L’arte di rovinare i matrimoni: romanzo per riflettere sul matrimonio sacramento

Lasciate che mi presenti: Il mio nome è Zecca. O meglio, è il nome che mi è stato assegnato quando mi sono unito al gruppo dei ribelli. Avete presente le mosche e le zanzare, che si aggirano nella vostra stanza, di notte, mentre voi vorreste solo dormire? Ecco, noi diavoli siamo questo, ma nelle vostre relazioni. Non so se lo sapete, ma anche i demoni vanno a scuola. Dopo tre anni di studio, ho conseguito la laurea che mi permetteva di diventare ‘disturbatore di base’. Desideravo però proseguire e specializzarmi in qualcosa. Così mi sono iscritto nella scuola che si occupa di insegnare a rubare la purezza e distruggere famiglie…

Dal libro “L’arte di rovinare i matrimoni. La missione di un giovane apprendista diavolo” (Mimep Docete, 2023)

Oggi vorrei parlarvi un po’ di questo romanzo, che, sebbene si serva della fantasia, affronta temi profondamente reali e sempre attuali. Al centro, c’è una coppia di sposi con un bambino: questa famiglia felice deve essere distrutta. Il demone – protagonista del racconto – vuole ottenere, infatti, facendo separare i due coniugi, una “laurea specialistica” che gli consenta di agire nel mondo con professionalità. Per raggiungere il suo scopo e superare l’esame, ha un aiutante (anche se fa tutt’altro che aiutarlo), Piattola, un demone molto impacciato e, agli occhi di Zecca, inutile e fastidioso.

I due, per vicissitudini che non spiego per non fare spoiler, sono “costretti” a collaborare. La coppia, sposata in Cristo, inizialmente resiste. Quand’è che i demoni sembrano avere la meglio? Quando i due sposi smettono di pregare, quando smettono di fidarsi di Dio e di credere che Lui ha un progetto di bene sulle loro vite.

Non posso svelarvi oltre, ma posso dirvi che il libro intende portare un messaggio di speranza. Ogni matrimonio è “sotto attacco” e tante possono essere le tentazioni. Si può arrivare persino ad una vera e propria rottura, all’apparenza irreparabile. L’amore può morire. Questo lo sappiamo tutti. Ciò che voglio dirvi col mio libro, però, è che può anche risorgere. Come?

Abbiamo bisogno di una fede piccola quanto un granello di senape e di buoni amici, che sappiano aver cura di noi quando non abbiamo, per primi, cura di noi stessi. Un altro tassello fondamentale? L’umiltà per chiedere scusa e ricominciare.

Ambientato a tratti sulla Terra, a tratti all’Inferno, ma con lo sguardo sempre rivolto al Paradiso, il libro non banalizza l’esistenza del demonio, né vuole terrificare il lettore. Utilizzando una storia di fantasia, simile ad una favola moderna che segue le orme de “Le lettere di Berlicche” di C.S. Lewis, vuole offrire un piccolo aiuto per ritrovare la fede nell’Onnipotente, anche di fronte alle tentazioni più grandi. Smascherando gli inganni del diavolo (quelli sì che sono reali!) e mostrando la superiorità di Dio, vorrei che il lettore arrivasse a chiedersi, come san Paolo: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?”

Un libro per sorridere molto e commuoversi; per scoprire la grande potenza del sacramento del matrimonio e per capire che l’indissolubilità non è tanto “opera nostra”, quanto un “dono da accogliere”. Il “per sempre” dobbiamo volerlo, ma con le sole nostre forze è un’impresa titanica.

Rovinare un matrimonio significa compromettere la comunione degli sposi. Lasciare che sia Dio a modellare la nostra relazione significa, invece, far sì che la comunione cresca o ritorni in tutta la sua bellezza, anche dopo le tempeste peggiori. A Luca e Chiara del mio libro succede, a me, a noi, a voi?

Per acquistare o regalare il libro: L’arte di rovinare i matrimoni | Casa Editrice Mimep Docete

Cecilia Galatolo

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Il matrimonio non aggiunge nulla? La testimonianza di Lucia

Molti credono che il matrimonio in Chiesa non porti “nulla di nuovo”: non serve, in quanto non aggiunge niente all’amore di una coppia. Certo, aggiunge poco o nulla se gli sposi non accolgono la presenza di Dio in loro, tra loro. Quel dono va fa fatto fruttare con fede, altrimenti resta un tesoro sepolto. Il punto è che il Signore non può amarci e arricchirci contro la nostra volontà. Se, però, “sposarsi in chiesa” diventa “sposarsi in Cristo” allora cambia tutto. Segue la testimonianza di Lucia, una storia molto delicata e travagliata che, però, ci dà tanta luce.

Sono Lucia e, da alcuni anni, sono seguita dal mio vescovo, un esorcista. Tutti i vescovi sono esorcisti, lo so, ma quello della mia diocesi ha accolto il ministero, lo pratica, e mi sta aiutando a guarire da una situazione particolare, di cui non parlo quasi con nessuno, perché le poche volte in cui l’ho fatto – anche con i sacerdoti – ho trovato poca comprensione, se non indifferenza e resistenza.

Alcuni, poi, ci credono, ma dicono che la mia esperienza “impressioni” e che raccontarla può fare più male che bene. Eppure, è la mia storia, è qualcosa che vivo quotidianamente e se Dio permette una simile croce sicuramente ci deve essere dietro un bene più grande. E io voglio essere testimone della luce, non delle tenebre.

Mia nonna, che non ho mai conosciuto di persona, era satanista. Risalgono a quando aveva quattro anni i primi ricordi che mia madre aveva di una messa nera. Spesso diceva a noi figli, in adolescenza, di guardarci bene da queste cose: perché chi pratica l’occulto non lo fa “per scherzo”.

Una volta divenuta adulta, mia madre ha conosciuto e sposato un uomo di chiesa. I miei, insieme, hanno scelto Gesù, ma questo è costato molto a entrambi, perfino minacce di una certa gravità. Sono riusciti ad allontanarsi da mia nonna e dal suo giro, senza che ci fossero ripercussioni fisiche.

Eppure, mamma non è “guarita automaticamente”. Troppe volte mia nonna con i suoi “compagni” aveva operato riti su di lei.

Non so molto sulle modalità in cui avvenivano queste cose, mamma ha cercato di preservarci da tanta bruttura: ho saputo solo vagamente di galline sgozzate e sacrificate a Satana, di ostie consacrate profanate, di amuleti maledetti. Mia madre era costretta, da piccola, a portare indosso uno di quegli oggetti, sul petto, perché il suo cuore doveva essere “consacrato a Satana”.

Non chiedetemi come si possa arrivare a una simile perversione nella vita e come si possa fare questo ad una bambina. Non me ne capacito. Oggi so solo che tutto questo non si cancella in un giorno.

Io e i miei fratelli siamo cresciuti nel cortile di un convento, dove mia madre “andava a parlare” con un frate che era anche sacerdote. Io non sapevo cosa succedesse lì dentro, l’ho saputo solo una volta diventata più grande: mia madre, in quel convento, riceveva esorcismi, mio padre stava al suo fianco, mentre noi bambini, ignari, giocavamo fuori, con i cagnolini, insieme agli altri frati (super simpatici, questo lo ricordo bene!).

I miei genitori temevano che la nonna, nel suo ambiente, continuasse a farci del male, anche da lontano. Per questo non ci siamo mai allontanati dai sacramenti e da una vita di preghiera assidua, quotidiana. Mentre dico questo, voglio sottolineare che mamma è stata per me una vera testimone di fede, di quella fede che “ti salva letteralmente dal male”. Si è aggrappata a Gesù e lui l’ha riempita di grazie, nonostante non le abbia risparmiato le sofferenze. Però, in effetti, quello che è toccato a mia madre è toccato, in parte, anche a noi tre figli.

Per quanto riguarda me, era fine novembre del 2012, avevo vent’anni, mi ero da poco fidanzata con il mio attuale marito, quando ho avuto le prime manifestazioni fisiche dell’infestazione. Eravamo in un grande santuario dedicato alla Madonna, quando, durante la messa prefestiva di quel sabato, già all’inizio della celebrazione, i miei occhi hanno iniziato a ruotare verso l’alto (mi capita tutt’ora e, spesso, soprattutto durante la Consacrazione, devo mettere le mani davanti agli occhi per nascondere quella reazione involontaria e non impressionare i presenti).

Quel giorno di novembre, per la prima volta, ho visto la mia pancia muoversi avanti e indietro (senza che io facessi nulla) ogni volta che il sacerdote pronunciava il nome di Gesù o dello Spirito Santo.

Sentivo anche le gambe tremare. Al momento della comunione non riuscivo a ingoiare l’ostia, c’era qualcosa che faceva ostruzione nella gola. Mi sentivo soffocare. Quello è stato solo l’inizio.

Non voglio suggestionare nessuno, sono situazioni rarissime. E vorrei anche dire che l’azione ordinaria del diavolo (molto più nascosta) con cui tutti abbiamo a che fare, è sicuramente peggio: la vessazione è dolorosissima, ma per l’anima è “peggio” fare il volere di questo nemico, non riconoscendolo nei pensieri e nei consigli sbagliati che dà al nostro cuore. Insomma, peggio non credere nella sua esistenza che doverci combattere. La lotta spirituale contro di lui, in realtà, avvicina tantissimo a Cristo.

Tornando al racconto, nei giorni, nelle settimane, negli anni a seguire il malessere interiore, le manifestazioni fisiche sono aumentate. Da allora il combattimento è stato incessante, ma con Gesù ho sempre saputo che non dovevo temere.

Ricordo che, da studentessa fuori sede, a volte camminavo per strada per tornare a casa e quasi mi bloccavo per il peso di quella presenza che mi schiacciava. Entravo in chiesa, facevo un segno di croce con l’acqua benedetta, ed era come un refrigerio. Recuperavo le forze e riuscivo a rimettermi in cammino fino a casa. Dio non mi ha mai lasciata, mai.

Da un po’ di tempo sto meglio, i fastidi sono più lievi, sebbene la presenza ci sia ancora e faccia male, ma l’amarezza più grande è avere una “malattia” che per la maggior parte delle persone (compresi sacerdoti!) non esiste. Quanti mi hanno detto, più o meno carinamente, che è tutto frutto della mia fantasia. Capite che fa male sentirsi dire questo, quando tu passi una vita normale fino ai 20 anni, poi, ad un certo punto, devi trascorrere la vita universitaria a nasconderti in bagno perché non riesci a “contenere” i segni di una presenza (che tu senti e riconosci come estranea!) che ti “abita” contro la tua volontà!

Non voglio fare polemica: capisco, davvero, capisco chi non riesce a comprendere… se non lo vivi, le cose sono due: o ti fidi del Vangelo (Gesù parla continuamente di spiriti impuri e persone disturbate in modo anche serio) e di chi te lo racconta …o non puoi sapere cosa significhi e ne prendi le distanze pensando che sia da “creduloni”.

Ad ogni modo, il motivo per cui scrivo qui è che voglio sottolineare il fastidio del diavolo verso il matrimonio. Gioele, fidanzato con me da pochissimo quando tutto questo è venuto alla luce, mi è stato sempre vicino e, seppure a volte si sentisse inadeguato rispetto alla situazione, non ha mai dubitato di noi e di un futuro con me. Dopo tre anni insieme, mi ha chiesto di sposarlo.

Ricordo ancora che da fidanzati, quando ero in preda alla vessazione che si manifestava in modo violento (succedeva soprattutto quando io e Gioele eravamo soli), quando non riuscivo ad alzarmi da una sedia o da un letto per il malessere generalizzato o quando urlavo, lui si metteva lì, vicino a me, pregava il rosario per me e pian piano la situazione rientrava; se eravamo in macchina, con lucidità lui accostava e pregava. Oppure mi accompagnava in chiesa, dove, davanti al tabernacolo, il demonio si calmava. (Il demonio si sottomette solo a Cristo!).

La nostra situazione, però, è cambiata da quando siamo sposati: in Gioele il demonio, da quel momento, riconosce Gesù, allo stesso modo in cui lo riconosce nella Confessione e nell’Eucaristia.

Da fidanzati Gioele pregava, ma non rappresentava Cristo stesso per il diavolo come invece succede da otto anni a questa parte (esattamente dal giorno del nostro matrimonio). Mi credete se vi dico che la stola del mio esorcista e la mano di mio marito (lo ripeto, dal giorno della consacrazione nuziale), su quegli occhi che ruotano impazziti hanno lo stesso effetto? Scende su di me la stessa grazia. Il diavolo trema davanti alla fede benedetta, come trema davanti al crocifisso che il vescovo usa durante le sue benedizioni.

E quando facciamo l’amore (dobbiamo pregare molto prima, perché il demonio mi considera erroneamente “sua” e non vuole che mi doni a mio marito), la pace che vivo è una pace dell’anima. Il diavolo trema letteralmente durante ogni amplesso. Ciò che gli sposi cristiani sanno per fede, io lo sperimento: in ogni atto coniugale avverto la discesa dello Spirito Santo, che rinnova il sacramento. Lo avverto perché il demonio trema, come quando ricevo la comunione.

Ditemi pure che sono pazza: ho sofferto così tanto e ho visto così chiaramente ciò che vi sto dicendo, che i vostri giudizi non mi offendono, né hanno potere di cancellare qualcosa che sperimento e pure con una grande intensità. Oggi so cosa significa il buio dell’inferno, so cosa significa essere tormentati nel profondo e so cosa significa che Gesù lotta per noi e vince, alla fine, le tenebre.

Se racconto la mia storia – a costo di sembrare visionaria – non è per avere compassione, né per spaventarvi: è per dirvi di confidare in Gesù e di restare nella Chiesa anche se a volte delude. E perché sappiate quale grandezza abbiamo nei sacramenti, anche in quello del matrimonio, spesso troppo sottovalutato…

Voglio lasciarvi con un messaggio di speranza: tutto concorre al bene per coloro che amano Dio, anche il male, anche l’azione stessa del demonio! Non si contano le grazie che Dio mi ha donato, non si contano i frutti di bene, le scoperte che ho fatto sul suo amore. Se voi mi chiedeste che cosa mi ha lasciato, soprattutto, questa prova durissima, io vi direi “Tante benedizioni”. Attraverso questa croce grande, ho visto tanto, tanto bene e – paradossalmente, lo so – ho smesso di avere paura del demonio. Perché ho capito quanto Dio mi ama e che gli spiriti impuri si sottomettono a Lui. Oggi so che nulla potrà mai strappare la mia mano da quella di Gesù: nemmeno il diavolo in persona!

Cecilia Galatolo

Santa Gianna Beretta Molla: la tenerezza nel matrimonio e il “sì” alla vita

Non so quanti di voi hanno letto “Lettere”, a cura di Elio Guerriero (Edizioni San Paolo, 2012): è una raccolta di epistole che si sono scambiati Santa Gianna Beretta Molla e il suo Pietro. Sono lettere che raccontano il loro amore, dapprima nel fidanzamento e poi negli anni del matrimonio.

Pietro era spesso fuori per lavoro, non sempre per brevissimi periodi. Scrivere, in quei lunghi giorni di lontananza, era l’unico modo per restare in contatto, in un’epoca in cui non c’erano ancora tutte le tecnologie e i mezzi di comunicazione che conosciamo oggi.

I due sposi, nelle loro conversazioni, si mostrano attenti l’uno all’altra, proiettati verso la felicità del coniuge; si raccontano, si aprono, condividono stati d’animo, gioie e fatiche. E soprattutto si dimostrano l’un l’altra, in tutti i modi possibili, che si vogliono sinceramente bene.

L’ultima lettera è stata scritta da Pietro nel 1961, pochi mesi prima che la moglie morisse, dopo aver dato alla luce la loro quarta figlia. Gianna, infatti, ha sacrificato sé stessa per far nascere la sua bimba, Gianna Emanuela (oggi ancora viva e fervente testimone di fede).

Era sorto un fibroma: sarebbe stato sufficiente asportare l’utero per poter continuare a vivere, ma in quell’utero era custodita già una fragile vita, che Gianna voleva salvaguardare ad ogni costo. Proseguire la gravidanza ha significato per la donna una morte prematura, a 39 anni, e dover lasciare anche altri tre bambini.

Pietro, allora, ha assunto su di sé tutto il carico della famiglia, certo della vicinanza, in modo nuovo, della moglie, operante dal Cielo.

Ha trascorso quasi 50 anni da vedovo. Eppure, dopo la morte della sua amata, non ha mai smesso di ricordarla, di parlarne coi figli, di ringraziarla per averlo condotto ad una “vita nuova”. Geloso di quelle lettere, ha chiesto ai figli di non renderle pubbliche fino a che non avesse raggiunto la sua Gianna.

Oggi, quelle conversazioni sono un dono, soprattutto per i fidanzati e gli sposi: delle vere e proprie catechesi sulla vita coniugale. Questi sposi di Magenta, in provincia di Milano, si sono solo scelti ogni giorno: ed è il miracolo più grande che possa accadere in un matrimonio. Il loro segreto? Avevano Dio al centro.

È bellissimo questo: l’amore vissuto da Pietro e Gianna è cresciuto nel tempo, invece di consumarsi; non si è spento con l’arrivo dei figli, ma è maturato, diventando sempre più saldo. Gesù ha garantito anche a loro il vino buono negli anni.

La tenerezza di Pietro verso la moglie è toccante. È il 7 aprile 1957, si trova lontano da casa per un viaggio di lavoro e scrive: “Non saprei riposare se prima non mi mettessi in affettuosissima comunicazione con te, che vorrei avere sempre vicina, con te, affettuosissima sempre e premurosissima. Ti penso in questo momento con Pierluigi nelle braccia… E bacio e ribacio con tutto l’affetto la fotografia che ho di entrambi”.

La storia di Gianna Beretta Molla mi è entrata nel cuore, quando ero solo una ragazzina, grazie a mia madre, ora in Cielo anche lei. La venerava molto, la stimava, perché la ispirava.

Poco dopo la morte di mamma, decisi di dedicare un romanzo a Santa Gianna, a lei tanto cara. Così, venne alla luce “Tutto procede come imprevisto. Il tunnel diventato ponte grazie a Gianna Beretta Molla” (Mimep Docete, 2020).

Protagonista della storia è Gaia, una ragazza dei nostri giorni, diligente e studiosa, che frequenta l’università di medicina. Nel suo cassetto, tra i desideri da realizzare, ci sono un matrimonio felice e una laurea, magari a pieni voti, per poter diventare medico.

Un giorno, però, il mondo sembra crollare sulle sue spalle. Scopre, infatti, che il fidanzato la tradisce. È in quel momento che “perde la testa”. In un momento del tutto inaspettato, scopre che nel suo grembo c’è una nuova vita: che fare?

Una breve operazione e tutto sarà come prima”, le dicono le amiche, ma Gaia non ci riesce. I genitori la ricattano: non le pagheranno gli studi, se terrà quel figlio. Gaia rivuole indietro solo la sua vita: ha come obiettivo laurearsi. Non può occuparsi di un bambino, crede; di sicuro non senza l’appoggio di nessuno, come sta accadendo. Al tempo stesso non vuole abortire, lei è sempre stata sostenitrice della vita. Che dissidio, che sofferenza.

Nel reparto che la giovane protagonista definisce “il più inutile dell’ospedale” (una cappellina), farà un incontro inaspettato e decisivo, con una persona…

Non vi svelo come, ma anche Gianna Beretta Molla entra nella vita di Gaia e quel tunnel, che sembra senza fine, la condurrà, in realtà, ad una nuova luce.

“Il mondo ha più bisogno di testimoni, che di maestri”, diceva Paolo VI. È proprio così: l’esempio trascina più di mille parole…

Gianna è davvero una testimone credibile e ci ricorda che il nostro è il Dio delle sorprese. Gianna continua a dire con la sua storia di dolore e resurrezione: “Affidati alla Provvidenza e sarai felice”.

Cecilia Galatolo

Per avere maggiori informazioni sul romanzo: Tutto procede come imprevisto | Casa Editrice Mimep Docete

Gli Ulma: la prima famiglia dichiarata beata, dal primo all’ultimo membro

L’anno scorso, la Mimep Docete mi chiese di scrivere un libro sugli Ulma, una famiglia polacca sterminata durante la persecuzione nazista e proclamata beata, dal primo all’ultimo membro, nel dicembre 2022. Mi dissero che erano andati incontro al martirio, per difendere degli amici ebrei che avrebbero avuto morte certa. Mi informai bene sul loro conto, poi accettai l’incarico, entusiasta, sebbene mi rendessi conto che si trattasse di una vicenda drammatica, senza un apparente lieto fine.

La furia nazista, infatti, portò all’uccisione non solo degli ebrei rifugiati in quella casa, ma anche dei coniugi Ulma e dei loro sette figli. In effetti, è una storia in cui il male sembra vincere: una storia che potrebbe farci perdere la speranza e disincentivare il nostro impegno a vivere nell’amore. Eppure, anche la crocifissione di Gesù deve aver lasciato questo senso di amaro, di delusione, di sgomento. Deve aver fatto dire a tanti, mentre lo vedevano appeso a quel legno: “Chi ce lo ha fatto fare a seguire uno che muore così? Che senso ha rischiare la vita per lui, con lui?”

Magari questi inconfessabili pensieri avranno attraversato persino la mente degli apostoli, chiusi in quel cenacolo… dopo averlo abbandonato. Poi, però, è arrivata la Resurrezione, che ha ribaltato ogni cosa e dato senso a ogni ingiuria, a ogni piaga, persino alla morte peggiore che si possa pensare. Le ferite, le piaghe di Cristo, sono diventate feritoie per la luce. Lo sono anche per noi cristiani, oggi e sempre!

Gli Ulma a me hanno trasmesso questo: la Luce di una vita nuova, trasfiguarata dall’amore, e mi hanno ricordato che vale la pena vivere già qui con la fiducia nella Resurrezione. Mi hanno ricordato che l’odio dei nemici può uccidere i nostri corpi, ma nessuno può strappare le nostre anime a Cristo, se gliele abbiamo consegnate.

Dopo decenni, questa famiglia brilla, accanto a tanti altri santi. Li sappiamo vivi, nell’eternità, conosciamo nomi e cognomi, mentre dei loro assassini, vittime più o meno consapevoli del sistema di morte che imperava, nessuno ricorda né il volto, né i nomi. Perché solo l’amore crea e il frutto di chi ha amato rimane.

Tuttavia, a colpirmi molto è stato il modo in cui gli Ulma vissero, prima ancora del modo in cui morirono, ovvero all’insegna della soliderietà e della giustizia. Inoltre, mentre leggevo della loro vita famigliare mi arrivava il calore, l’affetto, la complicità, che regnavano tra quelle mura domestiche. La preghiera scandiva le giornate, insieme al lavoro umile ma onesto.

Le famiglie si evangelizzano attraverso altre famiglie e io mi rendevo conto che gli Ulma avevano tanto da insegnare, anche a me, anche a noi. Decisi, allora, di far tesoro di quanto mi stavano trasmettendo e di impostare il libro non solo come un racconto biografico e nemmeno come un romanzo, bensì pensai ad un percorso a tappe, ad un itinerario per le famiglie di oggi.

Ogni capitolo avrebbe portato il lettore a riflettere su una qualità della famiglia cristiana: fiducia nella provvidenza, apertura delle porte di casa al prossimo, rapporto di solidarietà con il vicinato, cura per ciascun figlio come se fosse l’unico, dedizione per il lavoro. È così che nacque “Un angolo di Cielo in famiglia: i coniugi Ulma, modello di carità” (Mimep Docete, 2024), con cui volevo provare a mettere in luce i carismi propri della famiglia cristiana.

Capitò, però, qualcosa di molto significativo, proprio durante la stesura di questo testo. Ad agosto del 2023, quando la Casa Editrice stava già pensando di assegnarmi questo lavoro, mi scoprii incinta. Iniziai a definire il progetto a settembre e a scrivere in ottobre, mentre nel cuore serbavo la gioia per la vita che portavo in grembo. Proprio in ottobre, però, persi il mio bambino.

Mi colpì un dettaglio: mentre io vivevo il mio terzo aborto spontaneo e consegnavo, non senza dolore, anche quel figlio al Cielo, certa che prima o poi lo avrei conosciuto, mi ritrovai a scrivere di questa famiglia dove l’ultimo membro beatificato è proprio un figlio non ancora nato! Quando la sua mamma è stata uccisa, infatti, lui si trovava ancora nel grembo. Lo lessi come un segnale forte per me. Mi parve di sentirmi dire che la morte non è la fine, ma una linea di confine: la vita continua, va ben oltre, anzi, si rinnova.

Ritornata dopo il ricovero in ospedale, mi rimisi a scrivere più convinta di prima. Lo feci anche in nome di tutte le vite non ancora nate, per ricordare che non finiscono nell’oblio ma dritte dritte nel cuore di Dio. A volte mi domandano: “Perché raccontare storie di santi?” Oggi sento di rispondere: “Per ricordarci qual è la meta. Per ricordarci che siamo fatti per l’eternità e che la nostra anima non morirà mai più”.

Solo così potremo dare davvero senso prima di tutto alla vita quaggiù! Solo così potremo diventare “eroici” nell’amore: infatti, chi si tiene stretta la propria vita (accumulando denaro, voltandosi dall’altra parte se qualcuno ha bisogno, scendendo a compromessi per assicurarsi una comoda tranquillità) la perderà, mentre chi la perde (ovvero la dona, senza paura di nulla!) per il Vangelo …vivrà per sempre. Così è stato e continua ad essere per gli Ulma. Così può essere per ognuno di noi.

Cecilia Galatolo

Come Cristo ama la Chiesa e come Dio ama l’umanità

Oggi parlerò della seconda missione specifica degli sposi, Come Cristo ama la Chiesa e come Dio ama l’umanità (vedi puntate precedenti: prima / seconda).

Purtroppo, tante persone decidono di sposarsi in chiesa senza capire esattamente quello che accadrà quel giorno, pensando magari che il loro amore sarà semplicemente benedetto da Dio e che sarà lecito poter fare l’amore senza commettere peccato. Forse ho estremizzato troppo, ma non c’è la consapevolezza che con il Sacramento del matrimonio avviene una vera e propria effusione dello Spirito Santo e che, anche se non lo vediamo con gli occhi, gli sposi si fondono insieme irreversibilmente. Lo Spirito dona una capacità di amare particolare, differente da tutti gli altri battezzati, perché c’è un Sacramento che ha specificato il tipo e la qualità d’amore.

In Amoris Laetitia si legge al n. 121: ”Quando un uomo e una donna celebrano il sacramento del matrimonio, Dio si “rispecchia” in essi, imprime in loro i propri lineamenti e il carattere indelebile del suo amoree al n. 73: Il matrimonio cristiano è un segno che non solo indica quanto Cristo ha amato la sua Chiesa nell’alleanza sigillata sulla croce, ma rende presente tale amore nella comunione degli sposi”.

La parola “amore” penso che sia una delle più inflazionate e anche distorte come significato, perché si definisce l’amore in base al proprio sentire e al proprio piacere, per cui si tradisce per amore e addirittura si uccide per amore (per quello che si crede sia amore ma che è tutt’altro).

Quindi è necessario chiarire quale amore sono chiamati a distribuire e a testimoniare gli sposi (non con le proprie forze, ma in forza della Grazia ricevuta): quello che ci ha mostrato Gesù nella sua vita e soprattutto nella sua passione e morte in croce.

Anche perché, quando ci sposiamo, sembra tutto bellissimo e perfetto, ma la fase dell’innamoramento è transitoria, i nostri occhi e le nostre orecchie cominciano a rilevare prima o poi la realtà e cioè che abbiamo tutti pregi e difetti, ferite provenienti dalla famiglia d’origine o da altre situazioni, oltre a peccati e zone oscure sconosciute addirittura a noi stessi. Ma questo non deve preoccupare, siamo fatti così, basta esserne consapevoli e andare oltre alle illusioni e alle idee sbagliate che ci siamo fatti.

Gesù ha dato tutto, non si è tenuto niente per sé, ha perdonato il male ricevuto e ha continuato a dire, nonostante tutto, “Io ti amo”; ha dato il primo boccone a Giuda, gesto che veniva rivolto alla persona più importante della tavola, ha continuato a lanciare benedizioni (e non maledizioni) durante il dolore atroce della crocifissione.

Non saprei come spiegare meglio l’amore che richiamare quello che è successo nella passione e sulla croce, perché non c’è situazione che non comprenda e che non riassuma (ammetto che quando ho dei dubbi o sono un po’ in crisi, ricorro alla Via Crucis commentata). Riuscire a raggiungere tale amore di Gesù verso il coniuge e verso gli altri è impossibile, ma è questa la meta, è questo l’esempio a cui attingere e a cui guardare ogni volta in cui cadiamo. Quest’amore non deve essere teorico, ma tangibile, concreto e diffusivo con tutte le persone che incontriamo, a trecentosessanta gradi.

È inutile affermare “Io darei la vita per te” e poi finire a litigare per la scelta della vacanza, per la marca di latte da comprare o per chi va a buttare la spazzatura. Sottolineo che Gesù continua ad amare la sua Chiesa (Sposa), anche se/quando si comporta da prostituta e decide di allontanarsi, come facciamo noi ogni volta che decidiamo di fare di testa nostra. Infatti, tutta la Bibbia è una storia sponsale tra Dio e il suo popolo: da una parte Dio vuole amare Israele, dall’altra parte c’è un continuo tira e molla della gente che corrisponde oppure no. Mosè non ha fatto in tempo a ricevere i dieci comandamenti che il popolo si è costruito un vitello d’oro, eppure Dio ha scelto di incarnarsi e di morire per noi.

Per le persone separate o divorziate questa missione è particolarmente importante, perché è facile voler bene a chi ti contraccambia, mentre è difficile farlo con chi ti ha voltato le spalle; quindi, testimoniano un volto di Dio particolare, il volto di Gesù, “separato fedele”. Se un separato continua da amare un coniuge che ha deciso di andarsene con un’altra persona, quanto più dovrà amare tutti gli altri, anche il collega che fa i dispetti, il prete che non capisce e l’amico bestemmiatore.

E questo deve avvenire non per trasporto (cioè perché hmi viene spontaneo), ma per Grazia, sull’esempio di Gesù che ama chi è lontano, chi non è amato e chi ha tradito. Naturalmente Dio ci aiuta, ma noi dobbiamo fare la nostra parte, attraverso i Sacramenti e la preghiera, in particolare la messa quotidiana.

Tutte le volte che non amiamo “alla Dio”, tradiamo questa missione: so che è un livello altissimo, ma è lì che ci deve portare la nostra vita: è come voler arrivare sulla luna con una scala, ogni volta che riusciamo, aggiungiamo un gradino a questa scala. Non è necessario fare cose straordinarie, basta vivere bene le nostre relazioni, a cominciare da quella con il coniuge, superando incomprensioni, divergenze, fraintendimenti, egoismi e anche tradimenti.

È la missione degli sposi e d’altra parte l’abbiamo accettata il giorno delle nozze: magari non lo sapevamo, ma ora sì e quindi non possiamo trascurarla, gli sposi cristiani si dovrebbero riconoscere per come amano, non per i discorsi che fanno!

Ecco i prossimi tre articoli sulla missione degli sposi:

Paternità e maternità (1 maggio)

Fraternità (15 maggio)

Annuncio di eternità (29 maggio)

Ettore Leandri (Presidente Fraternità Sposi per Sempre)

Un appello al cuore.

Esatamente 44 anni fa, Giovanni Paolo II tenne una piccola catechesi durante l’udienza generale del Mercoledì, la quale ci aiuterà nella nostra riflessione. L’udienza ha per titolo “Cristo fa appello al “cuore” dell’uomo“.

Riportiamo due brevi passaggi:

Come argomento delle nostre future riflessioni – nell’ambito degli incontri del mercoledì – desidero sviluppare la seguente affermazione di Cristo, che fa parte del discorso della montagna: “Avete inteso che fu detto: Non commettere adulterio; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Mt 5,27-28). […] Oltre al comandamento “non commettere adulterio”, il decalogo ha anche “non desiderare la moglie del… prossimo” (cf. Es 20,17; Dt 5,21). Nella enunciazione del discorso della montagna, Cristo li collega, in certo senso, l’uno con l’altro: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio nel suo cuore”. Tuttavia, non si tratta tanto di distinguere la portata di quei due comandamenti del decalogo, quanto di rilevare la dimensione dell’azione interiore, alla quale si riferiscono anche le parole: “Non commettere adulterio”. Tale azione trova la sua espressione visibile nell’”atto del corpo”, atto al quale partecipano l’uomo e la donna contro la legge dell’esclusività matrimoniale.

La nostra riflessione non vuole toccare il tema dell’adulterio, ma evidenziare come l’azione cattiva non nasca nel corpo, ma nel cuore. Sentiamo spesso sposi che si vantano di non aver mai tradito il coniuge, però le loro parole si riferiscono soltanto all’atto del corpo.

Ma Gesù ci ha insegnato che il problema non sta nel corpo, il quale esterna ciò che c’è nel cuore. E questo è proprio uno dei temi cari a questo blog, e cioè renderci sempre più conto che il nostro corpo è il mezzo espressivo dell’amore, non è l’amore. Il corpo ha la funzione di rendere visibile l’amore, di incarnarlo.

Ciò che dobbiamo curare nella relazione sponsale non è tanto all’esterno, nel corpo, ma ciò che c’è nel cuore, se cureremo quello, in automatico poi le azioni del corpo saranno riflesso di ciò che alberga nel cuore.

Tornando all’esempio di Gesù riguardo ad un adulterio: se l’uomo non guardasse quella donna per desiderarla, non ci sarebbe poi l’atto carnale. Quindi il problema sta nel cuore, è lì che quest’uomo ha deciso di guardare la tal donna, è lì che l’ha desiderata.. la frittata è già fatta!

Un bravo sacerdote ci fece capire questo con un esempio molto semplice: quando hai il raffreddore è inevitabile lo starnuto, quello che devi curare è il raffreddore e non lo starnuto che ne è il sintomo.

Ecco perché il Papa fece questo appello al cuore, per esortarci a porre attenzione a ciò che c’è nel cuore. Dobbiamo imparare sempre più a sondare cosa c’è nel nostro cuore, nel nostro intimo, la stanza intima dove si prendono le decisioni, dove la nostra coscienza deve vagliare tutto e rigettare ciò che non è conforme alla legge di Dio.

Molti sposi sembrano impantanati come nelle sabbie mobili, ed ogni volta ci raccontano la stessa solfa, ma finché non decidono nel cuore di amarsi con lo stile di Dio, non cambierà mai niente.

Coraggio sposi, il Signore ha lanciato un appello al nostro cuore, rispondiamo con generosità, Lui ripaga già in questa vita 100 volte, oltre ogni aspettativa.

Giorgio e Valentina.

Amarsi: una scelta consapevole

“Amarsi è una scelta quotidiana”, era una delle frasi sentite più spesso da quando io e il mio attuale marito abbiamo iniziato a interessarci alla vita matrimoniale. Era diventata un mantra ed era così in loop nella mia testa che anche io lo dicevo… pur non capendone appieno il senso.

Quando mi fermavo a riflettere dicevo razionalmente tra me e me che, in realtà, non è possibile scegliere di amare. L’amore è un sentimento che viene da dentro e che non puoi controllare, è lui che guida, è spontaneo. Puoi scegliere di essere fedele, di rispettare, di perdonare, ma non di amare. Capite dov’è la falla? Io l’ho capita dopo un anno di matrimonio (Bonjour!).

Quel mio ragionamento, alquanto comune, portava in sé qualcosa di incoerente; ci dice che “l’amore c’è finché dura”, in totale opposizione all’amore stesso la cui sola parola “a-mors”, cioè “senza morte”, basta per descrivere che cos’è l’amore; in più riduce l’amore a mero sentimentalismo che si aggiunge alle altre cose: fedeltà, passione, misericordia, serenità.

Ho letto libri, ho ascoltato catechesi sull’amore, ho provato a capirne l’essenza contemplando Dio, che è Amore, ma solo nel matrimonio ho avuto la grazia di iniziare a toccare con mano cosa vuol dire amare consapevolmente e sceglierlo ogni giorno. Dopo un anno di matrimonio l’enfasi iniziale della vita nuova passa, la magia del “vissero felici e contenti” diventa impegno e responsabilità e tutte le “prime volte” non sono più le prime, giustamente e lode a Dio per questo, anche se ammetto che lo stupore e le sorprese non finiscono di certo.

Provo a utilizzare due immagini per descrivere ciò: lo sposo, o la sposa, diventa pane quotidiano: essenziale, nutriente, su cui puoi contare, frutto del lavoro dell’uomo, che mette insieme fatica, attesa, dedizione e delicatezza. Se Cristo Gesù ha usato il simbolo del pane per parlare di Sé ed essere costantemente presente per la Sua sposa, così anche noi per il nostro sposo, la nostra sposa; la seconda immagine è quella di un albero: le radici, che sono l’amore, ben salde nel terreno alimentano i rami che ne danno pienezza, questi sono: pazienza, complicità, passione, fedeltà, perdono, consolazione… tutte queste cose non sono in aggiunta all’amore ma sono le “figlie”.

Ma un albero non vive in eterno e spontaneamente, ed ecco che entra in gioco la scelta: curare il terreno, potare i rami, sradicare le erbacce, difenderlo da parassiti e tarli, questa è la cura necessaria affinché l’albero possa crescere vigoroso, possa essere riparo e resistente alle tempeste. Così, ogni giorno, scelgo di aver cura di mio marito, di apprezzarne la bellezza e la fragilità, di allontanare da lui ciò che lo può ferire. Si può fare tutti i giorni? Sì, ogni giorno fino alla fine, è la promessa degli sposi. È semplice? No, a volte costa dare la priorità all’altro. È spontaneo? Assolutamente no, è una scelta consapevole. L’amore è maturo e porta buoni frutti quando abbiamo la consapevolezza dell’amore.

Francesca Parisi

La Divina Misericordia nelle relazioni familiari

Domenica sarà un giorno speciale: quello dedicato alla Divina Misericordia. Di che cosa si tratta esattamente? E che rapporto c’è tra essa e le relazioni familiari, tra coniugi e con i figli?

Innanzitutto è importante dire che la Divina Misericordia è considerata – come si recita nelle litanie stesse – “il massimo attributo della divinità”: questo significa, l’abbiamo appena sperimentato nella Resurrezione, che il Signore non è solo giusto giudice ma è anche un Dio che perdona chiunque si penta dei propri peccati, riconosca i suoi sbagli e ritorni a Lui con cuore pentito. Diciamo la verità: se Gesù non fosse stato misericordioso come avrebbe potuto dire “Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34), all’apice delle sofferenze fisiche e morali, straziato e appeso al legno della croce? Egli ci ha lasciato un esempio grandissimo e rivoluzionario, capace non solo di superare la cosiddetta legge del taglione – occhio per occhio, dente per dente – ma di offrire uno sguardo nuovo sui rapporti tra noi e tra noi con Dio.

La Chiesa, nella prima domenica dopo la Santa Pasqua, ci invia a riflettere sul mistero della misericordia: per noi adesso, concretamente, che cosa significa festeggiare e onorare la Divina Misericordia? Che cosa può aiutarci nel comprendere, prima, e nel mettere in pratica, poi, l’invito di Gesù:siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36)? Ci sono due componenti che dobbiamo essere capaci di fondere insieme: quella liturgico-spirituale e quella affettivo-familiare. Per penetrare con il cuore questa caratteristica unica del nostro Dio – distante anni luce dalle logiche umane, di ieri come di oggi – è fondamentale sapere, o ricordare, che oltre agli accenni evangelici tutto ciò che ruota attorno alla Divina Misericordia è stato rivelato da Gesù a Faustina Kowalska, santa suora polacca vissuta agli inizi del Novecento e universalmente nota come “apostola” della misericordia. Capiamo la portata di questa manifestazione? È Dio stesso che ha desiderato svelarci le fattezze del Suo volto, donandoci la bellissima preghiera della Coroncina e indicandoci le tre del pomeriggio come “ora della misericordia”, per ricordarci il momento esatto in cui Cristo spirò.

Disse Gesù a Santa Faustina: “Desidero che la festa della Misericordia sia di riparo e rifugio per tutte le anime, e specialmente per i poveri peccatori (…) riverserò tutto un mare di grazie sulle anime che si avvicinano alla sorgente della Mia Misericordia. L’anima che si accosta alla confessione ed alla Santa Comunione riceve il perdono totale delle colpe e delle pene. In quel giorno sono aperti tutti i canali attraverso i quali scorrono le grazie Divine. Nessuna anima abbia paura di accostarsi a Me, anche se i suoi peccati fossero come lo scarlatto” (Diario, 699). Riveló anche: “La sorgente della mia Misericordia venne spalancata dalla lancia sulla croce per tutte le anime; non ho escluso nessuno” (Diario, 1182). E ancora: “L’umanità non troverà pace finché non si rivolgerà con fiducia alla Mia Misericordia” (Diario 300).

Come detto prima, però, oltre alla conoscenza ed alla pratica nella preghiera è necessario essere in grado di trasformare in vita gli inviti ricevuti, a proposito dei quali è sempre Gesù che ne ha indicato la via: “Devi mostrare Misericordia sempre e ovunque verso il prossimo; non puoi esimerti da questo, né rifiutarti né giustificarti. Ti sottopongo tre modi per dimostrare Misericordia verso il prossimo: il primo è l’azione, il secondo è la parola, il terzo la preghiera. In questi tre gradi è racchiusa la pienezza della Misericordia ed è una dimostrazione irrefutabile dell’amore verso di Me. In questo modo l’anima esalta e rende culto alla Mia Misericordia” (Diario, 742).

Ecco dunque che il Cielo ci ha fornito sia la ricetta che il farmaco: essere misericordiosi verso il coniuge, i figli o chiunque entri in relazione con noi significa guardare oltre la pagliuzza che c’è nei loro occhi, oltre i difetti, le povertà materiali o spirituali e al di là delle mancanze o delle leggerezze perché in essi c’è innanzitutto una persona voluta e amata da Dio. Non possiamo invocare la misericordia e poi essere i primi tiranni, i primi accusatori, i primi giudici degli altri! Approcciarsi alle persone in questo modo non significa solo tradurre nella pratica il comandamento dell’amore ma provare ad amare Dio nella maniera che Lui stesso ha voluto.

La misericordia, attenzione, non è un premio vinto una volta per tutte ma un percorso, una scelta da compiersi ogni giorno e nessuno può dirsi esperto né arrivato perché le relazioni, a volte, mettono a dura prova; la cosa importante è non lasciarsi abbattere ma vincere quotidianamente pigrizia e mentalità dominante per amare e lasciarsi amare, sentirsi perdonati e sforzarsi di perdonare. Guardare al marito, alla moglie, ai genitori, ai figli, ai parenti, agli amici o ai colleghi con gli occhi della misericordia, allora, non vuol dire essere illusi, disincantati e disposti a subire passivamente offese o soprusi ma provare ad andare al di là della scorza puramente umana per scorgere l’anelito divino e la bontà che Dio ha posto nel fondo del cuore di ciascuno di noi. Solo così potremo essere veramente coerenti con quanto pronunciamo nel Padre Nostro: “rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”.

Che bellezza, che grandezza, che sconcertante modernità l’amore misericordioso di Gesù! Altro che favolette per deboli … questa sì che è roba forte! Preghiamo, quindi, di essere capaci di accogliere e vivere questo messaggio straordinario ed essere pronti ad unirci, con le labbra ma soprattutto con il cuore, al coro che inneggia: “Misericordias Domini in aetenum cantabo!”.

Fabrizia Perrachon

Ci credo perchè anche io sono risorto grazie a Lui!

La resurrezione. Cosa è la resurrezione? Ci crediamo davvero? Crediamo davvero che Gesù è morto e risorto? Cosa significa nella nostra vita che Gesù è risorto? Cosa ha cambiato? Se ha cambiato qualcosa. Nel nostro matrimonio quanto c’entra la resurrezione?

Queste sono delle domande che ieri, in un momento di meditazione personale, mi sono posto. A me stesso. Perchè se non credi che Gesù sia il risorto non ti cambia la vita. Tanti credono che gli insegnamenti del Cristo siano belli e condivisibili. Tanti pensano che Gesù sia un esempio di vita. Ma tanti non credono che sia davvero risorto. Ci credono forse a parole ma poi nei fatti vivono come se la resurrezione non c’entrasse davvero con la loro vita.

Durante la notte della Veglia Pasquale durante la benedizione del cero abbiamo ascoltato tra le altre cose questa affermazione che risale a un’omelia di sant’Agostino: Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!

Io sono arrivato a credere che nella nostra vita per arrivare davvero a comprendere la resurrezione abbiamo bisogno di passare dalla sofferenza. Per me è stato così, per Luisa è stato così. Mi è piaciuta molto la definizione di don Luigi Maria Epicoco di resurrezione. La resurrezione è un imprevisto.

Ci sono dei momenti in cui nella nostra vita non riusciamo a vedere una luce. Le cose non vanno bene. Ci sentiamo bloccati. Può essere il lavoro, una malattia, un lutto, una ferita relazionale, una relazione andata male. Ognuno ha la sua storia. L’incontro con la resurrezione – dice don Luigi – è un fatto che risignifica la vita. Ma tutto parte da un fatto traumatico, da un dolore. San Paolo cade da cavallo. Dobbiamo fare esperienza – spesso attraverso il dolore – che non ci bastiamo. Che da soli non troviamo la via d’uscita.

La differenza è tutta nel modo con cui affrontiamo la prova. Se ci chiudiamo e davanti a noi non riusciamo a vedere null’altro che buio subentra la disperazione. Se invece ci apriamo ad accogliere l’imprevisto di Dio ecco che arriva – presto o tardi – la resurrezione. Nella storia mia e di Luisa è stato così. Ma non voglio parlare ancora di noi.

Mi viene in mente Ettore che scrive sul blog. Lui è risorto dalla separazione con la moglie proprio non chiudendo la porta a Dio ma restando in ascolto e in attesa di quell’imprevisto. Imprevisto che è arrivato. Ed è risorto. Non come si aspettava lui. E’ ancora separato dalla moglie ma ha trovato una guida sapiente in don Renzo Bonetti, una moltitudine di amici, un senso d’amore anche in quella separazione e ha compreso come potesse ancora rendere fecondo il suo matrimonio seppure nella separazione. Ora è una persona risorta e paradossalmente più consapevole ora dell’amore di Dio.

Auguro a tutti, qualsiasi sia la vostra situazione, la vostra storia e le vostre sofferenze, di poter dire: Gesù è risorto veramente! Ci credo perchè anche io sono risorto grazie a Lui! E se non vi sentite ancora risorti non smettete di attendere quell’imprevisto di Dio. Che non sarà probabilmente come voi vi aspettate e dove voi lo cercate.

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Le sette parole di Gesù per gli sposi

Siamo giunti così a sabato. Questa sera vivremo la veglia pasquale. Senza la Pasqua nulla avrebbe senso. Pochi ci pensano, ma Cristo su quella croce ha celebrato le sue nozze con noi. La croce è stata talamo consacrato. Sulla croce ha offerto tutto di sè. Tutto fino a dare la vita. L’amore di Cristo, inchiodato alla croce, è un amore che ogni sposo e ogni sposa dovrebbero prendere ad esempio e cercare di emulare. In quel momento così terribilmente importante, Gesù ci affida sette parole. Cercherò di declinarle e attualizzarle nella vita di una coppia di sposi.

Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Lo sposo perdona sempre. Fa di più! Intercede presso Dio e offre la sua vita per la salvezza del coniuge. Noi lo facciamo o ci lasciamo vincere dal rancore e dall’orgoglio?

Oggi con me sarai nel paradiso. L’amore non guarda il passato. Ha la memoria corta per il male subito. L’amore ha memoria lunga solo per il bene ricevuto. La persona che ama si commuove del pentimento e non smette di credere nell’uomo o nella donna che ha sposato.

Donna, ecco tuo Figlio … Chi ama davvero è come Gesù. Non pensa a sè. Gesù è sulla croce, sta morendo, ma si preoccupa delle persone che ama. Non di se stesso. Questo è l’atteggiamento che dovrebbe caratterizzare l’amore degli sposi. Lo sguardo sempre verso l’altro.

Ho sete. Siamo fatti per essere amati. Gesù soffre la sete del corpo certamente. C’è un’altra sete più profonda, La sete di un cuore che vorrebbe essere riamato da quegli uomini a cui ha dato tutto. Così anche noi sposi. Non smettiamo di dissetarci alla fonte del nostro amore. Non cerchiamo di spegnere la nostra sete con altro. Mettiamo al primo posto Dio nel nostro matrimonio e la nostra famiglia. Prima del lavoro, prima dei soldi, prima delle famiglie di origine, ecc.

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ci passiamo tutti prima o poi. Sperimenteremo, o abbiamo già sperimentato, momenti si solitudine profonda. Momenti in cui il nostro matrimonio diventa croce. Non riusciamo più a vedere la presenza di Dio nella nostra storia. Coraggio! Gesù stesso ci è passato. Lui ci insegna che non dobbiamo mollare.

Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Anche nel nostro matrimonio è importante conoscere, anzi riconoscere, che il nostro sposo (sposa) non è Dio. Non è è lui/lei che ci può rendere felici e dare senso alla vita. Solo l’abbandono in Dio ci può rendere capaci di essere sposi liberi di amare gratuitamente e incondizionatamente la persona che abbiamo sposato.

È compiuto.  Il nostro amore è compiuto quando riesce a spingersi oltre ogni egoismo e ogni difficoltà. Solo così le nostre morti diventano occasione di resurrezione e di nuova vita, per noi, per il nostro coniuge e per la nostra relazione.

Non mi resta che augurare a tutti una meravigliosa celebrazione della Pasqua.

Antonio e Luisa

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Lavanda dei piedi: il sacramento degli sposi

Oggi inizia ufficialmente il Triduo. Entriamo nei tre giorni più importanti della nostra liturgia e della nostra fede. Il Natale è bello, è importante, tutto quello che volete, ma se tutta la vita terrena di Gesù non si concludesse con la resurrezione nulla avrebbe senso. In questo Giovedì Santo la liturgia mette al centro un gesto specifico. Già, quella strana tradizione che nelle nostre chiese vede il celebrante inginocchiarsi per lavare i piedi a dodici fedeli. Non so se ci avete mai pensato: Giovanni è l’unico evangelista che dedica tantissimo spazio alla lavanda dei piedi e molto meno all’ultima cena, all’istituzione dell’Eucarestia. In apparenza una strana scelta. L’Eucarestia è il fondamento della nostra Chiesa. E’ la presenza viva dello Sposo, che in ogni Messa si rende nuovamente e misteriosamente presente. Cosa ci vuole dire Giovanni? Giovanni vuole mettere in evidenza non l’Eucarestia in sè, come invece hanno fatto gli altri evangelisti, ma lo scopo dell’Eucarestia. L’amore di Dio è presente nella Chiesa quando diventa servizio. Quando ci si china sulle miserie del fratello, sui suoi peccati, sulle sue povertà, sulle sue caratteristiche e atteggiamenti meno amabili.

Nella mia riflessione personale ho visto l’importanza e la complementarietà di questi due gesti. L’Eucarestia che diventa nutrimento, speranza, accoglimento e forza per ogni cristiano. L’Eucarestia sacramento affidato al sacerdote per il bene di tutta la Chiesa. Ma non basta l’Eucarestia. Serve la lavanda dei piedi. Serve il nostro impegno personale. Serve la nostra volontà che diventa amore concreto. Serve l’amore vissuto e sperimentato. Per questo mi piace considerare la lavanda dei piedi il nostro sacramento di sposi.

Il nostro sacerdozio comune di sposi battezzati si concretizza in tutti i nostri gesti d’amore dell’uno verso l’altra. Siamo soprattutto noi sposi a dover incarnare questo gesto nella nostra vita. Siamo noi immagine dell’amore di Dio. Se il sacerdote, attraverso l’Eucarestia, dona Cristo alla Chiesa, noi sposi, attraverso il dono, il servizio e la tenerezza, doniamo il modo di amare di Cristo, rendiamo visibile l’amore di Cristo. Almeno dovremmo, siamo consacrati per essere immagine dell’amore di Dio. Gesù che si inginocchia per lavare i piedi ai suoi discepoli. Un’immagine che noi sposi dovremmo meditare in profondità e che dovremmo imprimere a fuoco nella nostra testa. E’ così vero quello che dico che fare l’amore, cioè il dono d’amore più concreto e completo è per noi sposi la riattualizzazione del sacramento del matrimonio.

Gesù si inginocchia per lavare i piedi dei suoi discepoli. I suoi discepoli non erano perfetti. Erano gente dalla testa dura. Erano egoisti, paurosi, incoerenti, litigiosi e increduli. Erano esattamente come noi, come sono io, come è mia moglie. Noi siamo sposi in Cristo, e Gesù vive nella nostra relazione e si mostra all’altro attraverso di noi. Noi siamo mediatori l’uno per l’altra dell’amore di Dio. E’ un dono dello Spirito Santo. E’ il centro del nostro sacramento. Noi dovremmo essere l’uno per l’altra quel Gesù che si inginocchia, che con delicatezza prende quei piedi piagati e feriti dal cammino della vita e sporcati dal fango del peccato. Quel Gesù che, con il balsamo della tenerezza è capace di lenire le piaghe e le ferite, e che con l’acqua pura dell’amore li monda e scioglie quel fango che, ormai reso secco dal tempo, li incrosta e li insudicia.

C’è un gesto che è bello donarsi il giorno del matrimonio. Invece dei soliti rituali scaramantici o goliardici sarebbe bello che davanti agli invitati sposo e sposa facessero proprio il gesto di lavarsi i piedi a significare proprio il desiderio di amarsi come Gesù ha insegnato. Bellissima la testimonianza dell’influencer statunitense Stacey Sumereau da lei stessa raccontata sui social e riguardante il suo matrimonio: Mio marito mi ha lavato i piedi durante il nostro ricevimento di nozze, anziché sfilarmi la giarrettiera. La giarrettiera simboleggia l’attrazione erotica e sessuale e mostra un indizio pubblico dell’intimità privata che allieterà i neosposi. L’attrazione fisica è una cosa meravigliosa ed è una parte bellissima del matrimonio; però sono stata felicissima che il mio sposo abbia voluto sorprendermi con qualcosa di molto diverso… Gesù ha lavato i piedi dei suoi discepoli la notte prima di morire in Croce. Questa specie di amore è agape: sacrificio

Antonio e Luisa

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Perdono: la toccante lezione di una testimonianza autentica

Una delle parole chiave del tempo di Quaresima – che con il Triduo che inizia oggi, Giovedì Santo, entra nei momenti culminanti – è perdono; difficile non solo da concedere o da chiedere, a volte siamo in difficoltà nel doverlo spiegare ai nostri figli, a chiunque desideri condividere qualche riflessione profonda ma persino a noi stessi. 

Nel Vangelo di Matteo leggiamo: “Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette».” (Mt 18, 21-22). Non sono certo le capacità nel fare i conti a permetterci di raggiungere un risultato così umanamente difficile quanto piuttosto la matematica del cuore, possibile solo in un autentico cammino alla sequela di Gesù.

Provvidenzialmente, ho ricevuto da un amico la testimonianza che vi propongo di seguito: penso che sia una tra le lezioni più toccanti che abbia mai letto a proposito del perdono e che sicuramente ben ci fa comprendere che cosa significhi “settanta volte sette”, a maggior ragione adesso che stiamo per vivere i momenti più intensi di tutto l’anno liturgico. Che il perdono sia dono, frutto e anticipo della Resurrezione. Buona lettura e Santa Pasqua a tutti!

Maïti Girtanner, svizzera, nata a Aarau nel 1922 da madre francese e padre svizzero da cui ereditò la fede, si trovò a vivere con la famiglia in Francia durante l’occupazione tedesca. Grazie alla sua conoscenza della lingua tedesca, si prodigò per aiutare la popolazione francese occupata ed entrò, con altri giovani nella resistenza francese. Catturata nell’autunno 1943 e condotta in una villa requisita dalla Gestapo nel sud ovest della Francia subì, per mano di un giovane medico tedesco soprannominato Léo, trattamenti sperimentali su tutto il corpo che avevano lo scopo di far confessare i prigionieri. Tali trattamenti, durati per quattro mesi, tra il 1943 e il 1944, provocarono nel suo corpo lesioni tali da non permetterle in seguito di avere figli e suonare il pianoforte, che per lei, pianista, era la vita.

Maïti, già durante il periodo trascorso nella resistenza non nega la sua fede in Dio. Infatti scriverà in seguito: «Si sarà capito da tempo, credo, che la fede nel Dio dell’amore è il cuore della mia vita e ho sempre avuto la preoccupazione di condividerla con chi era attorno a me, semplicemente perché non mi sento in diritto di tenere per me, per egoismo, un tesoro ricevuto gratuitamente. A quanti erano candidati all’attraversamento della linea di demarcazione, avevo tentato di mostrare la forza e il conforto donato da Dio». La stessa capacità di incoraggiare le persone, lo dimostra anche nel tempo di prigionia. Infatti, come lei stessa dirà: «Tentando di fissare su Dio lo sguardo dei compagni di prigionia non avevo paura di parlare a loro della morte e della vita eterna, la quale non è una bella favola utile per far ingoiare la pillola della morte. E’ una relazione con Dio con gli altri che non conoscerà più limiti, impedimenti, delusioni. Questo incontro con Colui che ci ha creato sarà la cosa più importante, più sconvolgente della nostra esistenza».

Quanto Maïti diceva ai suoi compagni di sventura non fu ascoltato solo da loro ma anche indirettamente dal dottor Léo, il quale quarant’anni dopo le telefonò per chiederle di vederla. Malato di cancro, cercò a Parigi colei che aveva torturato, si presentò nella sua casa e le disse: «Non ho mai dimenticato ciò che lei disse agli altri prigionieri riguardo alla morte. Sono sempre stato stupito dal clima di speranza che lei aveva instaurato. Adesso ho paura della morte. Desidero capire meglio». Maïti, lo invita a riguardare alla sua Vita passata, al suo essere divenuto un carnefice. Colui che l’aveva ridotta in fin di vita ora era davanti a lei. Le chiese: «Lei parla del paradiso promesso da Dio. Sono di origine cristiana. Crede ci sia un posto per persone come me in paradiso?» Maïti gli rispose: «C’è posto per tutti quelli che, qualunque sia il peso del loro peccato, accettano di accogliere la misericordia di Dio».

Il colloquio durò più di un’ora al termine del quale il dott. Léo si alzo e le chiese: «Perdono. Le chiedo perdono. Cosa posso fare adesso? Come posso riparare il male commesso?» «Solo con l’amore, la sola risposta al male è l’amore». «Istintivamente, – scrive Maïti – presi il suo volto tra le mani e lo baciai. In quel momento seppi che l’avevo veramente perdonato». Questa donna, divenuta dopo la guerra, terziaria domenica, aveva pregato per quarant’anni per il suo aguzzino, Come lei stessa scriverà: «Compresi che era possibile attraversare il tunnel del dubbio e arrivare al perdono». 1

Fabrizia Perrachon

1 per chi desiderasse approfondire, si tratta del libro: “Resistenza e perdono”, Edizioni Itaca, di Maïti Girtanner (Anno: 2022 – 144 pagine,ISBN/id: 9788852607127).

Che unità di misura serve?

Dal Sal 70 (71) In te, Signore, mi sono rifugiato, mai sarò deluso. Per la tua giustizia, liberami e difendimi, tendi a me il tuo orecchio e salvami. […] La mia bocca racconterà la tua giustizia, ogni giorno la tua salvezza, che io non so misurare. Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito e oggi ancora proclamo le tue meraviglie.

Anche oggi ci lasciamo trasportare dalle parole di questa preghiera, in particolar modo ci ha colpiti l’espressone: “che io non so misurare“. Meditando in questi giorni pensavamo a come non sia possibile far finta che siamo nella Settimana Santa, ma questo Salmo ci ha fornito l’assist.

In molteplici occasioni siamo stati sollecitati a fare memoria delle meraviglie che il Signore ha compiuto nella nostra vita di coppia, ed ovviamente l’elenco si allunga ogni giorno di più, ma spesso tante Grazie ce le siamo un po’ dimenticate col passare del tempo, altre le diamo per scontate, altre ci sembrano un diritto. Se poi passiamo sotto esame la vita personale, l’elenco è talmente lungo che si perde nei meandri della nostra limitata memoria.

Abbiamo avuto la Grazia, tra le tante incalcolabili, di conoscere persone rimaste vedove un po’ troppo precocemente, le quali ci hanno testimoniato come solo grazie alla vedovanza comprendevano l’importanza di ogni singolo gesto matrimoniale, la portata di ogni sguardo, di ogni carezza, di ogni perdono dato e ricevuto, di ogni parola di riconciliazione mancata… ci hanno spronato a non dare mai per scontato che domattina ci sveglieremo l’uno accanto all’altra. Sembrano parole sagge che ogni nonno può dare, ed in effetti lo sono, ma si sa che finché non trovano il terreno giusto nel tuo cuore, quelle parole ti scorreranno come l’acqua sull’ombrello.

Tutto è grazia” ci hanno ripetuto tanti predicatori sulla scia di San Paolo, alla scuola di Santa Teresina di Liseaux, ebbene, sentirlo mille volte aiuta sì, ma poi la vera svolta si ha quando cominci a sperimentarlo sulla tua pelle, quando cominci a capire che anche il respiro che stai facendo mentre leggi è grazia di Colui che ha deciso di donarti ancora un giorno (oggi) affinché tu finalmente ti decida a convertirti, perché se fossimo già pronti per il Paradiso forse ci avrebbe già presi con sé.

E quante Quaresime ci sono state donate? Quante ne abbiamo sprecate? Quanti giorni, mesi, anni ci sono stati dati “in conto deposito” per progredire nella santità attraverso la via del Sacramento del Matrimonio? Ne abbiamo fatto buon uso?

Vogliamo stimolare la vostra riflessione affinché non passi invano un’altra Settimana Santa.

Tra le Grazie non misurabili con nessun unità di misura c’è quella che Nostro Signore Gesù Cristo ci ha acquistati con la Sua passione, morte e risurrezione, e questa Grazia salvifica del Suo sacrificio si rinnova ed è presente in ogni S. Messa, non lasciamoci sfuggire un’altra occasione in questo Triduo. Vi auguriamo di fare una scorpacciata di Grazia durante questo Triduo Santo.

Coraggio sposi, l’unità di misura la decide il Signore, apriamoGli il cuore.

Giorgio e Valentina.

Sprecarsi in amore non è mai uno spreco

Ieri siamo stati a Rovigo dove don Cristian e la pastorale familare diocesana ci hanno accolto fraternamente. Abbiamo raccontato un po’ di cose riguardanti sessualità e relazione e abbiamo terminato con un compitino che abbiamo affidato alle coppie presenti. Il Vangelo di oggi si lega perfettamente a quanto da noi proposto all’incontro e che ora proponiamo a tutti voi.

Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betània, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti. E qui gli fecero una cena: Marta serviva e Lazzaro era uno dei commensali. Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento.

Il Vangelo ci  riporta quanto successo a casa di Lazzaro. Ritroviamo Marta e Maria. Maria si occupa di Gesù, lo adora, lo ama teneramente, gli cosparge i piedi con olio di puro nardo e dolcemente li asciuga con i suoi capelli. Maria, infatti, ama senza riserve, senza limite, oltre il necessario, tanto che il suo amore appare quasi uno spreco. Non è necessario darsi così tanto. Invece Gesù la esalta proprio per questo. Perché l’amore deve essere così.

Nel nostro matrimonio abbiamo rotto il vaso di nardo? Oppure siamo avari e diamo qualche goccia ogni tanto per non sprecarne? Ci sprechiamo in gesti di tenerezza, di servizio, di cura, di attenzione oppure limitiamo tutto al minimo indispensabile, dando per scontato l’amore che ci unisce? Io mi sento molto provocato da questo Vangelo. Ho ancora tanta strada davanti. Ancora troppo mi risparmio. Troppe volte aspetto una ricompensa o una gratitudine per ciò che faccio. Troppe volte mi sento non apprezzato abbastanza. Troppe volte faccio il minimo. Troppe volte mi risparmio e non do tutto, perchè non credo sia così importante. Troppe volte aspetto che sia Luisa a darsi da fare, quando invece potrei anticiparla. Troppe volte non sono capace di amarla fino in fondo.

Questo gesto è raccontato anche nel Vangelo di Marco, l’abbiamo ascoltato nella liturgia della domenica scorsa. È posto proprio all’inizio della Passione, proprio a mettere in evidenza il modo di amare di Gesù che arriverà da lì a poco a donare tutto di sé nella croce. Meditiamo, gente! Buona settimana santa!

Antonio e Luisa

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Vi ho chiamato amici

Tempo di Quaresima, tempo di tutte le pratiche liturgiche, tempo di animazioni, di esercizi spirituali, tempo da dedicare a sé stessi, tempo di bignè di San Giuseppe e tempo di digiuno e tempo da dedicare al prossimo.

Ognuno di noi in questo periodo avrà cercato di geolocalizzarsi con Gesù. A che punto della nostra vita spirituale siamo? Dove sentiamo di avere incontrato Gesù? Gli abbiamo rivolto tutte le nostre domande, tutte le inquietudini e tutti i nostri perché più profondi? Abbiamo ricevuto qualche risposta? Chi lo sa? Solo il tempo ci dirà se ciò che abbiamo ascoltato fino in fondo, sostando davanti al Tabernacolo, era la risposta che desideravamo o era uno di quei no che aiutano a crescere umanamente e spiritualmente. 

Io per prima ho riflettuto sui No ricevuti durante l’anno, alcuni onestamente assecondati come obbedienza da figlia. Se si impara a ritagliarsi del tempo per la preghiera alla fine si arriva ad un dialogo familiare con il Tabernacolo.

Esiste un tempo per ogni cosa, ogni tempo ha il suo colore. Esiste un tempo per la semina e un tempo per il raccolto. Per ognuno di noi è previsto un tempo. Un tempo già designato dal momento della nostra creazione. Un tempo per essere dei figli indisciplinati che faticano a compiere la volontà del padre soprattutto se non è compatibile con i propri sogni, desideri e aspettative. Esiste il tempo del ritorno dove si scorge il volto e l’ abbraccio del padre misericordioso.

La liturgia penitenziale è la parte della Quaresima che aspetto con trepidazione. Vi ho chiamato amici. Quante volte ci nascondiamo dietro i nostri impegni lavorativi – e non solo – per evitare di confessarci? Così come è anche vero che spesso alcuni confessionali hanno gli orari stile ufficio pubblico. Ma fortunatamente si trovano ancora sacerdoti che confessano anche fuori orario.

Siamo all’ inizio della Settimana Santa. La settimana più attesa e bella. La più commovente, quella in cui ogni anno si spera sempre in un finale diverso. Per lo meno io durante la lettura del Passio mi commuovo e spero sempre in un finale diverso.

Quando vuoi bene a qualcuno non vorresti mai vederlo morire. Non vorresti mai vederlo esanime avvolto in un sudario. Non vorresti mai accarezzarlo per l’ultima volta. Non vorresti mai confidargli gli ultimi segreti. Non vorresti mai rinunciare a sentire la sua voce. Non vorresti mai rimanere mentre lui muore. Non vorresti mai chiederti eh mo come faccio senza te? Non vorresti mai vederlo chiuso in un sepolcro. Vi ho chiamato amici.

E ripercorri in quell’ istante le tappe della vita insieme a Lui, quei momenti unici che ti aiuteranno a ricordarlo. Ti sentirai beato per aver condiviso del tempo insieme a Lui li in montagna per aver goduto delle sue parole. Beatitudini il discorso più bello. Ti sentirai beato perché, anche se nel dolore, avrai accanto chi ha pensato a lenire il tuo smarrimento.

Donna ecco tuo Figlio. E lì come Maria sotto la Croce si volge lo sguardo ai figli che rimangono. Concludiamo questo articolo dedicandolo al nostro Fabrizio che ci ha preceduto nella nostra Baita in Cielo, e dedicandolo alle “mamme” e ai ” papà “della nostra Baita perché ogni catechista è sempre un po’ tanto anche mamma e papà e in alcune occasioni, anche se si è adulti, si ha la necessità di una guida che ti indica i passi come sul ponte tibetano.

A presto Simona e Andrea, vi aspettiamo in onda sul nostro programma radiofonico su radio Maria e nel nostro profilo Instagram.

I tanti volti della Sposa

Cari sposi, siamo giunti oramai all’apice dell’amore di Cristo per ciascuno di noi. Da oggi fino a Pasqua la Chiesa, con la sua ricchissima liturgia, ci proietta in un tempo pregnante di significato: non dobbiamo perdere nulla di questi giorni perché stiamo entrando all’interno del cuore stesso di Gesù.

Non è affatto una forzatura affermare che una delle migliori letture di tutta la Parola di Dio sia proprio quella nuziale ed è così che la Settimana Santa costituisce il momento in cui lo Sposo Gesù dona tutto di sé alla Sposa Chiesa.

Un piccolo ostacolo può inserirsi a questo punto, quello cioè di spersonalizzare l’amore di Cristo. Noi siamo la Sposa amata, ciascuna persona come ciascuna coppia ne è la sua piena incarnazione.

Quindi la chiave per vivere al meglio i momenti che la Liturgia di offre da oggi fino a Pasqua è quell’affermazione così cara a S. Ignazio: “per me l’hai fatto”. Dinanzi ad ogni singolo gesto della Passione… ripetiamo nel nostro cuore: per me… per me… per me…

Ma forse più sconvolgente è contemplare non in modo asettico ed imperturbabile tutto il vissuto di Gesù, bensì come qualcosa che ci tocca in prima persona, singolarmente e come coppia. Cioè, provate a guardare ogni personaggio del Passio non tanto come una coppia “x”, così facendo potreste facilmente sbarazzarvene senza problemi pensando “non fa per noi”, quanto come una fase, una caratteristica del mio/nostro rapporto con lo Sposo.

 Allora può risultare che, negli scribi, veda le volte che ho permesso all’odio di entrare nel mio cuore; nella donna che unge le volte in cui ti ho servito gratuitamente e senza calcoli; in Pietro le mie mancanze di coraggio per amarti con decisione e senza mezzi termini; in Pilato quando ti ho trattato come una cosa, misurando i pro e i contro del mio amore; in Simone di Cirene le occasioni in cui sono stato capace di starti vicino e accompagnarti nel dolore; nel centurione, quando ho saputo vedere in te una Presenza che andava oltre l’umano…

Cari coniugi, la Sposa oggi è un poliedro di atteggiamenti, comportamenti estremi e contraddittori… Riconosciamoci in essa e sappiamo con coraggio, alla luce di quanto sta accadendo, rileggere la nostra storia di coppia con Gesù. Allora quel “per me”, diventerà un “per noi” capace di aprirci ad orizzonti nuovi di fedeltà e di sequela di Cristo.

ANTONIO E LUISA

Approfittiamo di questa ultima settimana per riflettere sulla nostra storia, specialmente sui momenti di crisi in cui abbiamo trovato la forza di rinascere. L’amore di Gesù non segue i canoni del nostro mondo, ma è perfettamente in linea con i Suoi. Gesù dona tutto senza aspettarsi nulla in cambio, e siamo chiamati a amare allo stesso modo. Anche se potrebbe non sembrare giusto agli occhi del mondo, è una bellezza unica. Personalmente, non desidero una relazione che non richieda tutto, non voglio accontentarmi delle relazioni fragili offerte dal mondo.

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Il matrimonio secondo Pinocchio /25

Pinocchio mangia lo zucchero, ma non vuol purgarsi: però quando vede i becchini che vengono a portarlo via, allora si purga. Poi dice una bugia e per castigo gli cresce il naso.

Affrontiamo ora il capitolo XVII di questo racconto che si sta svelando come un grande aiuto per la nostra vita poiché le vicende che il burattino affronta sono comuni all’umano vivere di ogni epoca.

Da questo capitolo traiamo tre spunti di riflessione: il primo sull’intervento della Fata, il secondo sulla paura delle medicine e il terzo sulle bugie.

1. L’intervento della Fata. Dopo il consulto pittoresco e inconcludente dei tre medici, la Fata prende in mano la situazione e prepara da sé il farmaco per la guarigione, si può notare come il Grillo non basti più: per poter cambiare vita non è sufficiente l’intervento, che pure è necessario, della coscienza e del suo giudizio sui nostri atti, abbisogniamo dell’intervento della realtà, l’unica che ci può somministrare la medicina, ovvero della Chiesa, qui raffigurata dalla Fata.

Chi vorrebbe un Gesù senza la Sua Chiesa, è come se pretendesse di conoscere/incontrare uno sposo senza mai conoscerne/incontrarne la sposa, essa però è la dispensatrice della Grazie del Suo sposo divino. Certamente qualcuno potrebbe obiettare che Dio è infinito e che, di per sé, non abbia alcun bisogno della Chiesa, in quanto Dio fa quello che vuole, quando vuole e come vuole; questo è vero, ed è talmente vero che ha deciso di volersi servire ordinariamente della Chiesa per far passare la Sua Grazia, poi che in modo straordinario Lui operi comunque non è un nostro problema anche se non v’è sicurezza che avvenga, lasciamo a Dio fare il Suo mestiere, ma noi siamo corpo di questa sposa che si sottomette al Suo sposo.

Ma qual è la medicina che ci dà la Chiesa ? I sacramenti.

2. La paura delle medicine. In un passaggio significativo Pinocchio così si esprime:

-Egli è che noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo più paura delle medicine che del male.

Quanta verità in queste poche parole, se applicate alla nostra vita spirituale si apre la nostra seconda riflessione. Perché i sacramenti sono così snobbati dalla maggior parte dei cristiani cattolici? Sicuramente per una serie di motivi che non vogliamo tirare in ballo, ci basti però ricordare la verità espressa da quel pezzo di legno parlante, e cioè che molti battezzati preferiscono restare a lamentarsi (come Pinocchio che cerca ogni scusa pur di non prendere la medicina) nel proprio stato di peccato piuttosto che di affidarsi alle cure esperte della Chiesa, quella Fata che, senza usare “effetti speciali e colori ultravivaci”, si serve di umili elementi (acqua, olio, pane, vino) per operare i più grandi miracoli. Lasciamo alla sapienza del compianto cardinal Biffi spiegarci in poche righe questo passaggio:

Ma il “principio sacramentale”, che piace poco a noi, piace molto a Colui che unico ci può salvare, forse perché è conforme al suo vivo senso dell’umorismo. Egli probabilmente si diverte a vedere che per avere il cuore trasformato uno non debba soltanto dibattere i suoi problemi entro il tribunale dell’anima, ma anche farsi lavare la testa nel Battesimo e farsi ungere nella Confermazione, così come si compiace di assegnare un uomo (Gesù) come capo e salvatore degli angeli. […] …tra la magia ed il sacramento la differenza è assoluta : nella magia l’uomo cerca di piegare la divinità al proprio volere con mezzi assurdamente sproporzionati; nel sacramento l’uomo cerca di piegare la sua volontà individualista e orgogliosa fino a farla entrare nell’allegro gioco di Dio, che ha deciso di elevare le creature più umili (acqua, pane…) alla dignità di strumenti salvifici per la creatura più alta (l’uomo).

3. Le bugie. Sicuramente uno degli elementi che fa decidere a Pinocchio di dire alcune bugie alla Fata è la paura, ma non è curioso che il Gatto e la Volpe siano ritenuti degni della sua verità mentre la Fata no? Eppure anche questo atteggiamento è rivelatore, non è forse vero che quando la tentazione ci assale conosca la verità di noi stessi nel profondo delle nostre fragilità personali? Perché allora di fronte alla medicina che la Chiesa ci vuole somministrare nascondiamo le nostre malefatte, scusandole ed arrogandoci il diritto di decidere cosa è bene e cosa è male?

Cari sposi, anche il sacramento del matrimonio è una medicina per la nostra anima e per la nostra umanità malata e ferita dal peccato originale, impegniamoci quindi a non rifiutare tale medicina: dobbiamo riscoprire che il nostro consorte è quello giusto per noi, per combattere le nostre cattive inclinazioni, per distruggere il nostro orgoglio e la nostra presunzione, per dilatare il nostro cuore ad amare sempre meglio e sempre di più, per imparare la via del sacrificarsi per l’altro, per non mettere al centro solo noi stessi. Coraggio!

Giorgio e Valentina.

Amore mio, diamoci pace!

Arrivare al “sì, lo voglio” vuol dire arrivare a contemplare la nostra esistenza in una nuova dimensione: «i due diventeranno una sola carne». Tutto diventa un “noi”… ma “io” che fine faccio?

Alcune volte mi è capitato di imbattermi in persone che non contemplano la vita coniugale perché hanno paura di perdere sé stesse, di dover rinunciare alla propria vita e alla propria libertà. Lo definiscono un “sano egoismo” e lo associano ad un – forse a tratti smisurato –  amor proprio.  Lo confesso: c’è stato un tempo in cui anche io ero una di quelle persone. La domanda “ma io che fine faccio?” me la son posta sul serio! La risposta, avuta anni dopo, mi ha sbalordita. Solo dopo aver conosciuto l’amore vero, verso Dio prima di tutto e poi verso me stessa, mi sono resa conto che:

  • 1) amore ed egoismo non sono condizioni associabili,
  • 2) che l’egoismo sano non esiste e
  • 3) che la fine che faccio non è altro che l’inizio della vita eterna.

Amarsi per amare, questo è uno degli insegnamenti fondamentali di Gesù Cristo. Sull’amore sappiamo tante cose, sappiamo che, come scriveva san Paolo, l’amore è paziente, è benigno, non si vanta, non cerca il proprio interesse, tutto perdona, tutto spera e tutto sopporta. Bellissime parole, straordinarie e dolorose allo stesso tempo nella vita vera. Amare, amarsi e lasciarsi amare come Dio comanda raggiunge il suo apice nel matrimonio, quando l’amore diventa una costante quotidiana. Non ci sono petali che cadono dal cielo e violini, certamente, ma ci sono occasioni su occasioni per compiere l’amore. Stare sul pezzo non è sempre facile e non si tratta mai di spontaneismo, amarsi in modo maturo è una scelta che necessita volontà e cuore, perché come mi è sempre stato detto: “ad amarsi si impara” e si impara praticando l’amore volta per volta.

Sulla rettitudine di cuore e di intenzioni possono gravare tante insidie: la stanchezza, i problemi economici o di qualsiasi altra natura, la ciclicità ormonale, i propri malumori, i sensi di colpa, la ricerca di appagamento dei propri bisogni e, guardando alla mia esperienza personale, aggiungerei anche “i postumi di una vita senza Dio”, dove c’era tutto, ma solo a un livello superficiale; dov’ero toccata e persuasa dalla logica del mondo del “fare per fare” e non del “fare per amare”. La coppia è il primo bersaglio di ciò, in ogni suo ambito.

Ma come affrontare tutto questo? Insieme. Sembra una cosa da Baci Perugina ma è solo l’unica soluzione possibile. Si allontanano dal cuore quei logoranti pesi quando, faccia a faccia, possiamo dire Amore mio, diamoci pace!. Gesù diceva «vi lascio la pace, vi do la mia pace», così noi sposi, in quanto sacerdoti dell’amore, ci lasciamo quella pace salvifica che comporta alla riappacificazione con la nostra carne, al guardare con compassione le ferite sanguinanti del passato e a farci dono reciproco di quell’amore che «tutto copre, tutto crede, tutto spera e tutto sopporta», nonostante quella stessa carne ferita ma redenta e benedetta.

Quello che in questa Quaresima mi rimbomba dentro contemplando la Passione di Cristo è “amo tutto di te”. Dio ama tutto di noi, nonostante tutto. Questo è l’amore che, ricevuto, è necessario riversare nel cuore di colui/colei cammina con noi verso la meta.

Francesca Parisi

Il ricordo prezioso di quelle umili Vie Crucis

Una delle pratiche più importanti della Quaresima è senza dubbio la Via Crucis, pregata soprattutto dalle persone di una certa età ma riscoperta anche tra i giovani. Un pio esercizio che nella mia parrocchia è molto sentito tanto che, ogni venerdì, ne sono pregate ben due: una pomeridiana, in Chiesa, prima della Santa Messa ed una serale, all’aperto, animata dai bambini e dai ragazzi del catechismo. Non male, direi, se consideriamo l’aridità spirituale con la quale, sempre più spesso, dobbiamo fare i conti nell’attuale società.

La Vie Crucis che ricordo con maggiore affetto e commozione, tuttavia, sono quelle che teneva Don Erminio Nichetti, l’anziano coadiutore della nostra comunità che con la sua fede integerrima, la sua umiltà disarmante e la sua straordinaria spiritualità ci ha sostenuto per tanti anni, fino a pochi mesi prima della morte, avvenuta nel torrido luglio del 2023. Questo sacerdote, ex-missionario in America Latina, ha portato una profondità religiosa in mezzo  a noi che sono certa rimarrà a lungo: lo si vedeva sostare per diverso tempo in preghiera dopo la celebrazione del Sacrificio Eucaristico perché,  com’era solito ricordarci, “al termine della Messa è come se stessimo scendendo dal Calvario, non possiamo far finta di non aver visto Gesù morire in Croce”.

Ciò che porto indelebile nel mio cuore, come accennavo poc’anzi, sono innanzitutto le Vie Crucis che preparava per il venerdì sera alle ore venti e che pregavamo all’interno della chiesina di campagna nella quale ha svolto il suo ultimo incarico terreno. Nella semplicità e nell’umiltà di quell’edificio – che rispecchiavano perfettamente le virtù dell’anziano sacerdote – eravamo soliti raccoglierci in pochi ma con un desiderio di pregare e di ascoltare le sue meditazioni che ci facevano vincere la stanchezza, il freddo e la pigrizia. Quell’appuntamento, divenuto ormai imprescindibile, scandiva con dolcezza la nostra settimana tanto che non avremmo mai rinunciato, anzi: sempre in compagnia di nostro figlio, allora piccolino, e spesso di nostra nipote, il ritrovarci ogni venerdì sempre allo stesso posto e alla stessa ora ci rendeva consapevoli che stavamo facendo qualcosa di estremamente prezioso per la nostra anima, non solo per quei tre quarti d’ora, ma per tutti i giorni seguenti, fino al venerdì successivo. Finita la Quaresima, sentivamo una forte mancanza: quei momenti di raccoglimento, genuini e sinceri, avevano portato così tanto bene nelle nostre anime che la loro interruzione ci sembrava quasi un torto. Altro che digiuno! Quelle Vie Crucis erano delle vere leccornie spirituali che ci saziavano completamente l’anima e non ci facevano sentire alcuna mancanza. Non erano più un sacrificio ma un’esigenza, un dolce dovere del cuore cui anelavamo e di cui avevamo realmente bisogno.

Ogni venerdì la nostra cara guida spirituale, che da un pezzo aveva superato gli ottant’anni, stampava i foglietti con le varie stazioni e le meditazioni tutto rigorosamente prodotto da lui: scritti, contenuti e stampa. Ci metteva il meglio delle sue conoscenze e capacità, spendendo molte ore e prodigandosi che fosse sempre tutto preciso e puntuale: quanta cura, quanta attenzione aveva per ciascuno di noi! Tutto doveva essere perfetto perché era immagine non solo della sua premura nei nostri confronti, quanto piuttosto dell’amore che Nostro Signore, protagonista del cammino del dolore, ha per tutti noi. Così strutturata, la Via di Gesù diventava l’occasione per riflettere con profondità sui dolori che, nel mondo, affliggono donne, bambini ed emarginati, gli ultimi degli ultimi che tanto assomigliano a Gesù sofferente; essendo stato missionario in Venezuela e Guatemala, il nostro sacerdote ben conosceva le sofferenze delle categorie sociali più svantaggiate, non perdendo occasione per fare dei parallelismi e aprirci in questo modo la mente su realtà lontane che troppo spesso ignoriamo o non conosciamo.

Vissute così, quelle Vie Crucis ci aiutavano ad essere più empatici non solo verso il dolore di Cristo ma anche verso quello che ancora troppi fratelli e troppe sorelle patiscono in questa vita; ma, soprattutto, ci facevano sentire uniti tra noi e con Dio perché permettevano di capire che il dolore non è mai inutile né fine a stesso ma che diventa lo strumento maestro per aprirci alla forza e alla bellezza della fede, nella speranza della Resurrezione. Quanto valore avevano quelle Vie Crucis! Grazie a Don Erminio avevamo riscoperto un pio esercizio di preghiera attuale e modernissimo, conoscendo aspetti sempre nuovi di Gesù ai quali, magari, non avevamo mai pensato. Il mio augurio è che ciascuno possa incontrare una guida spirituale così, capace di amare e di far amare il Buon Dio sopra ogni cosa.

Fabrizia Perrachon 

Sposi: missionari nella vita di tutti i giorni

Prima di sposarsi in chiesa, sarebbe bene comprendere in maniera approfondita cosa ci si appresta a fare, l’impegno che si prende e le relative conseguenze: poiché siamo di fronte a una vera e propria vocazione, è indispensabile acquisire una formazione appropriata. Questo non vuol dire diventare teologi o fare una preparazione di almeno cinque anni come i sacerdoti, non è necessario, ma nemmeno ridurre tutto a qualche incontro dopo cena in prossimità del giorno del matrimonio.

Eppure, gli sposi cominciano anche anni prima a organizzare le nozze, fissando la data, la villa, il catering, la musica, il fotografo, la fiorista, la parrucchiera, il viaggio di nozze etc, mentre l’aspetto più importante, quello spirituale che dovrebbe avere la precedenza, viene completamente trascurato o sottovalutato. Così tutto questo influisce sulla stabilità del matrimonio che cresce sulla sabbia e non sulla roccia, portando spesso alla separazione dei coniugi, con numeri preoccupanti negli ultimi tempi.

La formazione non è naturalmente la sola causa di fallimento, ma ritengo che in molti casi possa fare la differenza: poiché anche io ci ho dovuto sbattere il naso prima di imparare certe cose, vorrei evitare che questo accada ad altri. Quindi ho pensato di parlare della missione degli sposi, sconosciuta a tante coppie, prendendo spunto dalle catechesi di don Renzo Bonetti e aggiungendo alcuni miei pensieri. Ora farò una breve presentazione e poi in fondo all’articolo richiamerò i prossimi cinque, sperando che possano essere di aiuto ai fidanzati, agli sposi e ai separati (fedeli).

Innanzitutto, la missione di cui parliamo non è solo umana, ma, poiché avviene una propria effusione dello Spirito Santo, ha il compito di rivelare Dio e il Suo amore. Amoris Laetitia n. 121: Gli sposi in forza del sacramento vengono investiti di una vera e propria missione perché possano rendere visibile, a partire dalle cose semplici e ordinarie, l’amore con cui Cristo sta amando la Chiesa”.

Quando si pensa alla missione vengono subito in mente i Paesi poveri dove missionari e volontari si danno da fare per aiutare chi non ha niente; io ritengo che sia altrettanto importante, in questo periodo storico, prendere consapevolezza che la missione matrimoniale degli sposi, come quella sacerdotale dei preti, sono un bene indispensabile per la Chiesa e per tutta l’umanità. Avere la coscienza che il matrimonio non è un fatto privato, limitato alla propria famiglia, ma in grado di generare tantissimi frutti e salvare tante persone, può cambiare completamente la prospettiva della propria vita e di conseguenza le scelte da intraprendere.

L’ho detto altre volte, ma lo ripeto: il livello più alto per un cristiano è il battesimo, perché non esiste niente di più importante che diventare figli di Dio ed essere così immortali. L’ordine (sacerdozio) e il matrimonio sono due sacramenti che specificano la grazia battesimale, proprio con lo scopo di affidare una missione specifica e sono fra di loro complementari (quindi non si aggiunge niente al Battesimo, si va solo a specializzare la rispettiva vocazione).

Leggiamo infatti al n. 32 del documento della C.E.I. 1975 “Evangelizzazione e sacramento del matrimonio”: L’Ordine e il Matrimonio significano e attuano una nuova e particolare forma del continuo rinnovarsi dell’alleanza nella storia. L’uno e l’altro specificano la comune e fondamentale vocazione battesimale ed hanno una diretta finalità di costruzione e di dilatazione del popolo di Dio.

Per gli sposi, a differenza del sacerdote, si tratta essenzialmente di fare cose semplici, ordinarie in un certo modo (ad esempio posso cucinare per cena qualcosa per la famiglia perché è il mio compito e perché lo devo fare, oppure posso cucinare la stessa cosa con amore e con l’obbiettivo di far star bene gli altri, aiutandoli anche a superare le difficoltà della giornata).

La missione degli sposi viene portata avanti in forza del sacramento del matrimonio e mediante la sua grazia (non perché siamo bravi), perché dal giorno delle nozze c’è fra gli sposi la presenza sacramentale di Gesù, cioè il Signore è presente (anche se il coniuge non lo sa, non ne tiene conto o non vuole tenerne conto) per aiutare e sostenere la coppia.

Infatti, l’indissolubilità si fonda qui, sulla presenza indissolubile di Gesù e non tanto sulle promesse che si scambiano gli sposi, come è riportato su Gaudium et Spes n. 48: La famiglia Cristiana renderà manifesta a tutti la viva presenza del Salvatore del mondo”. Questa Presenza, che rimane anche se uno dei due decide di andarsene, deve portare a costruire, creare comunione e relazioni con gli altri, anche se c’è chi non ama, non è interessato e non ne vuole sapere niente.

Ecco i prossimi cinque articoli che insieme rappresentano la missione degli sposi:

Immagine e somiglianza, unità e distinzione nell’amore (3 aprile)

Come Cristo ama la Chiesa e come Dio ama l’umanità (17 aprile)

Paternità e maternità (1 maggio)

Fraternità (15 maggio)

Annuncio di eternità (29 maggio)

Ettore Leandri (Presidente Fraternità Sposi per Sempre)

19 marzo, San Giuseppe: “Ecco perchè oggi festeggiamo i papà!”

Giuseppe, lo sappiamo, di Maria era promesso

ma qualcuno, tra loro, fece il suo ingresso;

da un sguardo caduto sul suo addome

egli s’accorse che era un pancione:

“Maria che hai fatto?” pensò nel cuore

e si allontanò per diverse ore.

Nel sonno, però, venne un angelo da Lassù:

“Non temere, è arrivato Gesù!

I tuoi piani non stravolgere completamente,

di lui sarai padre veramente, 

qui sulla terra insieme a Maria

come aveva profetizzato perfino Isaia”.

Un po’ sconvolto e un po’ turbato

Giuseppe dalla fidanzata è tornato:

“Maria, una famiglia noi siamo,

insieme a Gesù lo sai che ti amo”.

Fu così che iniziò una grande avventura,

anche se i conti con una mezza sciagura

di fretta e di furia dovette affrontare:

“Veloci a Betlemme a farvi registrare!”.

Giuseppe e Maria si mettono in cammino

anche se è imminente l’arrivo del Piccino;

quanti passi fatti a piedi, senza lamento,

con lo sguaro su Maria vigile e attento.

In città non c’è posto per loro

si sentono dire come in un triste coro;

“Gesù dove nascere potrà?”

“Vieni, c’è una grotta poco più in là”.

E così, forse un po’ impaurito,

Giuseppe solo ha assistito 

alla nascita del Redentore,

nel momento in cui tutte le ore

per un attimo si sono fermate

perché le leggi per sempre erano cambiate. 

“Così tenero, piccolo e delicato,

eppure per il mondo è stato mandato,

per sconfiggere la morte e il peccato 

affinché ciascuno di noi sia riscattato”.

Giuseppe sapeva ma a nessuno diceva

che la sua sposa era una nuova Eva,

madre e figlia nello stesso momento

per dono di Grazia e vero portento.

Quante cose ha dovuto sopportare,

quanto legno ha saputo lavorare,

quanti sguardi d’amore per il fanciullo

anche quando tutto si faceva brullo

e di nuovo, improvvisamente, scappare

perché la vita di Gesù bisognava preservare.

Che dire poi di quel giorno nel tempio 

quando, scambiato per empio,

Gesù sembrava da tutti scappato:

“Con chi mai si sarà allontanato?”.

Ancora un volta, in silenzio e preoccupato,

Giuseppe in marcia si era incamminato,

sempre accanto alla sua Maria:

“Speriamo di trovarlo, mogliettina mia”.

Gesù, invece, tranquillo se ne stava

perché la Legge del Padre ora insegnava:

“Non sapevate che Lui devo testimoniare 

affinché la gente si possa salvare?”

Giuseppe capisce che l’ora si sta avvicinando

e che quel figlio la storia sta mutando,

“Chissà quanti giorni ancor qui passerà 

prima che in croce trafitto sarà”.

Giuseppe non vide quel grande tormento 

ma dal Cielo senz’altro ne fu sgomento:

guardare il figliolo con cattiveria oltraggiato

e senza pietà percosso e flagellato;

come il peggior criminale mai esistito, 

non gli fu risparmiato nemmeno un dito

ma tutto grondante di sangue e sudore

alle tre tornò dal Padre, il nostro Creatore.

 

Non una parola di Giuseppe è stata riportata

eppure la Bibbia è un’opera accurata;

forse perché è più importante ricordare

non come egli abbia potuto parlare

ma quello che i fatti hanno raccontato:

grande esempio ben proporzionato

tra rispetto, fede e obbedienza,

amore, dedizione ed esperienza.

San Giuseppe fu sposo e papà,

autentico maestro di somma pietà

perché a Maria e a Gesù ha donato 

ciò che mai sarà dimenticato,

tanto appoggio e altrettanta virilità 

il tutto condito da profonda umiltà. 

Ecco perché oggi festeggiamo i papà!

In Giuseppe hanno un’immagine di santità 

a cui tutti sono chiamati:

fatevi forza, non siete scusati!

Questo falegname, com’è scritto nel Vangelo,

vi fa da apripista per il Cielo;

si può essere Lassù, felici e beati,

anche se padri e da anni sposati 

anzi è proprio questa condizione

ad essere sicuro segno di vocazione: 

se moglie e figli con amore e affetto

si portano nel cuore, oltre che sul petto,

per vivere ogni giorno con pazienza e fedeltà 

perche è così che alla vita un sapore si dà.

 

Immagine potente di castità e purezza 

in te abbiamo un modello di saggezza 

e quel giglio bianco e profumato,

semplice simbolo per te usato,

ci ricorda che Dio mai ci abbandona 

pur se la tempesta a volte risuona

perché mai lasciato solo è 

chi confida nell’unico Re. 

Anche se le prove non mancheranno 

tutti in Giuseppe un appiglio riceveranno:

vera impronta del Padre onnipotente

egli è patrono di ogni morente 

perché tra le braccia di Maria e Gesù 

è passato da questa terra alla vita di Lassù,

per sempre in Paradiso beato 

dopo aver tanto faticato.

Anche questo a noi succederà 

se già in vita avremo praticato la carità:

ti preghiamo, Giuseppe, resta a noi vicino 

finché un dì saremo con te, accanto al Bambino.

Fabrizia Perrachon 

L’adultera era già morta, come tanti sposi

Nel Vangelo di oggi viene ripreso un brano molto conosciuto, sicuramente tra i più famosi. I farisei trovano una donna in flagranza di adulterio e la sottopongono al giudizio di Gesù. Ai farisei non importa nulla di quella donna, il loro intento è solo quello di mettere alla prova Gesù per poi poterlo accusare. I farisei fanno riferimento alla Legge data a Mosè. Una legge, come sappiamo, scritta sulla pietra. Gesù con il suo comportamento dimostra uno sguardo carico di misericordia. Riesce e guardare quella donna come solo uno sposo innamorato riesce a fare. Gesù ci dice che la legge di Dio è sì scritta sulla pietra, ma il nostro peccato sulla sabbia. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra.

Gesù ci ricorda una verità cruciale che spesso trascuriamo: Egli non ci giudica in base ai nostri errori, ma ci guarda con amore infinito. Quanto è importante per noi separare la nostra identità dal peccato che commettiamo?

Noi spesso ci comportiamo in modi che non rispecchiano quello di Gesù, ma che assomigliano molto di più a quelli dei farisei che avrebbero voluto prendere l’adultera e lapidarla. Tentano di ucciderla lanciandole addosso delle pietre, pietre che rappresentano la Legge, il decalogo scritto dal dito di Dio sulle tavole di pietra. Il nostro giudizio a volte è spietato: “La Legge di Dio ti condanna perché l’hai tradita.” Quante volte, anche noi, in quanto coniugi, usiamo la Legge di Dio come un’arma contro l’altro. Invece, Gesù non lo fa. Gesù si china a scrivere sulla sabbia. Non lancia alcuna pietra contro l’adultera. Gesù non la definisce adultera. Egli vede una donna, vede quella donna e lei si sente osservata da Lui in tutta la sua interezza, non solo come colpevole di adulterio.

La legge è scritta sulla pietra perché noi potessimo costruire la nostra casa, il nostro matrimonio su di essa. Non per prenderla e darla in testa all’altro. La legge serve per costruire una relazione e non per distruggere l’altra persona. Ricordiamo bene che noi sposi possiamo essere come i farisei ma altre volte trovarci al posto dell’adultera.  A volte siamo come l’adultera perché adulteriamo il nostro amore, mettiamo il nostro egoismo davanti alla relazione. Altre volte siamo come i farisei, pronti a giudicare e condannare l’altro non appena scivola in qualche debolezza o semplicemente sbaglia più o meno consapevolmente.

Facciamo memoria delle tante volte in cui ci siamo sentiti come l’adultera di fronte a Gesù. Tante volte ci ha perdonato. I nostri peccati per Lui sono come scritte sulla sabbia. Egli non giudica i nostri errori, ma ci osserva con lo sguardo di chi è innamorato e vede la meraviglia della persona, non la bruttura del peccato. Egli ci mostra la strada: l’adultera non è il suo peccato. Infatti, nel Vangelo non troverete mai scritto “l’adultera”, ma “una donna sorpresa in adulterio”. Gesù non l’avrebbe mai chiamata “adultera”. Non avrebbe mai limitato una persona al suo peccato.

Gesù ha saputo guardare quella donna non con il disprezzo dei farisei, ma con lo sguardo dell’innamorato che scorge tutto il valore della sua amata. Ciò che siamo chiamati a fare noi sposi l’uno con l’altra. Il segreto che ho imparato nel mio matrimonio, per essere capace di scrivere sulla sabbia le mancanze della mia sposa e non di lanciarle pietre, come magari facevo all’inizio della nostra storia insieme, è proprio essere capace di fare memoria. Memoria di tutte le volte che ho sentito l’amore misericordioso di Gesù su di me e sulla mia storia e memoria di tutte le volte che ho mancato nell’amare la mia sposa e lei mi ha perdonato. La cosa bella è che più passano gli anni e più la mia memoria si riempie di perdoni dati e ricevuti e questo mi lega sempre più alla mia sposa in una relazione toccata dalla fragilità e dagli errori e per questo capace di far sperimentare un amore gratuito e benedetto da Dio.

Gesù poteva lanciarle una pietra ed ucciderla. Ha scelto di guardarla con amore affinché lei potesse sentirsi amata e così tornare a vivere abbandonando il peccato che la stava uccidendo giorno dopo giorno. Non l’ha uccisa perché era già morta ma con il Suo sguardo le ha restituito la vita.

Antonio e Luisa

Le tre effe

Cari sposi, uno dei ricordi più forti del grande Giubileo del 2000 per me, oltre all’indimenticabile veglia di Tor Vergata, è stata la commemorazione dei martiri della fede del XX secolo al Colosseo. Il testo che faceva da sfondo all’evento fu proprio quello del chicco di grano, come lo è anche nell’odierna liturgia.

In occasione di questo incontro con pellegrini di origine greca, venuti anch’essi a Gerusalemme per la Pasqua, Gesù utilizza un’immagine mutuata dal mondo agricolo per esprimere una logica di fede nuova: la morte che prepara una nuova vita.

Questa logica ben si adatta alla vita sponsale ed in essa troviamo le tre “effe”. La prima è FEDELTA’. La fedeltà sponsale è appunto promettere di “esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita”.

Questa fedeltà implica morire a sé stessi, rinunciare a qualcosa di noi, a volte buono, a volte meno buono, ma in definitiva che mi porta a crescere nella disponibilità e nella donazione reciproca. Nella mia vita sacerdotale ho visto persone trasfigurarsi con il matrimonio, diventare davvero migliori e più mature. Ma questo sempre è costato loro abbandonarsi all’Amore e lasciarsi “potare”.

Quello che sempre mi ha colpito del matrimonio è che non si fonda su rinunce perché esso si fonda su un costante “darsi e riceversi” (Catechismo 1626) e quindi nella misura in cui mi dono, ricevo anche e cresco come persona.

Il dono di sé, la fedeltà nell’amore fino alla rinuncia, apre la via alla FECONDITA’ e quindi ai frutti di bene che la nostra unione produce, sotto la spinta dello Spirito Santo. È questa la Gloria di cui parla Gesù. Egli ha un attimo di turbamento pensando all’imminente Passione ma sa anche che sarà feconda e darà Gloria al Padre. Così anche voi sposi, nella misura in cui vivete una fedeltà combattuta, incerottata e illividita per quanto vi è costata, sapete comunque che essa darà frutto secondo i piani di Dio, senza alcuna ombra di dubbio.

Da ultimo tutto ciò porta ad una conseguenza ineludibile, la terza effe: FELICITA’, ossia la gioia cristiana, uno dei frutti dello Spirito, segno della presenza di Dio in noi, anche in mezzo alle prove della vita. La gioia di aver dato tutto, di non essersi risparmiati nulla, di appartenere completamente a Cristo.

Cari sposi, Gesù oggi ci apre la strada per vivere anche noi questo percorso che, tramite il Calvario, porta diritto alla luce della Risurrezione. Lasciamoci guidare e corrispondiamo generosamente allo Sposo che ci invita.

ANTONIO E LUISA

La felicità cristiana non è una gioia vuota. Non viene da un’euforia effimera. Non viene dall’avere tutto e dal non avere problemi e preoccupazioni. La gioia cristiana viene dal dono. Noi siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio che è relazione d’amore tra le tre Persone. La gioia viene nel morire per l’altro. Viene dal dare tutto. Perchè dando tutto troviamo Dio e il senso della nostra vita. Questo l’abbiamo capito non solo ascoltando delle catechesi ma soprattutto facendone esperienza.

Il vostro matrimonio ha delle mancanze? Meglio così

Beati i poveri in spirito. Ma chi sono i poveri? Sono quelle persone che sentono di non avere tutto. E’ povero chi sente la mancanza di qualcosa. Quindi se sentite una mancanza nella vostra vita non è per forza qualcosa di negativo. Può essere la vostra salvezza.

Vedete, noi riceviamo tante confidenze di lettori o follower che raccontano con sofferenza la loro mancanza di qualcosa. C’è chi sente di non essere amato abbastanza dal marito o dalla moglie, c’è chi non si sente capito dall’altro, c’è chi non avverte di essere prezioso e considerato dall’altro. Questa mancanza è si qualcosa da indagare e sistemare nella nostra relazione ma ha un risvolto molto positivo. Questa mancanza ci sta dicendo che quel matrimonio non ci può colmare di tutto. Ci dice che nostro marito o nostra moglie non ci può riempiere tutto quel desiderio di amore e senso che abbiamo dentro. La mancanza in una relazione può creare un profondo dolore e insicurezza. Tuttavia, è importante comprendere che nessuna persona può soddisfare completamente tutti i nostri bisogni e desideri. 

Quindi ben venga che nel nostro matrimonio non troviamo tutto. Perchè il matrimonio non può essere tutto. Anche quando le cose vanno bene. Perchè il matrimonio resta una relazione tra persone imperfette e finite.

Qundi è importante essere consapevoli di questa povertà che ci caratterizza. Questa mancanza che è ontologica. Quando qualcuno si avvicina a noi esprimendo il proprio disagio emotivo, è importante non solo offrire supporto pratico e guidare verso risorse adeguate, ma anche comunicare la profonda verità che la mancanza può fungere da veicolo per un incontro più intimo con Dio.

La scelta di come affrontare la mancanza è cruciale nella vita di ognuno di noi. È un bivio in cui ci troviamo di fronte, con due strade ben distinte da percorrere. La prima porta a un isolamento, ci allontaniamo emotivamente sempre di più dall’altro. In questo stato, inevitabilmente ci concentriamo sui difetti del marito o della moglie, perdendo tempo prezioso nel lamentarci e nel desiderio di cambiarlo. Questo percorso, solitamente, porta a un sentimento di insoddisfazione e alla solitudine. Dall’altra parte, c’è la strada che ci invita a rivolgere lo sguardo verso chi può colmare quel vuoto in modo completo e duraturo. Chi sceglie questa via si apre alla cura di sé in modo sano, mantenendo una relazione profonda con il Signore per sentirsi amato e protetto dall’Amante perfetto e infinito.

Se la mancanza ci porta tra le braccia di Dio allora avremo fatto bingo. Saremo persone capaci di amare l’altro per come è, con tutti i suoi difetti, perchè avremo trovato in Dio una fonte di amore inesauribile.

Antonio e Luisa

Gli sposi cristiani davanti alla vocazione dei figli: che fare?

Nel rito del matrimonio cattolico il sacerdote formula agli sposi alcune domande tra cui: “Siete disposti ad accogliere con amore i figli che Dio vorrà donarvi e a educarli secondo la legge di Cristo e della sua Chiesa?”. La risposta è sempre affermativa ma i novelli coniugi ne sono veramente e pianamente consapevoli? Come si affronta, quando arriva il momento, la vocazione dei figli? E quando essa comporta il sì totale al Signore?

Il matrimonio è una vocazione dalla quale – nel caso in cui generi prole – nascono nuove vocazioni, un seme da cui nasceranno delle piante che a loro volta saranno semi per il futuro di altri essere umani e così via, partecipando fisicamente e attivamente al soffio creativo di Dio; non per niente, se pensiamo all’etimologia stessa del verbo procreare, l’essenza del matrimonio cristiano è proprio quella dell’apertura alla vita, secondo i piani di fecondità che il Signore ha per ciascuna coppia, che non si esaurisce esclusivamente nella fertilità biologica. Gli sposi, quando nel momento della loro solenne promessa davanti a Dio dichiarano di volersi impegnare all’educazione cristiana degli eventuali figli, devono essere consci che uno dei suoi frutti potrebbe essere quello di predisporli a ricevere la chiamata al dono totale della vita a Dio nello sfaccettato panorama degli ordini religiosi, sia maschili che femminili. Ma è davvero così?

Quanti genitori sono effettivamente pronti, e felici, se un giorno il figlio dicesse: «Mamma, papà, desidero diventare sacerdote» o la figlia: «Mamma, papà, mi piacerebbe farmi suora»? In molti casi, purtroppo, la vocazione alla vita religiosa non è accolta con gioia ma si macchia di paura, mille interrogativi e tanti dubbi se non addirittura tramutandosi in un vero e proprio tormento, per coniugi e prole, anche se a monte c’era stato un impegno solenne che dovrebbe rendere tutto questo non solo naturale ma naturalmente gradito. Il matrimonio cristiano, insomma, è davvero una culla accogliente nel caso in cui il Signore chiami i figli a consacrarsi? Ci sono dei percorsi o delle strategie che possano aiutare gli sposi a non essere un ostacolo ma un trampolino di lancio verso quello che Dio vuole dai figli?

Tra le tante proposte esistenti in tutta Italia, mi sento di consigliare ciò che conosco personalmente ossia i progetti che i Padri Carmelitani della provincia ligure propongono da tanti anni, in particolare la “Seminario experience” e il “Monastero invisibile”. Nel primo caso si tratta di due giorni – sabato e domenica – a stretto contatto con la vita dei seminaristi e del seminario del Bambin Gesù ad Arenzano (GE), rivolta ai bambini e ragazzi dai nove ai quattordici anni unitamente ai loro genitori. Per quarantotto ore si condividono tutti gli aspetti della vita in convento: dalle preghiere allo studio, dai momenti di gioco ai pasti, dal servizio caritatevole ai membri della comunità a quello in chiesa, dormendo assieme a loro e sperimentando concretamente come potrebbe essere l’inizio pratico della vita carmelitana; se poi effettivamente la chiamata sarà al sacerdozio, il Signore porrà indelebile questo desiderio nel cuore del singolo nonché aiuterà i padri formatori nel vagliare l’autenticità della vocazione.

In questo modo, però, sia i figli che i genitori sono presi per mano e accompagnati dolcemente verso un discernimento maturo e cosciente, che spazzi via ogni timore e si apra a “quello che Dio vuole da te”.

Il “Monastero invisibile”, invece, è l’impegno a far parte di comunità di preghiera virtuale che, al di là dei confini fisici di un edificio in muratura, prega per le vocazioni, in particolare il primo giovedì di ogni mese. I Padri Carmelitani, sul loro sito internet, mettono a disposizione un sussidio e lasciano la libertà di scegliere l’orario più consono ai propri impegni, articolato sulle ventiquattro ore.

Sappiamo bene che “La messe è molta, ma gli operai sono pochi!” (Mt 9. 37) ed è proprio per questo che la vocazione sponsale deve dedicarsi alla vocazione della prole perché solo così sarà veramente cristiana, realmente fertile e sicuramente produttiva. Certo, molte volte i genitori proiettano sui figli desideri e aspettative che non hanno potuto o voluto soddisfare loro stessi, ma la responsabilità educativa comporta anche la maturità di lasciarli andare se Qualcuno di ben più grande li chiama a partecipare all’avvento del Regno in maniera speciale.

Proprio perché ogni vocazione è necessaria alla realizzazione dei piani di Dio, gli sposi non devono trattenere ma accompagnare i figli quando il Signore bussa alla porta del cuore per seguirLo nella vita religiosa. I coniugi cristiani, insomma, non devono temere di perdere il frutto del loro amore perché Dio non toglie mai ma dona sempre e quel discendete del “virgulto di Iesse”, sacerdote o suora che sia, non sarà un figlio o una figlia in meno ma il compimento della propria vita sponsale che è stata capace di accogliere e far maturare una risorsa preziosissima per la Chiesa intera.

Fabrizia Perrachon 

Per saperne di più sul Seminario di Arenzano (GE): https://www.seminarioarenzano.it/index.php  

Per info sul “Monastero invisibile”: https://www.seminarioarenzano.it/index.php/seminario/monastero-invisibile

I livelli del tradimento

Oggi voglio rispondere a una domanda che mi è stata rivolta da una lettrice. Riguarda il peccato. Mi è stato chiesto: tradire con la mente ha la stessa gravità che tradire con il corpo? Come non pensare ai versetti del Vangelo chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore (Matteo 5, 28)

Come dobbiamo leggere queste parole che sembrano tanto chiare? Dobbiamo leggere in modo non superficiale. Ci viene in aiuto il card. Ravasi che commentando questo versetto scrive: Non era la semplice emozione istantanea e spontanea di fronte a una persona o a una realtà attraente, bensì una decisione profonda della volontà che pianifica un progetto vero e proprio per conquistare l’oggetto del desiderio, anche attraverso una macchinazione o una tensione psicologica intima o una costante concupiscenza. 

Siete d’accordo che così cambia tutto? Mi permetto di fare alcune considerazioni. Esistono diversi piani di tradimento. Non hanno le stesse implicazioni e non credo neanche la stessa gravità. Come sempre io non voglio fare un discorso strettamente religioso e di peccato ma semplicemente umano per rivolgermi a tutti.

Primo livello. Il pensiero (la tentazione).

Permettetemi di essere chiaro. Essere attratti da altre donne che non siano mia moglie non è peccato. Naturalmente vale anche per mia moglie verso altri uomini. Le tentazioni ci sono e dipendono da una serie di diversi fattori. Non colpevolizziamoci se sentiamo attrazione per altri. Non sono pensieri volontari. Vengono e basta. Spesso dipendono da nostre fragilità o inclinazioni personali. Sono spesso istintive e non volute. Noi commettiamo peccato quando scegliamo di allontanrci dal nostro impegno quotidiano di mettere al centro del nostro amore nostro marito o nostra moglie. Quando lo decidiamo. Quindi arriviamo ora al secondo livello.

Secondo livello Nutrire il desiderio sbagliato.

Se ci fermiamo al primo livello stiamo sereni. Se entriamo invece nel secondo dovremmo prestare invece molta attenzione. Cosa succede nel secondo livello. Succede che quella persona che ci ha attratto prende spazio nei nostri pensieri e nel nostro cuore. Ma qui non c’è solo una dinamica involontaria ma iniziamo a provare piacere nel pensare a quella persona. Ciò può avvenire anche senza che quella persona sappia nulla. Senza che nostra moglie o nostro marito sappia nulla. Attenzione: quando una tentazione entra nel livello due spesso ciò è favorito dalla salute del nostro matrimonio. Se non viviamo un matrimonio sano dove c’è dialogo e cura reciproca faremo più fatica a resistere alle tentazioni. Quindi parte della responsabilità, in caso di cadute, va ricercata nella relazione stessa. Dove sta il peccato? Semplicemente che stiamo togliendo spazio alla persona che abbiamo sposato. In questo tipo di tradimento rientra anche la pornografia. Non stiamo tradendo fisicamente l’altro ma lo stiamo sostituendo. Stiamo dedicando spazio, tempo, energie fisiche e mentali verso qualcosa o qualcuno che ci allontana dalla nostra promessa sponsale. Stiamo sottraendo qualcosa che abbiamo donato all’altro. In questo livello rientrano tante situazioni. Mi viene in mente una sposa che si era rivolta a noi perchè quando faceva l’amore con il marito per eccitarsi pensava ad altri uomini. Siamo nel tradimento mentale. Oppure i sempre più frequesti tradimenti online. Dove non c’è contatto fisico ma semplicemente un corteggiamento o un dialogo allusivo. Capite dove sta il peccato? Peccare sappiamo che significa sbagliare bersaglio. E’ esattamente questo. Dedicare le nostre attenzioni ad altri o ad altro e, così facendo, impoverire sempre di più la nostra relazione sponsale allontanandoci sempre di più l’uno dall’altro.

Terzo livello Metterci il corpo.

Perchè questo è il livello più grave? Perchè è il più profondo. Il peccato è lo stesso del livello due ma le implicazioni sono molto più devastanti. Io credo che la maggior gravità dipenda da due fattori principali. Tradire fisicamente significa aver condotto il tradimento fino alla sua completa attuazione. Significa non aver voluto fermare tutto prima. Ma la cosa ancora più grave è aver vissuto quel tradimento in modo completo, in mente, cuore e corpo. Significa aver compromesso tutta la persona in una relazione che è altra rispetto a quella matrimoniale. Fare l’amore è il gesto che è parte integrante del sacramento del matrimonio. Dopo la promessa in Chiesa serve l’unione dei corpi per rendere il sacramento efficace. Questo proprio perchè nell’amplesso stiamo dicendo, con tutta la nostra persona, il nostro sì a voler essere uniti indissolubilmente. Quando avviene il tradimento fisico stiamo compiendo lo stesso atto unitivo con un’altra persona. Stiamo rinnegando dentro di noi quell’unità che abbiamo promesso all’altro e a Dio. Per questo il tradimento fisico è ancora più grave. Perchè non abbiamo lasciato fuori nulla di noi. Ci siamo dentro completamente. Ed è quello da cui poi è più difficile – quando scoperto – essere perdonati e che porta spesso a separazioni e divorzi.

Antonio e Luisa

Don Antonio: ho sempre riconosciuto una sensibilità per la pastorale familiare

Mi presento. Sono don Antonio. Un uomo di 46 anni e da 21 sacerdote. Sono parroco di due parrocchie in provincia di Salerno. Ho studiato prima nel seminario di Potenza, e poi presso S. Anselmo a Roma dove ho compiuto la licenza in Teologia sacramentaria. Sono stato educatore nel seminario di Salerno per 9 anni, e dal 2005 insegno teologia dei sacramenti ai futuri sacerdoti. Sono impegnato nella formazione permanente del clero e nell’accompagnamento di fidanzati e coppie sposate. In passato anche della vita consacrata femminile.

Fin da quando ero in seminario, ho sempre riconosciuto una sensibilità per la pastorale familiare. Devo ringraziare l’impegno pastorale presente in Italia in modo particolare ad opera dei sacerdoti don Renzo Bonetti e don Carlo Rocchetta. Li ho incontrati personalmente una sola volta. Ma grazie ai social sono come dei padri spirituali per la mia formazione pastorale. Sono loro riconoscente per il fatto che “penso la mia vita sacerdotale” sempre in relazione “alla vita familiare” e sono incamminato nel Regno divino “dell’amore sponsale” impegnandomi nella virtù della “tenerezza”.

Qualche tempo fa, un pomeriggio, lessi un commento su questo blog ad un post di Antonio. Era un forte giudizio, ormai diventato comune, su papa Francesco e sul suo collaboratore il card. Fernandez. Si accese un moto interiore e scrissi un messaggio in privato ad Antonio … e conversando anche a viva voce ricevetti la proposta di condividere le mie riflessioni con voi. Io sto con il papa. Questo o quello. Senza magistero papale non c’è Chiesa di Gesù, e allora non c’è neppure Gesù. Quello degli apostoli. Pur sapendo che Gesù agisce anche fuori dai “confini” della sua Chiesa. Ma intanto che io vivo nel suo corpo della Chiesa, non posso stare qui e anche fuori lì. Perciò io sto sempre con la Chiesa.

Forse perché da giovane le sue rughe, scavate sul Volto, a causa della sua umana fragilità, mi hanno spaventato e allontanato da Lei e quindi da Gesù. Poi ho imparato che puntare il dito significa non amare, non perché si giudica, ma perché si vuole prendere le distanze. Io, prete, attendo dalla famiglia che nasce dal sacramento del matrimonio di essere aiutato ad amare di più questa Chiesa, la Chiesa di oggi, che cresce e si sviluppa a partire dalla Chiesa di ieri, e vuole diventare sempre più per domani la Chiesa di Gesù Cristo.

La famiglia, piccola Chiesa domestica, riflette e incarna l’amore di Gesù per la Chiesa, ma anche quello della Chiesa per Gesù. Perciò, io che sono prete, ho bisogno veramente di questo sano amore della famiglia per la Chiesa, affinché io possa amare la mia chiesa parrocchiale così come il sacramento dell’amore ogni giorno edifica la Chiesa e la società.

Ritornando e concludendo la mia presentazione, con Antonio abbiamo pensato che i miei interventi saranno dei “frammenti sui sette segni”. In questo primo contatto ho voluto dare voce soltanto al frammento sulla mia persona affinché dietro a questa firma – don Antonio Marotta – ciascuno d’ora in poi possa essere certo del mio intento: risvegliare la Chiesa nelle anime (R. Guardini) – fu il messaggio di papa Benedetto XVI nel suo ultimo discorso pubblico – che esplicitato su questo blog significa voler ri-leggere i tratti familiari dei sette sacramenti. La dimensione ecclesiale dei sacramenti. I sette sacramenti per la chiesa domestica.

Don Antonio Marotta

Il nostro Battesimo: un conto in banca

Dal Sal 29 (30) Ti esalterò, Signore, perché mi hai risollevato, non hai permesso ai miei nemici di gioire su di me. Signore, hai fatto risalire la mia vita dagli inferi, mi hai fatto rivivere perché non scendessi nella fossa.

Dopo la Domenica “Laetare” i vari brani liturgici hanno già un poco il sapore della vittoria, quasi fosse un antipasto della tanto sospirata Pasqua, e così anche questo Salmo scelto dalla Liturgia di ieri.

Sicuramente ci sono moltissime persone che potrebbero unire il proprio cuore alla lode di questo Salmo, testimoniando e riconoscendo che davvero è stato così nella loro vita, sono passati cioé da una vita lontano da Dio alla pace di una vita con Lui, molti sono quelli che testimoniano come anche il dolore sia fonte di grandi Grazie dal Cielo.

Su questo argomento una parte non indifferente la fa l’esperienza personale, ma siamo sicuri che solo chi ha avuto conversioni eclatanti oppure Grazie straordinarie siano gli unici che possano fare proprie le parole accorte di questo Salmo?

Non è forse vero che ogni battezzato è rinato dall’acqua e dallo Spirito? Non è vero che è passato dalla schiavitù del peccato alla libertà dei figli di Dio? Non è vero che non è più sotto il potere di Satana ma è nato alla vita nuova in Cristo?

Troppi sposi cristiani cominciano a lamentarsi appena aprono gli occhi alla mattina e non finiscono nemmeno quando sono sotto le coperte. Chi si lamenta, non è mai contento nemmeno quando gli accade qualcosa di bello, perché avrebbe preferito qualcosa in più, ogni scusa è buona per lamentarsi.

Il metodo migliore per vincere un vizio è esercitarsi nel suo diretto concorrente, ovvero nella virtù contraria ad esso, in questo caso bisogna esercitarsi nell’arte del ringraziamento. Dobbiamo imitare il salmista che non perde tempo e loda il Signore. Il ringraziamento porta con sé un duplice effetto: ci fa rendere conto dei beni che abbiamo e nel contempo è un atto di giustizia verso Dio.

Troppi cristiani non si rendono conto del dono inestimabile che l’Onnipotente ci ha fatto con il Battesimo, e per questo si lamentano; esso però ci ha riaperto le porte del Paradiso che i nostri antichi progenitori avevano chiuso col peccato delle origini, il Battesimo inoltre ci ha fatto rivivere da morti che eravamo sotto il dominio del peccato, ci ha tolto la colpa del peccato originale, non siamo più schiavi del peccato ma veri coeredi di Cristo, cioè figli di Dio, siamo Suoi familiari.

Cari sposi, questa settimana impariamo a rendere grazie al Signore del dono inestimabile che ci ha fatto col Battesimo. Ci ha impresso un sigillo eterno grazie al quale siamo distinti dagli altri, dal giorno del nostro Battesimo noi Gli apparteniamo e siamo come i tralci uniti alla vite. Certamente abbiamo ricevuto tutto ciò in dono, immeritatamente, però il dono comporta anche il dovere di usarne bene e di farlo fruttificare.

Nel Matrimonio noi abbiamo la grande opportunità di far fruttificare il nostro Battesimo, sicché i doni battesimali dell’uno diventano patrimonio anche dell’altro, abbiamo un conto cointestato nella banca del Cielo. Coraggio!

Giorgio e Valentina.

Il matrimonio secondo Pinocchio /24

La bella Bambina dai capelli turchini fa raccogliere il burattino: lo mette a letto, e chiama tre medici per sapere se sia vivo o morto.

Il Collodi si inventa la morte apparente per poter continuare il racconto, richiesto a gran voce dai piccoli lettori e dall’editore, dobbiamo ringraziare questa insistenza che ci ha permesso di leggere un’opera indimenticabile per l’infanzia e dal grande valore educativo. Si inserisce quindi una nuova figura, la bella Bambina, che potrebbe sembrare distrarre Pinocchio dal suo rapporto con Geppetto.

In realtà scopriremo, nei prossimi capitoli, che questa figura femminile non entrerà mai in conflitto con la figura paterna del falegname, al contrario, la sua funzione sarà quella di aiutare Pinocchio nella relazione col proprio padre.

Come non vedere in questa graziosa Bambina l’immagine della Vergine Maria?

Senza fare nessuna forzatura, la quale andrebbe a snaturare il racconto, possiamo rilevarne alcune caratteristiche che richiamano la Madonna: i capelli turchini, la (sempre) giovane età, la capacità di comandare con garbo e serietà nello stesso tempo, il rispetto con cui tratta Pinocchio da “morto apparente” salvaguardandone la dignità nonostante sia solo un burattino, e lo si denota da come si rivolge al Falco prima e al Can-barbone poi:

– Orbene: vola subito laggiù: rompi col tuo fortissimo becco il nodo che lo tiene sospeso in aria e posalo delicatamente sdraiato sull’erba a piè della Quercia. […] – Su da bravo, Medoro! – disse la Fata al Can-barbone; – Fai subito attaccare la più bella carrozza della mia scuderia e prendi la via del bosco. Arrivato che sarai sotto la Quercia grande, troverai disteso sull’erba un povero burattino mezzo morto. Raccoglilo con garbo, posalo pari pari su i cuscini della carrozza e portamelo qui.

Tra le caratteristiche mariane della Fata, ne scegliamo solo una per la nostra riflessione: il rispetto e la delicatezza, il garbo con cui tratta i burattini, ovvero come la Madonna ci tratta nonostante le asinate che combiniamo, per usare un eufemismo.

Ella non ci ripaga secondo le nostre opere, da chi avrà mai imparato?, ma usa sempre parole gentili e rispettose, nonostante i rimproveri ed i consigli accorati siano sempre quelli, quanta pazienza… proprio come fa una mamma comune. Cari genitori, dobbiamo chiederci se anche noi usiamo questo garbo e rispetto nei confronti dei nostri figli, malgrado siamo costretti tutti i giorni a ripetere sempre le solite, identiche cose alle solite, identiche persone… le mamme infatti spesso vengono etichettate dai figli come un disco rotto. Ma non per questo dobbiamo scoraggiarci e smettere con la solita cantilena, fa parte del nostro dovere.

Se pensiamo a quanta fatica si faccia per far entrare un concetto in quelle “zucche vuote”, non è niente rispetto alla fatica che si fa per farlo entrare nel cuore affinché lo facciano proprio e si decidano a viverlo da soli: è un’impresa molto più ardua.

Cari sposi genitori, dobbiamo imitare la delicatezza di questa bella Bambina dai capelli turchini, la quale usa tanto garbo e delicatezza soprattutto quando Pinocchio si dimostra un burattino e non vive da figlio, ella non gli toglie la dignità.

Quando dobbiamo riprendere i nostri figli, se li trattiamo calpestando la loro dignità e non li rispettiamo, non crescerà la loro autostima né la loro consapevolezza di creature ad immagine di Dio; se, al contrario, li trattiamo con garbo (anche deciso e risoluto) e rispettoso della loro dignità di figli, già questo atteggiamento dirà loro: “Tu vali di più dell’asinata che hai combinato, tu sei fatto per grandi imprese, tu sei capace di fare meglio”. Coraggio sposi, impariamo dalla Madonna chiedendone l’intercessione.

Giorgio e Valentina.

Con cuore di vedova

Sono rimasta vedova a quarantacinque anni con quattro figli ancora in età scolare (all’epoca avevano 19 anni, 17, 15 e 10), dopo vent’anni di matrimonio. Il momento della morte del proprio coniuge è una di quelle cose che non si vorrebbe mai accadessero e se poi arriva troppo presto si aggiunge, al dolore del lutto, la fatica di crescere la famiglia da sole.

Il Signore mi ha dato la grazia di arrivare a quel momento preparata, perché sapevo che la malattia di Francesco era terminale, e il giorno del suo funerale per me era già in cielo. Lui ha vissuto la sua vita matrimoniale spendendosi tutto per Dio e per la famiglia e, quando è arrivata la malattia, l’ha accettata sapendo dove lo stava conducendo. Non ho mai avuto dubbi sulla sua resurrezione perché, come ho sperimentato di persona e scritto in uno dei miei libri: “Vivi la perdita del tuo amato esattamente come hai vissuto l’amore per lui. Il tipo di amore che hai sperimentato in vita diventerà anche il tipo di lutto che sperimenterai quando il tuo sposo morirà.

Quando è iniziata la mia vita da vedova però, mi sono accorta che questa certezza della risurrezione era condivisa da poche persone. Ricordo che, prima di aprire la pagina Facebook (e la sua gemella Instagram) “Con cuore di vedova”, sfogliavo altre pagine Facebook dedicate a chi aveva perso un proprio caro. Alcune avevano tantissimi follower e un sacco di commenti ai post, ma erano tutte improntate soltanto al ricordo del “caro estinto”. Mancava ogni riferimento alla risurrezione che, invece, per me è la testata d’angolo su cui costruisco ogni giorno le mie giornate.

Da qui è nata l’esigenza di testimoniare l’esperienza di risurrezione che Dio ha portato nella mia vita: Dio è rimasto fedele al sacramento del matrimonio donandomi un amore che va oltre la morte. Con questo spirito ho aperto la pagina “Con cuore di vedova” che ad aprile 2024 compirà tre anni.

Tre anni in cui ho proposto post di vario genere – ma sempre improntati alla fede cristiana – indirizzati alle vedove che, come me, stanno portando ogni giorno questa pesante croce.

La vedovanza è un cammino pressoché sconosciuto alla gente perché, in genere, non se ne parla. Così questa pagina, col tempo, è diventata anche un momento di confronto con altre vedove per condividere “come si fa” a sopravvivere a un dolore che sconquassa da cima a fondo e che non passa mai. Come si può ricostruire la propria identità di donna, tornare a sorridere (è il tema della Quaresima 2024 che ho proposto nelle meditazioni settimanali) e crescere una famiglia da sole. Spero che abbia fatto del bene alle persone che l’hanno incrociata anche soltanto per un post.

È anche un’occasione di dare voce a chi non ha voce.

La perdita del proprio sposo è una realtà che, comunemente, non viene toccata in nessun ambito ecclesiale. A parte i rari (e bellissimi) discorsi dei papi alle vedove consacrate, a parte le catechesi dei sacerdoti in occasione della giornata dei defunti, a parte una discreta scelta di libri sul lutto (ma non su come si vive “il dopo”, da sole) direi che manca una realtà che accompagni con costanza chi porta quotidianamente la croce della vedovanza, specifica per loro. Queste pagine web “Con cuore di vedova” sono un modo di dare voce a una realtà che passa sotto silenzio.

Inoltre questa pagina è anche un modo di affrontare la vedovanza alla luce della Parola di Dio. Per me sarebbe impensabile farne a meno: è semplicemente fondamentale. Ed è bello leggere anche le testimonianze che offrono le sorelle di fede vedove: è davvero arricchente e stimolante. Benvengano queste testimonianze perché aprono la prospettiva sulle realtà celesti. Ancora adesso una delle cose che mi fa più soffrire è vedere quante persone, anche cattoliche, anche che vedo a messa, non siano sicure di dove sia l’anima del loro sposo defunto. C’è tanto da annunciare!

Infine un altro obiettivo di questo “servizio” è diffondere gli interventi della chiesa, dei papi, del magistero, dei padri della chiesa, dei laici sul tema della vedovanza, sperando che lettrici e lettori ne possano trarre beneficio, insegnamento, riflessione. Io stessa scrivo le riflessioni che mi suscita la preghiera, o le poesie che mi nascono da dentro. Ci tengo a precisare che ogni cosa che scrivo nasce dalla preghiera.

Vorrei concludere con uno dei discorsi più belli alle vedove, fatto da Papa Pio XII nel 1957. È un po’ la Magna Charta di tutti i documenti successivi:

 “La morte, anziché distruggere i legami di amore umano e soprannaturale contratti con il matrimonio, può perfezionarli e rafforzarli. È fuori dubbio che sul piano puramente giuridico e su quello delle realtà sensibili, l’istituto matrimoniale non esiste più. Ma sussiste tuttora ciò che ne costituiva l’anima, ciò che le conferiva vigore e bellezza, cioè l’amore coniugale con tutto il suo splendore ed i suoi voti di eternità. [.. .] Se il sacramento del matrimonio, simbolo dell’amore redentore di Cristo e della sua Chiesa, trasferisce agli sposi la realtà di questo amore[..], ne consegue che la vedovanza diventa, in qualche modo, il compimento di questa mutua consacrazione[..]. Ecco la grandezza della vedovanza quando è vissuta come prolungamento delle grazie del matrimonio e come preparazione del loro dischiudersi nella luce di Dio!

Vi ringrazio di avermi dedicato questo spazio e di aver consentito di aprire una finestra sul mondo della vedovanza.

Elisabetta Modena vive e lavora in provincia di Verona, ed è scrittrice di narrativa e poesia (pubblica sia con il suo nome, che con lo pseudonimo Judith Sparkle)

Intervista su Tv 2000

Su Aleteia sono apparsi due suoi articoli: 1 2

Ariticolo su Punto Famiglia

Una sua testimonianza è stata raccolta e pubblicata da Cecilia Galatolo nel libro “Vivere il lutto insieme a Dio” per l’editore Mimep docete.

Ha dedicato un libro di poesie a suo marito, con illustrazioni della figlia, dal titolo: “Come un campo di girasoli” (Amazon).