Un matrimonio waterproof

Come nacque il waterproof

In principio, i cosmetici non erano waterproof. Se ne resero conto assai presto gli sceneggiatori di Hollywood. Appena Esther Williams, campionessa olimpica di nuoto e attrice, girò le sue prime scene in piscina. Fu subito chiaro che i cosmetici con cui era truccata, peraltro di ottima marca, non reggevano l’acqua. Erano gli anni cinquanta. Le grandi marche cosmetiche avevano già una certa notorietà e un folto seguito di acquirenti. Tuttavia, come ogni donna comune aveva avuto modo di sperimentare almeno una volta, la possibilità che il trucco resistesse all’acqua, non era prevista. La bella Esther non riemergeva dai flutti come una venere acquatica dall’aspetto ineccepibile. In realtà era inguardabile. Il trucco si scioglieva miseramente e sul suo viso rimanevano solo antiestetiche chiazze di colore. Per fare in modo che affrontasse le scene in piscina, uscendone poi perfettamente truccata, le case produttrici di cosmetici si misero a studiare formule adeguate. Nacque così il cosmetico waterproof.

Cosa significa waterproof

Waterproof, questo nuovo attributo del make-up, significa letteralmente: “a prova d’acqua”. È molto più che “impermeabile”. In realtà, il vantaggio non è che non si bagni. La sua peculiarità è proprio la capacità di resistere intatto all’acqua. Di non farsi lavare via. Fondotinta, correttori, ombretti, rossetti, ma anche mascara waterproof non si alterano a contatto con l’acqua. Rimangono perfettamente fissati e omogenei. Una intuizione nata per esigenze di copione cinematografico, che si rivelò geniale. Milioni di donne furono in grado di affrontare crisi di pianto, sudate epocali, passeggiate sotto la pioggia torrenziale, senza preoccuparsi del loro trucco. Emotivamente sconvolte, fisicamente affannate, colpite dalle avverse condizioni atmosferiche, ma perfettamente truccate. Inutile cercare di spiegarlo a un uomo. Parlo per esperienza. Un maschio non capirebbe. Ma noi donne sì, noi questo lo sappiamo bene. Perché già essere devastate dal pianto, dal caldo o dall’acquazzone è una seccatura. Almeno vogliamo la consolazione di non avere l’aspetto di un panda, per il mascara sbavato. O la faccia macchiata, perché il trucco è colato.

Resistere sempre

Essere sempre in ordine e perfettamente truccate, in situazioni straordinarie, poteva sembrare una esigenza per poche. Una caratteristica di nicchia, irrilevante nell’economia della vita della gente comune. Invece, sin dalla sua comparsa, oltre sessant’anni fa, il trucco waterproof è stato un enorme successo. Tutt’oggi fa vendite da capogiro. È indubbio che essere waterproof sia una caratteristica estremamente apprezzata, per qualunque cosmetico. Non una moda passeggera. Per noi è una sicurezza. Metti che…? Metti che vado a vedere un film commovente... metti che mi viene una crisi di nervi… metti che in treno l’aria condizionata sia guasta (e siamo a luglio), metti che la nuvoletta di Fantozzi mi annaffi. Magari tutto questo non succede. Ma, metti pure che succeda, no problem. Avevo messo un make-up waterproof. È possibile trasportare questa idea di estrema resistenza ad altri ambiti? È possibile immaginare un matrimonio waterproof. Ovvero a prova di imprevisti disastrosi?

Il matrimonio waterproof

Lo sappiamo, il matrimonio oggi è terribilmente svalutato. Molti nemmeno più si sposano. Altri spesso si giurano amore eterno, finché dura. Appena difficoltà e problemi si abbattono sulla coppia, l’unione coniugale – se c’era – va in crisi e talvolta si dissolve. Come il trucco di Esther Williams. In alcuni casi, ci sono mogli che hanno make up più tenaci e durevoli del loro matrimonio. Eppure, nel corso di una intera vita insieme, è normale che si sperimentino problemi, difficoltà, incomprensioni. Se il matrimonio non è in grado di superarli, che garanzie dà di durare davvero per tutta la vita? È possibile costruire un matrimonio, che resista agli stimoli esterni distruttivi che si abbattono su di esso? Si può immaginare di vivere un matrimonio waterproof? E se la risposa è sì, come si fa?

L’amore al tempo delle avversità

Quando un problema si abbatte sulla coppia, o su uno solo dei due sposi, il matrimonio può soffrirne. La persona in difficoltà fa fatica a relazionarsi con l’altro. Da parte sua, sente di non riceve sufficiente sostegno dal coniuge. Si crea crescente distanza fra i due. Nella coppia si insinuano risentimento, delusione, amarezza. I problemi sono il vero banco di prova del matrimonio. Perché, ad andare d’accordo quando va tutto bene, sono bravi tutti, o no? Come si fa a rendere la propria unione waterproof? Come si fa a impermeabilizzare la propria storia d’amore dalle sollecitazioni esterne, quando inevitabilmente arrivano?

Il matrimonio è un’alleanza

Un uomo e una donna che decidono di sposarsi formano un’alleanza per tutta la vita. Di questo non sempre si parla a sufficienza. Siamo convinti che il matrimonio si fondi sull’amore, sui sentimenti e questo sicuramente è vero. Però un matrimonio non può essere saldo, senza la solidarietà fra gli sposi. Ciò significa stare dalla parte dell’altro, sostenerlo. Sostenere la persona amata non vuol dire accettare in modo acritico i suoi errori e le sue debolezze. Si può essere solidali col proprio marito (o con la propria moglie) anche se non si condivide completamente la sua opinione, le sue decisioni, il suo atteggiamento. La solidarietà significa soprattutto: ti voglio bene e per te ci sarò sempre. Non ti volterò le spalle, nemmeno se ti vedo sbagliare. Te lo dirò, per il tuo bene e in modo molto gentile. Non mi metterò mai contro di te. Né starò mai dalla parte di chi è contro di te. Questa forma di alleanza si basa sulla fiducia e sulla stima per il consorte, al di là della situazione contingente, del problema specifico, del fatto che abbia torto o ragione.  L’aspetto dell’alleanza, in un matrimonio, è fondamentale. L’attrazione può venir meno, la passione e l’innamoramento possono attenuarsi e non necessariamente il matrimonio si incrina. Invece, un matrimonio in cui venga meno la lealtà, rischia di essere compromesso. Per scongiurare il rischio che qualcosa o qualcuno si insinui fra marito e moglie, è necessario coltivare questa forma di unità della coppia. E serve farlo con tutte le proprie forze. Più tenace è la solidarietà fra gli sposi e più è probabile che trovino il modo di sostenersi e incoraggiarsi l’un l’altro nelle crisi.

Un carne sola

Il fattore che impermeabilizza il matrimonio e lo preserva dall’emozionalità della vita, dai temporali e dalle sudate esistenziali è proprio questa forma di lealtà amorevole. È una ennesima declinazione dell’idea di diventare una cosa sola. Lo ha detto Gesù stesso, che marito e moglie sono una sola carne. Questa unità non può andare contro sé stessa. Non può farsi smembrare dalle cose del mondo. E’ chiamata a mantenere la sua integrità. Unità di un cuor solo e un’anima sola, come dice la Familiaris consortio. Però, per noialtre anime semplici, rende bene anche l’espressione matrimonio waterproof.

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Asciuttezza e fluidità

L’asciuttezza preterintenzionale maschile

Ricevo un messaggio da una lettrice del blog, che mi dà modo di palare dell’asciuttezza preterintenzionale maschile. Lo so, detto così fa quasi paura. Forse vi starete chiedendo: Che cos’è questa strana cosa? Ne soffre anche mio marito? Come si cura? Si tratta invece di una cosa incredibilmente comune.

La mia lettrice, che chiameremo L, soffre per il comportamento di suo marito. Lui, che chiameremo G, è sempre molto brusco belle risposte. Parla a mono sillabi, spesso, più che suggerimenti dà degli ordini, sembra sempre diretto, fino quasi alla brutalità. G non le dice nulla di offensivo o crudele, ma ha un modo di comunicare molto asciutto, privo di sfumature, di empatia, di delicatezza. Se però L glielo fa notare, suo marito cade dalle nuvole. G pare non accorgersi della sua rudezza e sua moglie, che lo conosce bene, capisce che il suo stupore e sincero

La comunicazione

Uomini e donne sono diversi. Fin qui direi che ci siamo. “Uomini e donne Lui li creò”. Le basi proprio. Alcune diversità ci sono immediatamente evidenti: gli uomini hanno la barba e le donne portano il reggiseno. Gli uomini amano il calcio, intrattengono con la loro auto un’amicizia affettuosa, si innamorano di qualunque aggeggio elettronico. Le donne ritengono di dover perdere almeno due chili (qualunque sia il loro peso), se si perdono, chiedono indicazioni ai passanti (anche se hanno il navigatore) e solidarizzano con le amiche in crisi, anche a costo di raccontare bugie pietose.  Questa è la parte facile, poi comincia la salita.

La nostra natura è così distante, che ci mettiamo anni a comprendere le reciproche peculiarità. E mica le capiamo tutte. Quelle che non capiamo, rimangono come buche sparpagliate nel cammino del nostro rapporto. In ogni momento c’è il rischio di cascarci dentro. Uno degli ambiti in cui la nostra differenza si rende più evidente è proprio la comunicazione. Non solo quello che diciamo, ma anche come lo diciamo.

L’asciuttezza e la fluidità

Per le donne, la comunicazione è molto più che trasferire informazioni. Noi comunichiamo non solo parole, ma anche emozioni. Per questo, le donne sono capaci di parlare per ore, anche quando l’argomento è in fondo semplice magari si potrebbe spiegare con poche parole. Raramente facciamo discorsi di poche parole. Va detto che ognuna di esse ha un peso, che va oltre il solo significato letterale. Ogni nostra frase è piena di sfumature.

Al contrario, gli uomini hanno una concezione della parola molto più pratica e funzionale. Gli uomini parlano se hanno qualcosa di concreto da dire. La comunicazione maschile è oggettiva, caratterizzata da una asciuttezza informativa che a volte patiamo come un castigo. È una comunicazione fatta di bianco e di nero, in cui c’è pochissimo spazio per le sfumature. La sinteticità degli uomini, che scambiamo per scortesia, non ha nessuna intenzionalità.

Piccoli esempi di parole fraintese

Torniamo per un attimo a L e G. I loro discorsi si svolgono più o meno così:

suo marito le dice: “L, alzati che è suonata la sveglia.”

uh, accidenti, ma è tardissimo! Non me ne ero proprio resa conto. È che ieri sera ho fatto tardi per riordinare la cucina e stamattina sono stanca morta. Come vorrei un caffè, anche solo per accendere il cervello. Chissà se ho il tempo di farmi una doccia veloce, prima di andare.”

G le risponde: “se non ti sbrighi, fai tardi”.

L ci resta male e tutto il giorno rimugina su come suo marito sia stato brusco. Di un’asciuttezza quasi al limite della scortesia.

Che cos’ha questa conversazione, di così evidente? È un esempio di parole fraintese. Da un lato c’è lei, che tenta di comunicare al marito che è stanca, perché si è dedicata alle pulizie di casa, fino a tardi. Probabilmente vorrebbe che lui le facesse un complimento o esprimesse gratitudine per i suoi sforzi. Il marito non coglie questa implicita richiesta di apprezzamento. Invece è concentrato a tenere il tempo sotto controllo, perché ha capito che lei non lo sta facendo e rischia di fare tardi.

Poi lei suggerisce fra le righe che le farebbe piacere un caffè. Anche qui, il marito non capisce la richiesta di aiuto, perché è troppo indiretta. Certo che lei potrebbe chiedergli esplicitamente il piacere di farle un caffè. Però non vuole. Probabilmente non le va di ammettere di aver bisogno di un aiuto, seppure così piccolo. Spera che lui capisca e glielo offra di sua iniziativa, così si risparmierà di chiedere.

Infine, lei vorrebbe essere rassicurata sul fatto che riuscirà comunque a prepararsi in tempo, senza rinunciare alla doccia. Si aspetta un incoraggiamento, anche se sa perfettamente che il marito non ha il potere di garantirle che riuscirà a fare tutto abbastanza velocemente. Lui, però, è ancora completamente concentrato sull’orario e le raccomanda di prepararsi velocemente.

Non c’è nulla di realmente offensivo oppure ostile in questa conversazione, eppure L sente che non è andata come si aspettava. È delusa. Le sue parole avevano lo scopo di catturare l’attenzione del marito e stimolarlo a compiere gesti gentili nei suoi confronti. Da parte sua, lui non ha capito quale esigenza ci fosse realmente, dietro le parole della moglie.

Infine, mentre lei vorrebbe sentirsi dire che è tutto sotto controllo, che non è poi così tardi (poco importa che sia vero o no), lui continua a prenderla alla lettera e a tenere d’occhio l’orologio.

La perenne contrapposizione fra emozione e ragione

Le risposte di lui sono perfettamente logiche. Quelle di lei sono completamente emozionali. I due percorrono due binari paralleli. È ovvio che, se L rimprovererà al marito di averla trattata con poca sensibilità o averle risposto male, lui ne rimarrà sbalordito. L’asciuttezza di lui non era diretta a ferirla o a criticarla. Al contrario, da parte sua, lui ritiene di aver fatto qualcosa di utile per la moglie: stimolarla a sbrigarsi. Si sente accusato ingiustamente, lui che cercava solo di essere di aiuto! Certo, lo ha fatto nell’unico modo di cui è capace, con la tipica asciuttezza di comunicazione maschile.

Chiamatela come volete: contrapposizione fra ragione ed emozione. Ragione e sentimento. Cuore che ha le sue ragioni che la ragione non conosce. Ci sono centinaia di splendidi aforismi che fotografano questa immensa diversità fra il ragionare con la testa e ragionare con il cuore. E su come due persone che ragionino in modo diverso, finiscano col non capirsi.

Cosa fare e cosa non fare

L, come molte di noi, capisce abbastanza in fretta l’inutilità di rimproverare il marito per il tono o per lo stile delle sue parole. Sa che in questi casi, la situazione può solo peggiorare. Gli uomini, quando si sentono criticati, specie se ritengono di esserlo ingiustamente, assumono una posizione difensiva. Invece di considerare il punto di vista della moglie, pensano una di queste tre cose:

Poveretta, è esaurita.

Eccola lì, è nervosa e ha voglia di litigare.

È ipersensibile, forse ha il ciclo, bisogna stare attenti alle parole

Insomma, questo uomo tutto immagina, meno che forse sua moglie gli stava lanciando dei messaggi, che lui non ha colto.

E quindi? Come si fa?

La prima cosa da fare, è mettere in conto questo diverso stile di comunicazione. E accettare il fatto che sarà difficilissimo, forse persino impossibile, far cambiare registro al marito. Questo è già un buon punto di partenza.

La seconda cosa da fare, è abbandonare il giudizio. Evitare di giudicare il marito in base alla risposta che dà. O, peggio ancora, alle sensazioni che ci procura la risposta che lui dà. Lui non ha alcun controllo sulle emozioni che ci suscita. E la sua risposta non è per forza segnale di scarso tatto o di disinteresse. Spesso, una risposta sintetica o brusca non deriva da rabbia o risentimento. Non è detto che sia una critica.

Semplicemente, lui è abituato a esprimersi così. Perché, se conosciamo l’uomo che abbiamo al fianco, sicuramente sappiamo riconoscere quando è davvero irritato, arrabbiato, offeso.

La chiacchierata a quattr’occhi

Uno degli spauracchi peggiori dei mariti è la frase della moglie: “caro dobbiamo parlare”. Qualche volta espressa nella variante: “abbiamo un problema”. Anche se vi ho appena sconsigliato di considerare offensiva ogni risposta che non sia in linea con le vostre aspettative, ammetto che esiste una eccezione. C’è effettivamente un caso in cui non solo è utile, ma è addirittura doveroso chiarirsi. E fare una chiacchierata a quattr’occhi, ma pacata e serena. Se c’è un atteggiamento o una espressione in particolare, che lui usa spesso e che ci ferisce, allora è necessario parlarne.

Mi raccomando: mai sull’onda del risentimento. Quando le acque si sono calmante, si può semplicemente dire: “quando tu mi parli così o usi quell’espressione, io soffro, perché mi sento criticata.” Stiamo attente a non dire: “mi fai del male.” “mi offendi”. Come se fosse un gesto deliberato. Partiamo dal presupposto che non lo abbia fatto apposta. Di nuovo, abbandoniamo il giudizio. Non accusiamolo di nulla. Parliamo solo di quello che sappiamo con certezza: le nostre sensazioni.

Possiamo anche aggiungere: “per favore, non farlo più”. Ovviamente, non possiamo aspettarci che lui magicamente e da un giorno all’altro modifichi l’atteggiamento. Ci vuole pazienza. Potrebbero volerci settimane, mesi.

Il messaggio andrà rinforzato più volte, sempre in modo gentile, non inquisitorio. Un po’ alla volta, noteremo un cambiamento. Proprio perché il gesto o l’espressione che ci feriscono, non vengono fatti con intenzione, lui non avrà motivo per ripeterli, una volta che avrà capito che ci urta.

La gratitudine è il miglior antidoto all’asciuttezza

Quando lui si sforza di lavorare sul suo tono o sul suo stile di comunicazione, rispettando le nostre richieste, mostriamogli apprezzamento. Ringraziamolo. Questi commenti positivi lo incoraggeranno a impegnarsi ancora di più. L’asciuttezza di fondo resterà -mica si possono fare miracoli -ma potrebbe stemperarsi.

E anche da parte nostra, educheremo noi stesse alla gentilezza. Ci sforzeremo di non essere permalose e di non vedere un attacco personale dove non c’è. Perché non importa quanto lui possa averci ferite o irritate, tagliando le frasi a colpi di accetta. Se ci amiamo, dobbiamo passare oltre alla forma e concentrarci sulla sostanza.

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E se l’attesa del piacere fosse essa stessa (parte del piacere)?

E se l’attesa del piacere fosse essa stessa (parte del piacere)?

L’estate andiamo sempre al mare. Due settimane, quando va proprio bene tre. Aspetto quel momento tutto l’anno. Riuscite a immaginarlo? Cinquanta settimane ad aspettare quei quindici giorni di mare. E Natale? Vogliamo parlare di Natale? Adoro Natale. Lo aspetto tutto l’anno. Trecentosessanta quattro giorni di attesa. Trecentosessanta cinque, negli anni bisestili. Eppure, è un’attesa ampiamente ricompensata. E del matrimonio non ne parliamo? Il giorno tanto sognato, magari dopo anni di fidanzamento. E finalmente arriva. Il giorno del coronamento. Quello in cui ci giuriamo amore eterno.

E il sesso? No, col sesso no. Per quello non si può attendere, dice il mondo. Quello va consumato il più presto possibile. Magari già al primo appuntamento. Comunque, entro il terzo. Così recitano le regole non scritte del galateo amoroso, nel mondo moderno. Anche se questo tizio qua tu lo conosci appena. Non hai idea se ci sarà un altro appuntamento. Se avrai voglia di vederlo di nuovo. Perché mica hai ancora deciso se ti piace o no. Ma intanto, già che ci sei, potresti andarci a letto. Che male c’è? E poi, lui un po’ se lo aspetta. Così fan tutte, direbbe Mozart. E tu? Perché vuoi fare quella stramba? Non sarai mica vergine? Cioè, non di segno zodiacale. Proprio vergine-vergine. Vergine che non ha mai… Vergine che non ha ancora… no dai, non è possibile. E invece.

Diciamo subito una cosa: una volta era più semplice. Esisteva un confine netto, quasi invalicabile, fra castità e sessualità. Il confine, il fotofinish della verginità, era il matrimonio. Tagliato quel traguardo, si cominciava a esplorare anche l’intimità fisica. D’altro canto, a quel punto era anche la cosa più naturale del mondo: si era una carne sola. Poi è arrivata la modernità. Sinonimo di rivoluzione sessuale. Sinonimo di proposte indecenti a cui non puoi dire di no. Perché sennò sei bigotta. Sei frigida. Sei un po’ bacata. Aggiungete pure aggettivi spregevoli a piacere.

Credetemi, le donne sessualmente più libere sono le cattoliche. Non è una provocazione. Se la libertà vuol dire poter scegliere, le uniche rimaste a scegliere sono loro. Quelle che non hanno paura di dire di no. La castità è una cosa incomprensibile per i più. E molto fraintesa. Viene dipinta come una innaturale e crudele rinuncia. Una sofferenza inutile. Perché l’istinto è buono per definizione. E va sempre soddisfatto. La nostra è una cultura bulimica, che fa scorpacciate di tutto. Di cibo, di droga, di oggetti. E, naturalmente, di sesso. La gente ne consuma così tanto, così spesso, che ogni tanto ne fa indigestione. Lo chiamano “calo del desiderio”. Metà degli psicologi che conosco ci si paga il mutuo, col calo del desiderio dei suoi pazienti. Non c’è niente di male nel sesso. Questa idea che ai cattolici il sesso non interessi, che addirittura ci faccia un po’ schifo, è una bugia. Una delle tante, inventate dalla propaganda del nemico (l’altra è che siamo gente noiosa, invece ho amici credenti, con cui mi faccio un mare di risate).

I cattolici non condannano il sesso, non ne hanno paura. Sanno, come diceva Fulton Sheen, che il corpo non può donarsi, se l’anima non si dona. Che il sesso, fuori da una relazione di vero e profondo amore, è solo ginnastica. (del suo bellissimo libro sul matrimonio, ho parlato qui: https://annaporchetti.it/2022/11/10/lamore-cose/) La castità non è privazione ma attesa. Come col Natale. E’ consapevolezza che non ogni momento è quello giusto. Che arriva il tempo per ogni cosa. La verità è che, oggi, non vogliamo più attendere. Lo facciamo mal volentieri, vorremmo tutto e subito. Desideriamo soddisfare i nostri desideri, appena si presentano. Ogni lasciata è persa. E se invece l’attesa del piacere, fosse essa stessa (una parte) del piacere? Basterebbe capire che, in fondo, l’attesa delle cose belle non ci ammazza.

Attendiamo con trepidazione il nostro compleanno per essere festeggiati, la finale di Champions per vedere la nostra squadra vincere o il concerto del gruppo preferito, che non abbiamo mai ascoltato dal vero. Tutta la vita è fatta di traguardi, intervallati da lunghe, talvolta lunghissime attese. La castità è l’attesa che precede il piacere, acuisce il desiderio. Lo rende più puro, più consapevole. L’amore frutto di attesa non è solo un istinto da soddisfare, è una scelta, una decisione, un gesto che mette insieme la parte razionale e quella emotiva, il cuore e la testa, l’anima e il corpo. Richiede disciplina ed è per questo che forma la volontà. La castità ci protegge da noi stessi, dall’istinto animale ed egoistico che ci porterebbe a usare l’altro come mezzo per soddisfare i nostri desideri e non come fine per crescere umanamente e spiritualmente. Il sesso coniugale è un frutto dell’amore. Quello vero. Come ogni frutto, va colto al momento opportuno, quando è maturo. Un frutto acerbo ci lascerebbe un sapore aspro. Per questo l’attesa è essenziale, è preparazione a cogliere il meglio. Gabriel Garcia Marquez, premio Nobel per la letteratura (mica una mezza calza con all’attivo un manualetto e un blog, come me), racconta che Florentino Ariza attese Fermina, la donna che amava, per cinquantun anni, nove mesi e quattro giorni. Per questo il suo romanzo: “l’amore ai tempi del colera” è una grande storia d’amore e non una lettera strappalacrime a una qualunque posta del cuore, scritta da una donna sedotta e abbandonata.

Chi ama davvero, non teme l’attesa del piacere… sa che essa stessa ne è parte!

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Tutta colpa di Bridget Jones!

Tutta colpa di Bridget Jones! Lo dico davvero. È lei la nostra peggiore nemica.

Perché, diciamocelo, con le altre, le regole del gioco erano chiare. Metti Ingrid Bergman, protagonista del film Casablanca. O via col vento, con la bellissima Rossella (Vivien Leigh). O, per stare ai tempi d’oggi, Insonnia d’amore (sono una grande fan di Meg Ryan). Lì c’è una donna splendida che si innamora del protagonista e lui è bellissimo, valoroso, sincero. Ha un sacco di qualità. Lui è il principe azzurro, che più azzurro non si può. È chiaro fin dall’inizio che ci sarà un lieto fine. L’uomo di turno, non potrà che perdere la testa per lei. Lei non potrà che innamorarsi follemente di lui. I due non potranno che sposarsi. Di lì in avanti scatterà il “vissero felici e contenti”.

Dai, quei film mica li guardiamo per sapere come andranno a finire. Lo sappiamo benissimo. Come nelle favole, in queste pellicole romantiche, l’amore fra i due protagonisti vince sempre. Non importa quante peripezie i due dovranno affrontare. Quanti equivoci, colpi di scena, coincidenze dovranno superare. Alla fine, lui si inginocchierà e le chiederà di sposarlo. E lei non esiterà nemmeno per un secondo. Né se lo farà ripetere. Perché in verità, non aspettava altro. Capirai, chi si farebbe sfuggire il Mister Giusto che ogni donna sogna di incontrare? È chiaro, queste storie ci piacciono, ma non è che le prendiamo del tutto sul serio. Voglio dire, chi di noi si è mai sentita la Rossella O’Hara della situazione? Chi di noi si è illusa di essere protagonista di una storia in cui tutto è perfetto? Quelle sono favole, mica la vita vera. Questo noi lo sappiamo. Almeno, In linea di principio era così. Poi venne lei. Credetemi, è tutta colpa sua. Colpa di Bridget Jones.

Lei non somiglia nemmeno per sbaglio alla bellissima Ingrid, a Meg, a Vivien. Bridget è una ragazza che non brilla. Ha un lavoro banale, è in perenne lotta con la bilancia, piena di buoni propositi disattesi. Beve troppi cocktail e spende troppo per vestiti che non le donano e indossa mutandoni della nonna. Non ha niente e dico niente che la possa far passare per un’eroina romantica, di quelle designate al trionfo dell’amore. Bridget è una di noi. In qualcosa forse anche un po’ meno di noi. È una sprovveduta che fa tutti gli errori che si possono fare nella sua situazione. Prima va a letto con il suo capo, bellissimo, fascinosissimo e di successo, che per di più è un donnaiolo. Poi va in crisi perché scopre che lui non cambierà. Infine, si innamora di un uomo che non sembra ricambiarla. Uno che sembra un po’ troppo per lei. Anche lui bellissimo, fascinosissimo e di successo. Eppure, Bridget riesce a conquistarlo. E, dulcis in fundo, persino il suo capo donnaiolo scopre di volerla, contro ogni possibile aspettativa.

Bridget, una ragazza ordinaria, fa perdere la testa non a un solo principe azzurro, ma a due. Impresa eccezionale, mai riuscita nemmeno alle migliori eroine romantiche della letteratura e del cinema. Ecco, ditemi se non è un inganno. Nel caso di Cenerentola e delle sue versioni cinematografiche moderne, ci godiamo la storia, ma lo sappiamo benissimo, il principe azzurro non esiste.  Invece, una come Bridget vorrebbe farci credere che esista. Anzi, che, per ciascuna di noi, ce ne sia più d’uno. E che qualunque ragazza possa trovarlo e addirittura scegliere quello che preferisce, in una vasta offerta di uomini tutti egualmente belli, perfetti e innamorati. Sono illusioni pericolose. Perché non c’è alcuna possibilità che le cose vadano davvero così. Se una donna passa la giovinezza ad aspettare che arrivi proprio lui, un uomo perfetto, che non sia neanche un grammo meno di un autentico principe azzurro, rischia di ritrovarsi da sola. Delusa e amareggiata.

Non c’è nulla di più insano che coltivare un’aspettativa irrealizzabile. Passare gli anni migliori a paragonare uomini in carne ed ossa con un ideale irraggiungibile. Nessun uomo, per quanto a posto, serio, lavoratore, di sani principi e magari di gradevole aspetto, reggerà mai il confronto con il prodotto della nostra idealizzazione romantica. Invece ci sono donne che arrivano a pensarlo. Per colpa di Bridget Jones e della sua vicenda ingannevole. Credono che abbia ragione lei, Bridget Jones, che si debba puntare all’ideale. Che lei sia un esempio. In fondo, se ce l’ha fatta lei, ce la possiamo fare tutte. Guai ad accettare un uomo comune. Un Medioman che non si conformi alle nostre elevatissime aspettative. Meglio lasciarlo andare, l’uomo carino e di buon cuore, conosciuto in ufficio, a una festa, presentato da amici galeotti. Tanto possiamo ambire a qualcosa di meglio. Abbiamo l’imbarazzo della scelta. Appena dietro l’angolo, ci saranno quarantaquattro principi azzurri in fila per sei con il resto di due. Tutti lì per noi.

Sarebbe invece più utile, oltre che intellettualmente onesto, riconoscere che al mondo ci sono per lo più uomini normali. E che, udite udite, un uomo normale può rendere la donna che ama (e che lo ama) profondamente felice. Anche se non ha mai posseduto nemmeno un fazzolettino azzurro, né è mai stato una somma di virtù cavalleresche. Eppure, si può incontrare un giovanotto per bene, con cui condividere l’impegno di amarsi e onorarsi, che significa soprattutto rispettare l’altro e adoperarsi per il suo bene. Credetemi, Medioman batte il principe azzurro 10 a zero. Lui, almeno, esiste davvero. Il film è tratto dal libro: Il diario di Bridget Jones che si trova su Amazon: https://amzn.to/3TWXutt

Anna Porchetti

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L’amore non è un quiz! Non c’è la risposta esatta!

L’amore non è un quiz, non c’è la risposta esatta. Lo so bene, anche se a mio marito continuo a fare domande difficilissime. Qualche giorno fa, gli chiedo: “Dovrei tingermi i capelli?” Lui, senza staccare gli occhi dalla tv, domanda: “Perché?” “Ne ho parecchi bianchi. Non voglio che si vedano. Se li tingo, tornano com’erano cinque anni fa. Mi fa sembrare più giovane”. In una serie di Netflix, partirebbero i sottotitoli: “Ma perché vuoi tingerti i capelli? Non puoi tornare indietro di cinque o sei anni. A che serve fingere di essere più giovane?” Un pensiero flash, che gli attraversa il cervello. Così rapido che lui nemmeno cambia espressione. Anche se da oltre vent’anni continuo a fargli queste e altre domande, so bene che non può capire. È un maschio. Sono una donna di 50 anni e ho i capelli bianchi. Se anche li tingo per sembrare una quarantenne, sempre cinquantenne rimango. In effetti, ha ragione lui. Mio marito pondera con grande attenzione il quesito. Infine, mi consegna un commento estremamente ficcante: “Eh, beh” E poi torna a concentrarsi sul video. C’è una delle mille mila partite più importanti della stagione. La vita è fatta di priorità.

Questo è stato un problema per me, i primi anni di matrimonio. L’incapacità di mio marito di sintonizzarsi sui miei dubbi, di comprenderne la profondità, di fornire in modo partecipativo risposte sostanziali, la scambiavo per mancanza di interesse. Talvolta ne ero ferita. Poi ho capito. Uomini e donne danno un peso diverso a molte cose. Non a tutte, per carità. Ci sono argomenti di natura ecumenica, fra marito e moglie. La fede. I figli. Il vero mutuo soccorso nei momenti di difficoltà. Ma diciamocela tutta, i capelli bianchi non sono una difficoltà. Per questo lasciano mio marito completamente indifferente. Lo stesso vale per me. Il suo muso lungo quando la Ferrari non sale sul podio o il Milan perde la finale di Champions (ammesso che ci sia arrivato) sono tragedie che non riescono a scuotermi.

Il marito non è una donna con la barba. La moglie non è un uomo coi tacchi a spillo. Ciascuno di noi porta la peculiarità più profonda, più essenziale: quella differenza antropologica che è essere maschio e femmina. Così siamo stati creati, lo dice già la genesi. Anche se ogni tanto rischiamo di dimenticarlo. Siamo maschio e femmina e quindi diversi. Questa diversità è enorme ricchezza. A volte tutto sembra, meno che ricchezza. Somiglia più a una fregatura. Ci sono stati e ci saranno momenti in cui questa divergenza incolmabile di sensibilità, opinioni, approccio alla vita, ci causerà crisi di nervi o insoddisfazione (possibile che non capisca! Gli lancio segnali chiari da giorni!). A volte proveremo un senso di estraneità che mai avremmo immaginato, noi che sognavamo di passare la vita a tubare come piccioncini. E a leggerci reciprocamente nel pensiero.

Eppure, proprio la diversità ci permette di completarci. A condizione di accettarla, senza metterla in discussione. Perché il vero amore non pone condizioni. Non dice: “Caro, sarò felice di amarti, appena tu accetterai di accompagnarmi in profumeria. Per due ore starai lì ad aspettarmi pazientemente, intanto che scelgo una mascara.” Oppure: “Mia adorata moglie, mi ami e per questo non vedi l’ora di venire a pesca. Domenica sveglia alle quattro. E poi, in mezzo all’umido, per tre ore consecutive. Guai a fiatare, ché i pesci si spaventano”. Eh no. Così non funziona. Pensate a Dio. Gli avete mai sentito dire, in qualunque parte della Bibbia, per bocca di un profeta, attraverso qualunque mistico: “L’umanità la posso amare, ma solo se diventa un poco più umana. Finitela di farvi la guerra, sconfiggete la fame nel mondo, bandite le ingiustizie. Solo allora sarete degni del mio amore”. E invece no. Lui lo sa che siamo peccatori. Eppure ci ama lo stesso. Ci ama a prescindere. Certo, noi non siamo Dio. La nostra natura, ferita e indebolita dal peccato originale, ci porta ad amare in in maniera imperfetta, desiderando il possesso e il controllo sull’altro. Dobbiamo impegnarci a un sentimento più generoso, a mettere da parte la tentazione di prevaricare. Fare il bene dell’altro, prima di pensare al nostro. Dobbiamo amarli non come piace a noi, ma come hanno bisogno di essere amati. Come ha bisogno di essere amato un marito? Inutile chiederglielo. Forse, nemmeno lui non lo sa. Come non lo sappiamo noi. Non esiste un corso di formazione in amore coniugale. Ti dirò la mia.

Amare un uomo vuol dire rispettarlo. Permettergli di sbagliare, senza sentirsi giudicato. Apprezzarlo per quello che fa. O che tenta di fare. Anche se ci amiamo, niente ci è dovuto. Anche se siamo sposati, il matrimonio non è un rogito. Il marito non è una nostra proprietà. Non possiamo disporne a nostro piacimento. Siamo un’unica carne. Ma non ci appartiene. Non dobbiamo cercare di cambiarlo. Arrivo a dire che non dobbiamo nemmeno avere la pretesa di capirlo. Perché capire un uomo, per una donna, è quasi impossibile. L’amore non è un quiz, non c’è la risposta esatta. Forse, dopo qualche decennio di vita in comune, si può arrivare a intuire qualcosa dell’altro. Ma mica tutto! Per questo, è bene fare un profondo atto di fede. In Dio. Affidargli questa creatura misteriosa dell’altro sesso, con cui vogliamo passare la vita. E affidare noi stesse. Perché quando il gioco si fa duro, ci vuole uno bravo. Anzi, il più bravo di tutti.

Anna Porchetti

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