Ricordo l’uscita del mio primo libro come uno dei momenti più emozionanti della vita. Sentivo da tempo, dentro di me, di voler annunciare ai giovani che l’amore vero esiste, che possono guardarsi dentro senza paura, che hanno tutto il diritto di puntare in alto, perché siamo stati creati per cose grandi. Con questo scopo avevo scritto “Non lo sapevo, ma ti stavo aspettando” (Mimep Docete, 2106), una storia d’amore dove il protagonista, oltre a incontrare una ragazza di cui si innamora, si lascia portare da lei verso Cristo.
Quando lo presi in mano la prima volta aveva il tipico odore della carta appena stampata. Sentii che era un traguardo indescrivibile. Sono passati 10 anni esatti da quando la Casa Editrice, nel settembre 2015, aveva dato l’ok per la sua pubblicazione. Esattamente un mese prima, in agosto 2015, avevo detto “sì” ad una proposta di matrimonio.
Tutto, da quel momento, è andato di pari passo e senza il sostegno di mio marito oggi non sarei qui a raccontarvi come sono diventata scrittrice. Certo, è merito dei miei genitori, che mi hanno fatto studiare, dell’Università, che mi ha formata, delle diverse case editrici che nel tempo hanno creduto in me. Merito di Dio, che mi ha donato una speranza da comunicare e la forza per farlo.
Eppure, quando mi riguardo indietro, vedo in particolare un progetto realizzato nella comunione con l’uomo che mi è stato compagno di viaggio in tutto questo tempo.
Spesso si dice che la donna debba essere “indipendente” rispetto all’uomo, che debba mantenersi da sola; non solo per realizzarsi, ma anche per “difendersi”. In qualunque momento la relazione dovesse finire, lei può andarsene e provvedere a sè stessa. E poi, così, non deve rendere conto a nessuno delle sue spese, di quello che fa. Non dirò mai che una donna non deve lavorare, anzi, al contrario, sostengo l’importanza delle donne in ogni campo della società. Però, è davvero “l’indipendenza” il segreto di una vita matrimoniale felice?
La nostra storia è iniziata in un momento della mia vita in cui io ero ancora una giovanissima donna al primo anno di università. Il mio obiettivo non era, in quel momento, guadagnarmi da vivere da sola. Facevo qualche lavoretto, in biblioteca, per non gravare completamente sulla famiglia, ma il mio impegno principale era studiare e farlo seriamente. Lui, invece, quasi otto anni più grande, aveva già un buon lavoro.
Ci siamo sposati un mese dopo la mia laurea. Avremmo potuto aspettare? Avrei potuto prima cercare un lavoro? Certo, ma ci piaceva troppo l’idea di iniziare la vita insieme, dopo quasi quattro anni insieme, e così abbiamo deciso di intraprendere quel cammino coi mezzi che avevamo. Eravamo convinti del nostro sì. Avremmo fatto qualche sacrificio con un solo stipendio, ma ne valeva la pena. Poco dopo, ero già incinta. E io non avevo ancora un lavoro. Qualcuno, lo so, mi dava della pazza: “Hai fatto tanti sacrifici per studiare a Roma, e adesso torni nel tuo paese, ti sposi e resti incinta prima di mettere a frutto i tuoi studi?”
Ovviamente, c’è molto più di questo, ma con i miei soli 24 anni di allora so di aver scandalizzato tanti coetanei. Per noi, però, il matrimonio era un progetto di vita senza data di scadenza, credevamo nel sacramento e sapevamo che Dio ci avrebbe aiutati a mantenere vivo il nostro amore nel tempo. Mi fidavo di mio marito e non dovevo preoccuparmi di “tutelarmi da lui”. Non dovevo correre a trovarmi un lavoro qualunque, perché “chissà, se domani ci lasciamo”. E no, non ho rinunciato ai miei progetti per lui. Vi dirò di più: mio marito è stato il primo a investire, in tutti i sensi, nei miei sogni.
Quando ho trovato l’editrice disponibile a stampare il mio primo romanzo (e noi stavamo per sposarci), dovevo acquistare un gran numero di copie come autrice. Non avevo i soldi, perché ero ancora studentessa fuori sede. I miei genitori facevano già molti sacrifici per mantenermi all’università, io avevo guadagnato qualcosa in quel periodo, ma avevo speso tutto per mantenermi a Roma: non potevo chiedere ai miei quella cifra e io non ce l’avevo.
Il mio futuro marito, senza farmelo pesare, ha deciso di regalarmi l’acquisto delle copie. È stato lui ad acquistare il numero di libri necessario perché l’editore accettasse la stampa. E no, non l’ha fatto per dimostrarmi la sua “superiorità economica”, per tenermi sotto scacco, per ricattarmi in futuro, per assoggettarmi. L’ha fatto perché mi amava e non voleva che rinunciassi per mancanza di fondi.
Appena sposati, in accordo, abbiamo deciso che non era un problema se per un po’ avrebbe provveduto lui a entrambi: io mi sarei presa del tempo per inserirmi nel mondo che amavo, quello del giornalismo e della scrittura e sarei diventata mamma, che era il mio “sogno numero uno”. Volevo che scrivere diventasse il mio lavoro, ma sembrava evidente a entrambi che la gavetta fosse lunga. Se avessi dovuto seguire i consigli del femminismo ideologico avrei dovuto, a prescindere, trovarmi un lavoro qualunque, pur di non accettare l’aiuto di mio marito.
Nell’amore, però, non esistono regole così rigide. Nel nostro caso, andava bene così. In fondo, ce la facevamo. Io volevo provare a diventare una scrittrice davvero, ma servivano tempo, energie. Volevo dedicarmi e provarci. Beh, piano piano, il mio sogno ha iniziato a prendere forma (soprattutto grazie al libro “Sei nato originale, non vivere da fotocopia”, dedicato a Carlo Acutis, uscito nello stesso anno di nascita del mio primo figlio, il 2017, garzie al contatto rimasto con la Casa Editrice dopo il primo libro).
Se avessi dovuto pensare solo ai soldi, a mantenermi “da sola” per principio, quei libri non sarebbero stati pubblicati. Se non avessi potuto fidarmi di mio marito, oggi non sarei realizzata come scrittrice, non avrei 26 libri all’attivo (alcuni scritti da sola, altri a quattro o sei mani), non avrei girato l’Italia, in lungo e in largo per le presentazioni (e tanti di questi viaggi, in terre bellissime, ho potuto regalarli io alla famiglia).
Oggi, quando ripenso alla nostra storia, vedo un disegno in cui non vi è stata alcuna contrapposizione tra sogni personali, matrimonio, figli: tutto si è integrato in modo armonioso con il resto, tutto è andato di pari passo.
Penso che il vero segreto di una relazione sana e sicura non sia “l’indipendenza” (assicurarmi di “poter scappare quando voglio”), ma lavorare per far crescere la comunione (“posso fidarmi di te e insieme costruiamo il nostro futuro, dando ognuno il meglio per l’altro”).
Non voglio dire che in alcuni casi – dove ci sono situazioni di maltrattamento ad esempio – non sia necessario per una donna essere indipendente, così da potersi liberare da una trappola. Non dico che la mia storia sia legge universale. È unica, è la mia.
Dico, però, che ai giovani dobbiamo insegnare che l’amore è saper vivere in comunione e cercare una relazione dove ciascuno possa essere e restare pienamente sé stesso, con tutto il suo pacchetto di sogni da realizzare. A me è successo e vorrei che succedesse a tutti.
Cecilia Galatolo
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