Rifulse nei nostri cuori

Sono seduta sul divano e ammiro le luci del Natale. Emozionati, per la prima volta quest’anno siamo tornati a casa pieni di buste e ci siamo messi insieme ad abbellire la nostra casetta. Due cuori, un bilocale, candele e tante luci. Una volta sola in casa mi sono guardata intorno, più vicino a me ho osservato l’albero, il presepe e le lucine che illuminano i mobili e le fotografie, poi ho rivolto lo sguardo fuori e ho visto l’alberello sul balcone, anche lui in festa, e tutto il quartiere, le case di vicini che non conosco, tutte illuminate. Sembra proprio che il Natale sia la festa della luce, anche se ho visto tanti volti spenti in giro per i negozi, ansiosi di comprare i regali e scocciati di dover rispettare la fila in cassa. Sarà che quest’anno vivremo il nostro primo Natale insieme e quindi sono felice anche solo di comprare una pallina e fare una fila chilometrica in cassa, ma poi mi chiedo, perchè illuminiamo tutto se poi dentro siamo spenti? Sembra l’incipit della classica morale pre-natalizia, che noia, penserete. Ma, ragionandoci bene, mi dico che no, non si tratta di semplice morale, ma, ancora un volta di osservazione della realtà, senza giudizio. Vorrei essere solo un piccolo specchio della vita che mi sta intorno e scrivere qualcosa che possa aiutarmi ad assaporare, più che a comprendere, il senso di quello che faccio. Sicuramente bisogna tener conto del consumismo, dello sfarzo, dell’apparenza, ma credo che possiamo andare oltre e ritornare alla domanda, perchè illumiamo tutto? 
Perchè in mezzo alla quotidianità, alle tragedie, alle violenze, ai litigi, all’odio, al rancore, all’indecisione abbiamo bisogno di luce. Abbiamo bisogno di una luce prorompente che illumini i nostri passi. Chi è miope come me lo può capire molto bene, quando la sera è buio puoi anche mettere gli occhiali, ma l’indecisione caratterizzerà sempre il tuo passo. L’unica cosa che potrà aiutarci davvero sarà un bel fanale o la torcia dello smartphone, a quel punto possiamo procedere oltre quello scalino con un po’ di sicurezza in più. Diciamo allora che quando è tanto buio non bastano gli occhiali. Quando non capisco dove andare, quale università scegliere, quando mi chiedo se quel ragazzo è la persona giusta per me, se è meglio perdonare quel torto, se decidere di cambiare città o meno, se continuare ad amare nonostante tutto, se compromettermi, se mettermi in gioco, se buttarmi… ho bisogno di una luce in più. Le tenebre della vita sono tante, ogni giorno mi informo sul mondo e vedo tanta tenebra. A volte, senza andare troppo lontano, proprio nel nostro cuore regnano le tenebre, nel nostro sguardo non si intravede nessuna luce. Se guardiamo negli occhi i nostri fratelli più piccoli, i nostri nipoti, i bambini che incontriamo a fare spesa o quelli che accudiamo, è presente quella luce prorompente. “Il Natale è fatto per i bambini”, questa la frase che si sente molto spesso sotto le feste, ed è senz’altro vero. Probabilmente la magia del Natale, dell’attesa, della sorpresa è propria dei bambini. Ma non credo che sia riservata solo a loro, no. E qui viene il bello. Viviamo come se qualcuno avesse spento la nostra luce interiore, quella che era lì quando eravamo piccoli, era bella lucente, o “luccicante” come direbbe la mia sorellina. Credo che Dio ce l’abbia regalata di default alla nascita. Che fine ha fatto?
La verità è che il tempo che precede il Natale ci mette in crisi per questa domanda qui. Perchè viviamo senza aspettare nulla. Non ci aspettiamo più nulla dalla vita, da quella persona che è sempre la stessa e da noi che siamo così impauriti e rigidi ai cambiamenti della nostra storia personale e universale. Peccato però che se non ci aspettiamo più nulla, non viviamo più. Se non ci aspettiamo più nulla dalla persona che è diventata nostro marito/moglie, non viviamo più quella relazione. La rottura delle relazioni non è sempre da ricercare in tradimenti o grossi errori, a volte basta pensare che lei/lui non cambieranno mai per far morire quella relazione. Se non ci aspettiamo più nulla dalla vita, vuol dire che abbiamo perso la voglia di vedere che cosa c’è dietro il prossimo angolo, perchè abbiamo paura e preferiamo rimanere bloccati nelle tenebre del presente, che tutto sommato sappiamo come funzionano e ci possiamo mettere comodi. Già, ci mettiamo comodi sul nostro presente e pensiamo di avere così in mano il futuro, dal quale però non ci aspettiamo nulla. Che futuro è? E come viviamo il nostro presente? E, visto che credo nel valore delle parole e spesso il loro significato profondo risiede nell’etimologia, apro il vocabolario e scopro che aspettare proviene dal latino “aspectare”, “guardare”, “stare rivolto verso qualche parte”. Torna sempre tutto. Infatti non guardiamo più nulla e non stiamo rivolti verso nessuna parte. Il verbo “aspettare” non rientra nelle nostre azioni quotidiane (poi un giorno cercherò di capire anche perchè i vecchietti che dovrebbero godersi la pensione non riescono a rispettare le file in cassa, ma questo è un altro discorso). Abbiamo lo sguardo ad altezza tangenziale, computer, cellulare. Non pretendiamo di alzarlo leggermente più in su e non ci concediamo il piacere di rivolgerlo verso gli occhi di chi abbiamo accanto. 
Il mio invito per questo Avvento, per quest’attesa che ci porterà al Natale, è di vivere il più possibile l’esperienza dell’attesa quotidiana. Sicuramente l’attesa più importante per un cristiano sarà quella della venuta di Cristo, sarà la Vita Eterna, ma ricordiamoci che il valore di questa vita è inestimabile e unico. Oggi ti aspetto a casa e provo a ritrovare nei tuoi occhi la luce del giorno del matrimonio, proviamoci tutti. Oggi cerco nella stanchezza del tuo sguardo quella luce di bambino. Oggi benedico l’attesa in cassa perchè mi dà l’occasione di osservare ciò che ho accanto e magari in un sorriso o in un volto triste posso assaporare la vita. Oggi cerco di aspettarmi di più da me, cerco di impegnarmi ad amare oltre ogni misura me stessa, gli altri e la mia vita, perchè la misura dell’Amore è amare senza misura (Sant’Agostino sempre sul pezzo). Oggi provo ad aspettarmi quello che gli altri sanno darmi, senza pretendere nulla: questo è il segreto della relazione, aspettare e accogliere ciò che gli altri sono, non ciò che gli altri sanno. Oggi cerco di aspettarmi qualcosa di nuovo da questa vita, che fosse anche solo riscoprire la gioia di svegliarmi e saper abbracciare chi ho accanto (che non è poco, chiediamoci l’ultima volta che l’abbiamo fatto con sincerità). Oggi aspetto che questa luce rifulga nel mio cuore e non solo nel mio salotto, perchè possa illuminare i miei passi e forse anche quelli di qualcun altro.

«E Dio, che disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo» (2Cor 4,6).

Federica Di Vito

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Stacci

“Amare è dare ciò che non si ha”. Abbiamo ascoltato insieme Benigni e ho provato ad ascoltare con semplicità, come spesso sai fare meglio di me. Proprio come da bambini, quando ancora non tutto ci appare confuso. Ti do ciò che non ho, ciò che non riesco. Dunque amare significa snaturarsi? Si dice di essere se stessi in amore, perlomeno in amore, aggiungerei. Essere se stessi. Una mente molto schematica quale è la mia, ragiona così, ho in testa una lunga scaletta da rispettare, un ordine, una sequenza: prima si sta bene con sé, prima ci si ritrova, poi ci si dona, ci si concede, si ama. Ma il passare dei giorni, degli eventi, del tempo, mi induce a pensare che forse è bene mischiare un po’ tutto. Siamo composti da minuscoli pezzetti che spesso lasciamo andare con lo scorrere delle giornate, con le persone incontrate, con i compromessi a cui scendiamo, con i sentimenti che non proviamo, con i sogni che tralasciamo, con le emozioni che non dichiariamo. Lasciamo andare dei pezzetti di noi. E se da un lato a volte questo ci fa scoprire l’essenza, ciò che rimane dopo aver potato i fronzoli, dall’altro spesso conferisce alla nostra esistenza un senso di spaesamento per il quale non riusciamo più a ritrovarci. E che cosa ci rimane? Il lavoro che facciamo, la strada che percorriamo tutti i giorni, le faccende da sbrigare, i nostri grandi progetti giornalieri da portare avanti. “Che lavoro fai?”, “quanti anni hai?”, “sei impegnato?”, “che genere di film preferisci?”, “che cosa leggi?”. Domande. Sappiamo a volte solo queste di risposte e, sicuri di noi, tentiamo di aderire alla forma, al contenuto che più ci piace. Allora rispondiamo senza approfondire, chiediamo senza voler sapere. Ci stiamo senza starci. Perchè abbiamo paura di perdere altri dei nostri pezzetti per strada e di non riuscire mai a riunire tutti quei punti disparati per formare finalmente “noi stessi”. Per essere. Ma essere non è vivere. E vivere non è stare. E stare non è “starci”. Stare alla vita, alle scommesse che essa porta con sé, alla bellezza da scoprire e alle cadute da affrontare. Solo standoci si è se stessi. E come si fa a trovare prima la nostra identità se in realtà non ci stiamo? Non ci doniamo? Non ci concediamo… e non amiamo? Tutto insieme. Tutto un insieme di vorticosi giri che la vita ci fa fare per insegnarci. “Historia magistra vitae”, (Ah, le reminescenze liceali! Curioso come funzioni la memoria, come ci ponga di fronte conoscenze forse una volta interiorizzate solo per superare la sufficienza e ora tramutate in ammonimenti), sì, diventa maestra la nostra storia quando si insinua tutti i giorni nelle nostre azioni e nei nostri pensieri. Quando ti sussurra di buttarti, quando ti dice di provare ad amare perchè anche se ci rimani fregato ti sei guadagnato un pezzetto da aggiungere a “te stesso”. Probabilmente ci siamo ritrovati tutti ad un bivio ad un certo punto della nostra relazione con l’altro: te sei così, io invece sono così. 
E concentrati sul cambiare l’altro non pensiamo mai che forse il lavoro più grande e più importante da fare è su noi stessi. Vedi Federica? Devi imparare a pensare anche a te, mi risuona così la tua voce. Ritorna sempre quel “noi stessi”. D’altronde con noi passiamo molto tempo e il rischio è di non accorgersene nemmeno. Il rischio è passare una vita a cercare l’altro, a cambiare l’altro, a riempirci con l’altro, senza accorgerci che il nostro compagno principale di vita siamo proprio noi. Quali domande faresti a te stesso? Forse sono molto diverse dalle domande elecante prima. Forse avresti il coraggio di chiederti come stai, come ti senti, che cosa provi, se vuoi starci, che cosa pensi, che cosa sogni. E facendoci queste domande costruiamo ogni istante un pezzetto nuovo, oppure ritroviamo quel pezzetto perso per strada chissà dove e chissà perchè. Importante è scoprire dove e perchè e da lì ricominciare, da lì ritrovarsi. Per questo amare è dare ciò che non si ha, perchè il più delle volte non sappiamo di avere dentro di noi cose sconosciute, misteriose, splendide, spaventose e brillanti. Ti do quello che scopro dentro di me con te. Scopro dentro di me che cosa si cela dandomi a te. Diventi il mio alleato preferito, colui al quale svelo il mistero che Dio ha nascosto in me, la bellezza che custodisco. Allora quando vorrei leccarmi tutto il giorno solo le mie ferite, scopro anche le tue e ti do la mia comprensione. Se non capisco la vita, guardando la tua forse capisco meglio che cosa desidero nel profondo. Se non ho la fede, camminando con te la cerco.
L’amore non è mai scartato. L’amore che diamo rimane. L’amore è donativo e mai riempitivo. 

“Sono un uomo ferito.

E me ne vorrei andare
E finalmente giungere,
Pietà, dove si ascolta
L’uomo che è solo con sé. 

Non ho che superbia e bontà. 

E mi sento esiliato in mezzo agli uomini. 

Ma per essi sto in pena.
Non sarei degno di tornare in me?

Ho popolato di nomi il silenzio.
[…]
Dio guarda la nostra debolezza.

Vorremmo una certezza. 
[…]
Non ne posso più di stare murato
Nel desiderio senza amore.”
 
Giuseppe Ungaretti, La Pietà

https://www.youtube.com/watch?v=MqoANESQ4cQ
(se volete leggete l’articolo con questa musica di sottofondo, la poesia tassativamente)

Federica Di Vito

Articolo originale

L’amore non è una cosa che abbiamo inventato noi.

Da febbricitante credo si scriva con più scorrevolezza… e poi il calore del pc mi scalda. Quindi tra una coperta ed un tè caldo scrivo. La frase del titolo si è impressa nella mia mente da quando ho piacevolmente scoperto che la fisica è tutt’altro che una disciplina fredda e sterile grazie al film “Interstellar” (avevo questo presentimento quella volta che superai la sufficienza in fisica al liceo, ma questa è un’altra storia).
Ho sempre intuito che di certezze non ne abbiamo poi così tante, ma durante la visione di questo film mi è sembrato che la terra su cui cammino tutti i giorni cominciasse velocemente a sgretolarsi. Impossibile non domandarsi da dove veniamo, dove andiamo e che ci stiamo a fare qui. Ma soprattutto quanto è bello lo spazio? Beh, quest’ultima domanda in realtà non c’entra nulla con le grandi questioni esistenziali, ma guardare quelle immagini mi ha ricordato l’esperienza dello snorkeling: stai lì nell’acqua e ti avvolge solo il silenzio, non riesci nemmeno a sentire i tuoi pensieri. Buttati in mezzo ad una realtà a noi sconosciuta immediatamente si fa strada dentro di noi un sentimento chiaro, nitido, definito e bellissimo: “quanto siamo piccoli”. Insomma, nelle nostre vite quando sosteniamo un discorso in cui crediamo dando grande prova di eloquenza non ci sentiamo poi così piccoli. Ci viene da pensare che tutto scorre liscio. Mio fratello, durante una delle tante nostre fitte chiacchierate socio-psico-religio-esistenziali, mi ha detto che ci sembra che tutto scorra tranquillo perchè secondo le nostre personali categorie tutto va secondo i nostri piani. Le regole che ci siamo creati mentalmente filano dritte perchè si applicano alla realtà minuscola che ci siamo ritagliati in un vasto spazio di domande e dubbi. Ci sono momenti in cui guardiamo la nostra realtà e diciamo “tutto scorre”. Poi spesso la vita cambia le regole, oppure ci confrontiamo con qualcuno che ne ha di diverse (è necessario, è fondamentale trovarsi qualcuno con regole diverse, sennò viviamo una realtà ancora più limitata a noi stessi) ed entriamo in paranoia. Dove sono finite le nostre categorie? Loro ci sono, ma devono adattarsi, devono in un certo senso riprogrammarsi. Il nostro cervello è disposto quindi a collaborare con il cambiamento, ma, in noi, nella nostra parte più profonda (si può chiamare in tanti modi… a me piace chiamarla “anima”), deve scattare qualcosa. Non è facile decidere quando debba scattare questo qualcosa, ma ci sono delle occasioni privilegiate: quando, cioè, ammettiamo di essere piccoli, finiti. Quando lasciamo dei pezzi della nostra intelligenza, quando ci affidiamo. Che sia nel bel mezzo dell’oceano o dello spazio, ci serve un ambiente estraneo, ci serve un compagno di vita che ci fa vedere che non abbiamo sempre ragione, ci serve un Qualcuno che è Altro da noi. Ci serve ribaltare le nostre categorie. Tutto questo non per spiegare… ma per vivere. Quando sembra tutto svanire, quando l’acqua non ci fa vedere molto chiaramente chi abbiamo di fronte o lo spazio è troppo vasto per poterlo avvolgere tutto con lo sguardo, si prova una strana sensazione di chiarezza. Quasi non ci fa più spavento nulla. Tutto è un po’ ovattato, un po’ indefinito, ma non abbiamo più paura. Spesso l’unica cosa che ci fa veramente paura è il dover controllare sempre tutto, non dovere mai abbassare la guardia. Per questo quando ci abbandoniamo allo scorrere del tempo e della vita proviamo un senso di eccitazione. Superiamo quel limite che ci spaventa. Ma stiamo pur sempre parlando di sensazioni che per definizione sono di passaggio, non sono permanenti. Allora è tutto una sensazione? Il tempo, il peso, la nostra altezza, la nostra intelligenza, l’età? Questa è la domanda che la fisica mi ha posto (non sono una grande studiosa di fisica… forse sarebbe più corretto dire le quattro nozioni che ho imparato da questo film, ma suonava meglio, siate misericordiosi, ho anche la febbre…). Abbiamo incasellato ogni cosa in belle categorie inventate da noi? Forse abbiamo reinventato la realtà. Insomma, nemmeno l’orario è una cosa fissa. Come lasci il tuo Paese, ma che dico, la tua città, già le categorie che per una vita hai pensato fossero le uniche vere e giuste cominciano a traballare. E poi c’è l’amore. L’amore? Oh l’Amore non è una sensazione. E nemmeno un’invenzione. Non fa parte di un processo evolutivo e sfugge con facilità alla nostra logica di incasellare tutto. Credo che utilizzi i mezzi meno logici per manifestarsi e che si sveli nel silenzio e nel nondetto. L’amore non ce lo siamo inventati noi, l’amore prescinde dalle nostre categorie. L’amore non è una sensazione e nemmeno un’invenzione, l’amore di chi si sceglie, di chi combatte e lotta, di chi non deve mettersi in mostra per dimostrare, l’amore di chi fa degli errori, l’amore di chi chiede perdono, l’amore di chi vive un dramma, l’amore di chi affronta un dolore, l’amore di chi c’è sempre e l’amore che supera la morte; questo non deve farci paura.

Federica Di Vito

dal suo blog Il peso specifico delle parole

Dobbiamo essere coraggiose

Questa è la frase che è scivolata velocemente fuori dalla mia bocca parlando al telefono con la mia testimone di nozze. “Dobbiamo essere coraggiose”. Non perchè siamo delle eroine e nemmeno perchè dobbiamo perseguire degli obiettivi particolari. Guardando lei che sta per concludere il tempo di attesa per abbracciare la sua bambina, guardando mia cugina che deve stare a riposo per preservare la vita che germoglia dentro di lei, guardando le mie sorelle che si fanno in quattro per accogliere amici, parenti in casa loro e con una sola telefonata sanno farmi sentire la loro vicinanza, guardando mia madre che ha l’umiltà di imparare ogni giorno l’arte di essere moglie e madre, ho guardato nella loro anima. Guardare nell’anima, nel loro profondo e leggere tanto coraggio.
Noi siamo bombardati ogni giorno da cose “stravolgenti” che nel bene o nel male vanno a toccare il nostro stomaco, come se dovessimo essere attraversati da uno shock elettrico per smuoverci dal nostro torpore. Non cerchiamo più niente che tocchi il nostro cuore e la nostra anima. Anestetizzati da immagini forti e catastrofi di vario tipo pensiamo che l’eroismo appartenga solo a determinate categorie di persone e abbia limiti ben definiti. E allora piano piano scivoliamo in una vita che non fa spazio all’eroismo nelle piccole cose.
Quest’ultima parola mi ricorda quanto fosse stato incomprensibile per me durante le superiori il “piccolo” della poesia pascoliana. La sua “sperduta piccolezza” non era, a parer mio, degna della poetica che si affacciava al Novecento. Non ho alcuna competenza professionale per fare una lettura analitica di Pascoli, tuttavia, oggi semplicemente lo guardo con occhi diversi, occhi che si riflettono nel suo sguardo che vede presenza dove io non la vedevo.
Uno sguardo che riflette la fanciulezza che c’è in ognuno di noi senza essere banale, ma, al contrario filtrando la straordinarietà nelle piccole cose. E che cos’è la straordinarietà se non la vetta più alta dell’eroismo?
Allora tornando al punto di partenza, forse dobbiamo tutti essere coraggiosi nella nostra vita, ma in particolare l’elogio all’eroismo in questo tempo siamo chiamate a scriverlo con la nostra vita, noi donne.
Viviamo in una società che ci impone, consciamente o in maniera inconscia, di essere in tanti modi: donne in carriera, donne sexy, donne di successo… e punti di sospensione, riempiteli come meglio credete. In sé, questi aggettivi non hanno nulla di male. Ma vorrei leggere un po’ più fondo, leggiamo nell’anima delle cose. Forse l’eroismo che la società ci chiede non ha proprio nulla di straordinario. La donna deve essere il più possibile simile alle modelle in copertina. Deve essere disponibile a lavoarare seguendo tempi ed orari che non rispettano la sua vita biologica. Si sente obbligata a mettersi subito a dieta dopo una gravidanza e non è completamente libera di guardare quei rotolini in più e pensare che ha appena preso parte al miracolo infinito della vita. Deve trasformarsi nell’oggetto sessuale più versatile possibile agli occhi dell’uomo e non deve sentirsi desiderata e bella, quando la cura di sé diventa desiderio di essere amata con dignità. È donna solo quando è sempre truccata alla perfezione e ha sempre la ceretta prenotata dall’estetista, e non quando senza trucco e senza filtri riesce a guardarsi allo specchio per quella che è. Allora ci guardiamo un po’ intorno e gli aggettivi che ci vengono in mente non appartengono alla sfera semantica di quelli elencati in precendenza: donne maltrattate, donne insoddisfatte, donne vendute, donne sottovalutate, donne sulla crisi di nervi per conciliare lavoro e famiglia, donne che non amano, donne non amate.
Allora la scelta più coraggiosa che possiamo fare è ascoltare la nostra essenza più profonda lasciando un attimo da parte preconcetti e schemi. Forse oggi la donna si è preclusa alcune porte che potrebbero portarla alla felicità. Forse non si considera più all’altezza di amare un uomo con tutta se stessa. Forse si illude che non ci sia lungo la sua strada un uomo disposto ad amarla tutta la vita. Forse farà dei figli quando avrà sistemato tutto, quando tutto sarà sicuro, quando magari un figlio non arriverà o forse lei non avrà più voglia di aspettarlo. Forse la corsa alla carriera le ha offuscato il cuore e non è più in grado di ascoltarne i desideri più veri. Forse le ha date tutte vinte all’uomo: lo ha aiutato a trasformare l’amore solo in un fatto di “vuoi salire da me?”.
Allora oggi mi sento di fare un elogio alle donne che in mezzo a questa società sono davvero le più coraggiose nella loro ordinarietà e quotidianità. Un elogio alle donne che si ascoltano ancora e nel loro profondo trovano la forza e il coraggio di essere accoglienti, felici, ricolme di affetto, lungimiranti, disponibili…

“Sentivo una gran gioia, una gran pena;
una dolcezza ed un’angoscia muta.
– Mamma?-È là che ti scalda un po’ di cena-” 

Allora Pascoli forse non ci aveva visto proprio male, magari possiamo davvero ritrovare noi stesse tra una cena da cucinare e una persona da amare. Tra un posto di lavoro dove portare la nostra brillantezza e un’amica da consolare, tra un figlio che ci succhia tutte le forze e una casa da ordinare. Tra un esame da sostenere e i sintomi premestruali da combattere. Tra un datore di lavoro intransigente e un genitore da accudire. Tra un corpo da amare e una sapienza da custodire.
Sì, dobbiamo essere coraggiose.

Federica Di Vito

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Come mai ti sposi?

Comincio questo mio piccolo spazio di scrittura con questa domanda. Da quando Tommaso ed io abbiamo deciso di sposarci ne ho sentite davvero tante e da tanti tipi diversi di persone.
Faccio una premessa: io ho 23 anni (compiuti il 6 agosto), mio marito 25 (quasi 26), non ho ancora trovato un qualche lavoro “fisso”, se vogliamo utilizzare questo aggettivo che odio (davvero ci illudiamo che ci sia qualcosa di fisso in questa vita?) e non abbiamo “certezze” se non quella di esserci voluti sposare in Chiesa e, quindi, di esserci promessi amore eterno (m’hai detto niente). Strano l’accostamento che ho fatto in quest’ultimo pensiero: dico che nella vita non ci sono cose fisse, ma ho promesso di fronte ad un bel po’ di gente e di fronte a Dio di amare un uomo per tutta la vita. Non è un’incoerenza, se ci pensiamo bene infatti, ho usato l’aggettivo “fisso” in riferimento al lavoro, la casa, la salute, la residenza ed altro ancora. Ma sono estremamente convinta che il matrimonio non sia una cosa, non sia un evento e nemmeno il cambiamento di stato civile sui documenti di identità. Io credo sia uno stato di grazia e un dono che non dipendono completamente dalla volontà dei singoli sposi. Credo sia una scelta definitiva perchè non si fonda sugli eventi mutevoli della nostra vita.
Io solitamente sono una persona decisa, ma sugli affetti non chiedetemi di essere ferma che non ce la faccio. Non voglio lasciare intendere che sono una bandiera al vento, ma non riesco a lasciar perdere nulla. Tutto mi sembra essenziale. E allora quella parolina detta di corsa, quel comportamento inopportuno, quella battuta o quello sguardo diventano per me una prigione. Per questo dico che se avessi deciso di sposarmi pensando a quella che sono non l’avrei mai fatto. Combatto ogni giorno con i miei difetti. Ovviamente ognuno c’ha le sue (prima si capisce e meglio è). Ma una volta un sacerdote sapiente mi disse “Allenta la presa, non fai tutto da sola, fa’ come Maria che ha dato carta bianca a Dio nella sua storia”. Questa frase, così, senza volerlo troppo, si è impressa nel mio cuore e ha piano piano scavato nel profondo portando alla luce il desiderio di sposarmi con la fiducia che Dio collabora con la nostra storia. Si raggiunge quindi una pace zen-vivo in una bolla? No, io direi più una “pace totalmente inquieta”. Sì, perchè nella vita più si cerca di avere tutto sotto controllo e meno si è felici. Più ci si abbandona al suo flusso e con consapevolezza si vive ogni istante per quello che e più si è “serenamente inquieti”.
Allora? Com’è che si può decidere qualcosa di così fisso come un matrimonio?
Per “tentare” (non mi allargo troppo, sono una tirocinante ancora) di rispondere a questa domanda ritorno al titolo di questo pezzo: come mai ti sposi? È la domanda che mi ha posto una ragazza completamente sconosciuta la sera del mio addio al nubilato con gli occhi più seri che io abbia mai visto. Certo, la situazione non era proprio adeguata al suo tono così serio e accorato, lei probabilmente aveva bevuto un bicchiere di troppo, ma sono più che sicura che diceva sul serio, voleva davvero ascoltare la risposta. Curioso no? Ero abituata a dover arrabbattare qualcosa tra mente e cuore e rispondere in maniera frettolosa e confusionaria (non è per niente facile per me rispondere a chi fa domande con tono canzonatorio) e sentirmi recitare in seguito alla mia risposta una filastrocca oramai imparata a memoria: “ma sei giovane”, “ma ti rovini la vita”, “ma come fai ad essere sicura”, “ma sei matta”, “ma perchè non vai a convivere?!” ecc., ecc…
Gli occhi sinceri di quella ragazza mi spingono a fare una riflessione che è scaturita dalla risposta che le diedi quella sera.
Un poeta scriveva “Ditemi la verità, vi prego, sull’amore”. Per riprendere il suo pensiero, io non ci credo alle bugie che ci raccontiamo ogni giorno. Non ci credo che nell’andare un po’ con chi capita si è felici. Che nel vivere senza riflettere e farsi delle domande si trova la pace. Che nel non dare un taglio a quel rapporto tossico e morboso si è sereni. Che accontentarsi di una relazione a metà che non sia lungimirante e a lungo termine soddisfi il nostro bisogno di sentirci amati e di amare. Allora posso sentirmi dire che è meglio convivere così in qualsiasi momento posso “rescindere dal contratto”, che impegnarsi è fatica (sì, tutte le relazioni se vere sono faticose), che la vita è troppo breve per un solo uomo/una sola donna e che il matrimonio è solo una firmetta. Ma continuo a credere che abbiamo una voragine immensa dentro di noi che continumente cerchiamo di colmare con tante di quelle cose che forse ci spaventa metterle in un elenco.
“Perchè penso che ognuno di noi abbia scritto nel cuore il desiderio di amare ed essere amato per tutta la vita, per questo mi sposo”.
Tutti ci meritiamo Qualcuno di fisso. Perchè siamo stati creati da un Amore fisso, eterno, che ha scritto nel nostro cuore questo desiderio. C’è chi trova quel Qualcuno negli occhi di suo marito/moglie, chi nel servizio di una comunità e chi in un qualsiasi ambito che diventa una grande occasione se si cerca quel Qualcuno in chi abbiamo accanto.
Allora senza fare teologie o filosofismi (non sono in grado), posso dire che sono felicemente impegnata a vita perchè è la più bella occasione che quest’ultima ha posto sul mio cammino per imparare ad amare, già, perchè in fondo ciò che conta alla fine sarà quanto abbiamo amato.

Ps: mentre ogni giorno cerco di capirci qualcosa in più, vado a stendere la pizza (non si sa mai, potrebbe sempre essere propedeutico a tutto ciò).

Federica Di Vito

Tratto dal suo blog Il peso specifico delle parole