa; la seconda immagine è quella di un albero: le radici, che sono l’amore, ben salde nel terreno alimentano i rami che ne danno pienezza, questi sono: pazienza, complicità, passione, fedeltà, perdono, consolazione… tutte queste cose non sono in aggiunta all’amore ma sono le “figlie”.

Ma un albero non vive in eterno e spontaneamente, ed ecco che entra in gioco la scelta: curare il terreno, potare i rami, sradicare le erbacce, difenderlo da parassiti e tarli, questa è la cura necessaria affinché l’albero possa crescere vigoroso, possa essere riparo e resistente alle tempeste. Così, ogni giorno, scelgo di aver cura di mio marito, di apprezzarne la bellezza e la fragilità, di allontanare da lui ciò che lo può ferire. Si può fare tutti i giorni? Sì, ogni giorno fino alla fine, è la promessa degli sposi. È semplice? No, a volte costa dare la priorità all’altro. È spontaneo? Assolutamente no, è una scelta consapevole. L’amore è maturo e porta buoni frutti quando abbiamo la consapevolezza dell’amore.

Francesca Parisi

Amore mio, diamoci pace!

Arrivare al “sì, lo voglio” vuol dire arrivare a contemplare la nostra esistenza in una nuova dimensione: «i due diventeranno una sola carne». Tutto diventa un “noi”… ma “io” che fine faccio?

Alcune volte mi è capitato di imbattermi in persone che non contemplano la vita coniugale perché hanno paura di perdere sé stesse, di dover rinunciare alla propria vita e alla propria libertà. Lo definiscono un “sano egoismo” e lo associano ad un – forse a tratti smisurato –  amor proprio.  Lo confesso: c’è stato un tempo in cui anche io ero una di quelle persone. La domanda “ma io che fine faccio?” me la son posta sul serio! La risposta, avuta anni dopo, mi ha sbalordita. Solo dopo aver conosciuto l’amore vero, verso Dio prima di tutto e poi verso me stessa, mi sono resa conto che:

  • 1) amore ed egoismo non sono condizioni associabili,
  • 2) che l’egoismo sano non esiste e
  • 3) che la fine che faccio non è altro che l’inizio della vita eterna.

Amarsi per amare, questo è uno degli insegnamenti fondamentali di Gesù Cristo. Sull’amore sappiamo tante cose, sappiamo che, come scriveva san Paolo, l’amore è paziente, è benigno, non si vanta, non cerca il proprio interesse, tutto perdona, tutto spera e tutto sopporta. Bellissime parole, straordinarie e dolorose allo stesso tempo nella vita vera. Amare, amarsi e lasciarsi amare come Dio comanda raggiunge il suo apice nel matrimonio, quando l’amore diventa una costante quotidiana. Non ci sono petali che cadono dal cielo e violini, certamente, ma ci sono occasioni su occasioni per compiere l’amore. Stare sul pezzo non è sempre facile e non si tratta mai di spontaneismo, amarsi in modo maturo è una scelta che necessita volontà e cuore, perché come mi è sempre stato detto: “ad amarsi si impara” e si impara praticando l’amore volta per volta.

Sulla rettitudine di cuore e di intenzioni possono gravare tante insidie: la stanchezza, i problemi economici o di qualsiasi altra natura, la ciclicità ormonale, i propri malumori, i sensi di colpa, la ricerca di appagamento dei propri bisogni e, guardando alla mia esperienza personale, aggiungerei anche “i postumi di una vita senza Dio”, dove c’era tutto, ma solo a un livello superficiale; dov’ero toccata e persuasa dalla logica del mondo del “fare per fare” e non del “fare per amare”. La coppia è il primo bersaglio di ciò, in ogni suo ambito.

Ma come affrontare tutto questo? Insieme. Sembra una cosa da Baci Perugina ma è solo l’unica soluzione possibile. Si allontanano dal cuore quei logoranti pesi quando, faccia a faccia, possiamo dire Amore mio, diamoci pace!. Gesù diceva «vi lascio la pace, vi do la mia pace», così noi sposi, in quanto sacerdoti dell’amore, ci lasciamo quella pace salvifica che comporta alla riappacificazione con la nostra carne, al guardare con compassione le ferite sanguinanti del passato e a farci dono reciproco di quell’amore che «tutto copre, tutto crede, tutto spera e tutto sopporta», nonostante quella stessa carne ferita ma redenta e benedetta.

Quello che in questa Quaresima mi rimbomba dentro contemplando la Passione di Cristo è “amo tutto di te”. Dio ama tutto di noi, nonostante tutto. Questo è l’amore che, ricevuto, è necessario riversare nel cuore di colui/colei cammina con noi verso la meta.

Francesca Parisi