L’arte di rovinare i matrimoni: romanzo per riflettere sul matrimonio sacramento

Lasciate che mi presenti: Il mio nome è Zecca. O meglio, è il nome che mi è stato assegnato quando mi sono unito al gruppo dei ribelli. Avete presente le mosche e le zanzare, che si aggirano nella vostra stanza, di notte, mentre voi vorreste solo dormire? Ecco, noi diavoli siamo questo, ma nelle vostre relazioni. Non so se lo sapete, ma anche i demoni vanno a scuola. Dopo tre anni di studio, ho conseguito la laurea che mi permetteva di diventare ‘disturbatore di base’. Desideravo però proseguire e specializzarmi in qualcosa. Così mi sono iscritto nella scuola che si occupa di insegnare a rubare la purezza e distruggere famiglie…

Dal libro “L’arte di rovinare i matrimoni. La missione di un giovane apprendista diavolo” (Mimep Docete, 2023)

Oggi vorrei parlarvi un po’ di questo romanzo, che, sebbene si serva della fantasia, affronta temi profondamente reali e sempre attuali. Al centro, c’è una coppia di sposi con un bambino: questa famiglia felice deve essere distrutta. Il demone – protagonista del racconto – vuole ottenere, infatti, facendo separare i due coniugi, una “laurea specialistica” che gli consenta di agire nel mondo con professionalità. Per raggiungere il suo scopo e superare l’esame, ha un aiutante (anche se fa tutt’altro che aiutarlo), Piattola, un demone molto impacciato e, agli occhi di Zecca, inutile e fastidioso.

I due, per vicissitudini che non spiego per non fare spoiler, sono “costretti” a collaborare. La coppia, sposata in Cristo, inizialmente resiste. Quand’è che i demoni sembrano avere la meglio? Quando i due sposi smettono di pregare, quando smettono di fidarsi di Dio e di credere che Lui ha un progetto di bene sulle loro vite.

Non posso svelarvi oltre, ma posso dirvi che il libro intende portare un messaggio di speranza. Ogni matrimonio è “sotto attacco” e tante possono essere le tentazioni. Si può arrivare persino ad una vera e propria rottura, all’apparenza irreparabile. L’amore può morire. Questo lo sappiamo tutti. Ciò che voglio dirvi col mio libro, però, è che può anche risorgere. Come?

Abbiamo bisogno di una fede piccola quanto un granello di senape e di buoni amici, che sappiano aver cura di noi quando non abbiamo, per primi, cura di noi stessi. Un altro tassello fondamentale? L’umiltà per chiedere scusa e ricominciare.

Ambientato a tratti sulla Terra, a tratti all’Inferno, ma con lo sguardo sempre rivolto al Paradiso, il libro non banalizza l’esistenza del demonio, né vuole terrificare il lettore. Utilizzando una storia di fantasia, simile ad una favola moderna che segue le orme de “Le lettere di Berlicche” di C.S. Lewis, vuole offrire un piccolo aiuto per ritrovare la fede nell’Onnipotente, anche di fronte alle tentazioni più grandi. Smascherando gli inganni del diavolo (quelli sì che sono reali!) e mostrando la superiorità di Dio, vorrei che il lettore arrivasse a chiedersi, come san Paolo: “Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?”

Un libro per sorridere molto e commuoversi; per scoprire la grande potenza del sacramento del matrimonio e per capire che l’indissolubilità non è tanto “opera nostra”, quanto un “dono da accogliere”. Il “per sempre” dobbiamo volerlo, ma con le sole nostre forze è un’impresa titanica.

Rovinare un matrimonio significa compromettere la comunione degli sposi. Lasciare che sia Dio a modellare la nostra relazione significa, invece, far sì che la comunione cresca o ritorni in tutta la sua bellezza, anche dopo le tempeste peggiori. A Luca e Chiara del mio libro succede, a me, a noi, a voi?

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Cecilia Galatolo

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“Codice Cuore”: Libro per Adolescenti sul Valore della Sessualità

Mi è capitato ben due volte, nell’arco di poco tempo, di sentire persone adulte affermare che non possono parlare a figli, nipoti o al catechismo di sessualità, in quanto bisogna essere “competenti”, preparati, e loro non si sentono all’altezza. Da un lato, questa umiltà è profondamente ammirevole. È bello riconoscere che si necessita di una certa formazione per toccare – senza fare danni! – temi così rilevanti per la vita di una persona.

Dall’altro, è quasi allarmante che persone adulte, sposate, con figli, non parlino con i più giovani di questi argomenti (se non lo fanno loro: chi lo farà?) e che non lo facciano perché non hanno “la formazione necessaria”. Verrebbe da chiedersi: se sono sposati, ma si sentono “ignoranti” su quello che è il “fulcro”, il “quid” del matrimonio, perché non hanno sentito l’esigenza di colmare la lacuna?

Cosa aspettano a porsi domande e cercare risposte che permettano anzitutto a loro di capire il significato di un gesto che li riguarda da vicino, che tocca “dal di dentro” la propria vita? Se non sanno come parlarne, allora come lo hanno vissuto, come lo stanno vivendo?

Forse, a dire il vero, la formazione di cui si sentono mancanti non riguarda neppure il “significato” del gesto. In un mondo che spesso riduce il sesso ad una ginnastica (ma più “pericolosa”, perché può portare a gravidanze indesiderate e malattie per nulla piacevoli), spesso le competenze che si richiedono negli incontri di “educazione sessuale” sono, per così dire, puramente “tecniche”. Questa mentalità di fondo fa sì che si pensi di dover parlare di certi argomenti solo con un approccio medico.

Eppure, è proprio la mentalità di fondo che va messa in discussione, perchè – è sempre più evidente – la sessualità non è solo un’attività che riguarda la nostra salute fisica: è un atto che coinvolge tutta la persona, lasciando segni non solo nel corpo, ma anche nella mente e nell’anima. Questo argomento non riguarda o interpella solo i medici (sebbene il loro punto di vista sia importantissimo). Non sono gli unici che hanno il diritto e il dovere di parlarne a chi diventa grande. Anzi, l’esempio di un adulto di fiducia, vicino, stimato, è prioritario per un/una giovane che si chiede come, dove, con chi, perchè vivere l’intimità fisica! E, se ci è successo, anche senza avere una laurea in ginecologia, possiamo (dobbiamo!) testimoniare una bellezza trovata e sperimentata.

Senza presunzione, allora, mi permetto di segnalare un libro che ho scritto per raccontarvi una scoperta che ho fatto: ovvero che la “teologia del corpo” risponde alla sete di amore del nostro cuore. È con questo spirito, cercando di seguire le orme di San Giovanni Paolo II (che ha promosso in tutto il suo pontificato la “Teologia del Corpo”), che è nato “Codice cuore. Istruzioni per l’uso. Trovare sé stessi per stare con qualcun altro” (Mimep Docete, 2025), uno strumento per parlare ai ragazzi della dignità del corpo, di come amarsi in modo autentico (imparando prima di tutto l’amore per sé stessi).

Il libro, suddiviso in dieci capitoli, affronta vari temi legati all’affettività. Ogni capitolo ha al suo interno delle testimonianze vere, per avvalorare i contenuti esposti.  

Il libro, nel suo complesso, vuol mettere in luce che la nostra sessualità è un dono da custodire: si cerca di mettere in guardia da una visione materialistica del corpo, quasi fosse un oggetto di poco valore. Si spiega che l’intimità fisica può fare male, quando privata di ogni significato: invece di riempirci, ci svuota. Inoltre, si testimonia che “Dio c’entra col sesso”: ce lo ha donato Lui. Lungi dal promuovere una visione negativa e pessimista, si afferma che l’atto sessuale è qualcosa di sacro e che si può scegliere di “fare l’amore a 360 gradi”. Dobbiamo temere la concupiscenza, non la sessualità in quanto tale. Mediante il gesto più unitivo e vincolante che ci sia, possiamo sperimentare una comunione profonda con l’altro. Oppure possiamo viverlo in modo tale da sentire una solitudine tremenda.

Non poteva mancare, poi, il tema della pornografia, che non svela troppo, ma troppo poco. Non ci mostra il sesso come linguaggio dell’amore, oscurando quindi il suo potenziale più alto. Ad esempio, non mostra “comportamenti sani”, come la conversazione amorevole, i baci e i gesti di affetto. Nella pornografia, “tutto è deviato e distorto”. Insomma, che vantaggi ne avremo usufruendone?

Si tocca anche il tema della vita nascente, offrendo uno sguardo di speranza, anche davanti a gravidanze apparentemente impossibili e la possibilità di perdonarsi, se si è scelto di rinunciare al proprio figlio. Si cerca, tra l’altro, di offrire una via d’uscita, una possibile rinascita, per chi crede di aver perso la purezza per sempre e con essa la possibilità di gustare un amore vero.

Si può sempre ricominciare da zero! La domanda da farti è: lo vuoi? Anche se non hai ancora una risposta, potresti continuare a interrogarti. Non sei obbligato a comprare il libro e nemmeno a trovarti in accordo con ciò che leggerai; però, potrebbe essere uno spunto per riflettere su quello che cerchi davvero.

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Cecilia Galatolo

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Il matrimonio non aggiunge nulla? La testimonianza di Lucia

Molti credono che il matrimonio in Chiesa non porti “nulla di nuovo”: non serve, in quanto non aggiunge niente all’amore di una coppia. Certo, aggiunge poco o nulla se gli sposi non accolgono la presenza di Dio in loro, tra loro. Quel dono va fa fatto fruttare con fede, altrimenti resta un tesoro sepolto. Il punto è che il Signore non può amarci e arricchirci contro la nostra volontà. Se, però, “sposarsi in chiesa” diventa “sposarsi in Cristo” allora cambia tutto. Segue la testimonianza di Lucia, una storia molto delicata e travagliata che, però, ci dà tanta luce.

Sono Lucia e, da alcuni anni, sono seguita dal mio vescovo, un esorcista. Tutti i vescovi sono esorcisti, lo so, ma quello della mia diocesi ha accolto il ministero, lo pratica, e mi sta aiutando a guarire da una situazione particolare, di cui non parlo quasi con nessuno, perché le poche volte in cui l’ho fatto – anche con i sacerdoti – ho trovato poca comprensione, se non indifferenza e resistenza.

Alcuni, poi, ci credono, ma dicono che la mia esperienza “impressioni” e che raccontarla può fare più male che bene. Eppure, è la mia storia, è qualcosa che vivo quotidianamente e se Dio permette una simile croce sicuramente ci deve essere dietro un bene più grande. E io voglio essere testimone della luce, non delle tenebre.

Mia nonna, che non ho mai conosciuto di persona, era satanista. Risalgono a quando aveva quattro anni i primi ricordi che mia madre aveva di una messa nera. Spesso diceva a noi figli, in adolescenza, di guardarci bene da queste cose: perché chi pratica l’occulto non lo fa “per scherzo”.

Una volta divenuta adulta, mia madre ha conosciuto e sposato un uomo di chiesa. I miei, insieme, hanno scelto Gesù, ma questo è costato molto a entrambi, perfino minacce di una certa gravità. Sono riusciti ad allontanarsi da mia nonna e dal suo giro, senza che ci fossero ripercussioni fisiche.

Eppure, mamma non è “guarita automaticamente”. Troppe volte mia nonna con i suoi “compagni” aveva operato riti su di lei.

Non so molto sulle modalità in cui avvenivano queste cose, mamma ha cercato di preservarci da tanta bruttura: ho saputo solo vagamente di galline sgozzate e sacrificate a Satana, di ostie consacrate profanate, di amuleti maledetti. Mia madre era costretta, da piccola, a portare indosso uno di quegli oggetti, sul petto, perché il suo cuore doveva essere “consacrato a Satana”.

Non chiedetemi come si possa arrivare a una simile perversione nella vita e come si possa fare questo ad una bambina. Non me ne capacito. Oggi so solo che tutto questo non si cancella in un giorno.

Io e i miei fratelli siamo cresciuti nel cortile di un convento, dove mia madre “andava a parlare” con un frate che era anche sacerdote. Io non sapevo cosa succedesse lì dentro, l’ho saputo solo una volta diventata più grande: mia madre, in quel convento, riceveva esorcismi, mio padre stava al suo fianco, mentre noi bambini, ignari, giocavamo fuori, con i cagnolini, insieme agli altri frati (super simpatici, questo lo ricordo bene!).

I miei genitori temevano che la nonna, nel suo ambiente, continuasse a farci del male, anche da lontano. Per questo non ci siamo mai allontanati dai sacramenti e da una vita di preghiera assidua, quotidiana. Mentre dico questo, voglio sottolineare che mamma è stata per me una vera testimone di fede, di quella fede che “ti salva letteralmente dal male”. Si è aggrappata a Gesù e lui l’ha riempita di grazie, nonostante non le abbia risparmiato le sofferenze. Però, in effetti, quello che è toccato a mia madre è toccato, in parte, anche a noi tre figli.

Per quanto riguarda me, era fine novembre del 2012, avevo vent’anni, mi ero da poco fidanzata con il mio attuale marito, quando ho avuto le prime manifestazioni fisiche dell’infestazione. Eravamo in un grande santuario dedicato alla Madonna, quando, durante la messa prefestiva di quel sabato, già all’inizio della celebrazione, i miei occhi hanno iniziato a ruotare verso l’alto (mi capita tutt’ora e, spesso, soprattutto durante la Consacrazione, devo mettere le mani davanti agli occhi per nascondere quella reazione involontaria e non impressionare i presenti).

Quel giorno di novembre, per la prima volta, ho visto la mia pancia muoversi avanti e indietro (senza che io facessi nulla) ogni volta che il sacerdote pronunciava il nome di Gesù o dello Spirito Santo.

Sentivo anche le gambe tremare. Al momento della comunione non riuscivo a ingoiare l’ostia, c’era qualcosa che faceva ostruzione nella gola. Mi sentivo soffocare. Quello è stato solo l’inizio.

Non voglio suggestionare nessuno, sono situazioni rarissime. E vorrei anche dire che l’azione ordinaria del diavolo (molto più nascosta) con cui tutti abbiamo a che fare, è sicuramente peggio: la vessazione è dolorosissima, ma per l’anima è “peggio” fare il volere di questo nemico, non riconoscendolo nei pensieri e nei consigli sbagliati che dà al nostro cuore. Insomma, peggio non credere nella sua esistenza che doverci combattere. La lotta spirituale contro di lui, in realtà, avvicina tantissimo a Cristo.

Tornando al racconto, nei giorni, nelle settimane, negli anni a seguire il malessere interiore, le manifestazioni fisiche sono aumentate. Da allora il combattimento è stato incessante, ma con Gesù ho sempre saputo che non dovevo temere.

Ricordo che, da studentessa fuori sede, a volte camminavo per strada per tornare a casa e quasi mi bloccavo per il peso di quella presenza che mi schiacciava. Entravo in chiesa, facevo un segno di croce con l’acqua benedetta, ed era come un refrigerio. Recuperavo le forze e riuscivo a rimettermi in cammino fino a casa. Dio non mi ha mai lasciata, mai.

Da un po’ di tempo sto meglio, i fastidi sono più lievi, sebbene la presenza ci sia ancora e faccia male, ma l’amarezza più grande è avere una “malattia” che per la maggior parte delle persone (compresi sacerdoti!) non esiste. Quanti mi hanno detto, più o meno carinamente, che è tutto frutto della mia fantasia. Capite che fa male sentirsi dire questo, quando tu passi una vita normale fino ai 20 anni, poi, ad un certo punto, devi trascorrere la vita universitaria a nasconderti in bagno perché non riesci a “contenere” i segni di una presenza (che tu senti e riconosci come estranea!) che ti “abita” contro la tua volontà!

Non voglio fare polemica: capisco, davvero, capisco chi non riesce a comprendere… se non lo vivi, le cose sono due: o ti fidi del Vangelo (Gesù parla continuamente di spiriti impuri e persone disturbate in modo anche serio) e di chi te lo racconta …o non puoi sapere cosa significhi e ne prendi le distanze pensando che sia da “creduloni”.

Ad ogni modo, il motivo per cui scrivo qui è che voglio sottolineare il fastidio del diavolo verso il matrimonio. Gioele, fidanzato con me da pochissimo quando tutto questo è venuto alla luce, mi è stato sempre vicino e, seppure a volte si sentisse inadeguato rispetto alla situazione, non ha mai dubitato di noi e di un futuro con me. Dopo tre anni insieme, mi ha chiesto di sposarlo.

Ricordo ancora che da fidanzati, quando ero in preda alla vessazione che si manifestava in modo violento (succedeva soprattutto quando io e Gioele eravamo soli), quando non riuscivo ad alzarmi da una sedia o da un letto per il malessere generalizzato o quando urlavo, lui si metteva lì, vicino a me, pregava il rosario per me e pian piano la situazione rientrava; se eravamo in macchina, con lucidità lui accostava e pregava. Oppure mi accompagnava in chiesa, dove, davanti al tabernacolo, il demonio si calmava. (Il demonio si sottomette solo a Cristo!).

La nostra situazione, però, è cambiata da quando siamo sposati: in Gioele il demonio, da quel momento, riconosce Gesù, allo stesso modo in cui lo riconosce nella Confessione e nell’Eucaristia.

Da fidanzati Gioele pregava, ma non rappresentava Cristo stesso per il diavolo come invece succede da otto anni a questa parte (esattamente dal giorno del nostro matrimonio). Mi credete se vi dico che la stola del mio esorcista e la mano di mio marito (lo ripeto, dal giorno della consacrazione nuziale), su quegli occhi che ruotano impazziti hanno lo stesso effetto? Scende su di me la stessa grazia. Il diavolo trema davanti alla fede benedetta, come trema davanti al crocifisso che il vescovo usa durante le sue benedizioni.

E quando facciamo l’amore (dobbiamo pregare molto prima, perché il demonio mi considera erroneamente “sua” e non vuole che mi doni a mio marito), la pace che vivo è una pace dell’anima. Il diavolo trema letteralmente durante ogni amplesso. Ciò che gli sposi cristiani sanno per fede, io lo sperimento: in ogni atto coniugale avverto la discesa dello Spirito Santo, che rinnova il sacramento. Lo avverto perché il demonio trema, come quando ricevo la comunione.

Ditemi pure che sono pazza: ho sofferto così tanto e ho visto così chiaramente ciò che vi sto dicendo, che i vostri giudizi non mi offendono, né hanno potere di cancellare qualcosa che sperimento e pure con una grande intensità. Oggi so cosa significa il buio dell’inferno, so cosa significa essere tormentati nel profondo e so cosa significa che Gesù lotta per noi e vince, alla fine, le tenebre.

Se racconto la mia storia – a costo di sembrare visionaria – non è per avere compassione, né per spaventarvi: è per dirvi di confidare in Gesù e di restare nella Chiesa anche se a volte delude. E perché sappiate quale grandezza abbiamo nei sacramenti, anche in quello del matrimonio, spesso troppo sottovalutato…

Voglio lasciarvi con un messaggio di speranza: tutto concorre al bene per coloro che amano Dio, anche il male, anche l’azione stessa del demonio! Non si contano le grazie che Dio mi ha donato, non si contano i frutti di bene, le scoperte che ho fatto sul suo amore. Se voi mi chiedeste che cosa mi ha lasciato, soprattutto, questa prova durissima, io vi direi “Tante benedizioni”. Attraverso questa croce grande, ho visto tanto, tanto bene e – paradossalmente, lo so – ho smesso di avere paura del demonio. Perché ho capito quanto Dio mi ama e che gli spiriti impuri si sottomettono a Lui. Oggi so che nulla potrà mai strappare la mia mano da quella di Gesù: nemmeno il diavolo in persona!

Cecilia Galatolo

Adrianna, Davide e il figlio Michele: decisivo l’“incontro” con Carlo Acutis

Una volta, durante una presentazione del romanzo “Sei nato originale, non vivere da fotocopia” (Mimep Docete), dedicato a Carlo Acutis, ho ascoltato la testimonianza di due genitori, Davide e Adrianna, legata al giovane beato, presto santo, di origini milanesi.

Andiamo con ordine. Questi coniugi hanno un bambino, Michele, nato il 4 dicembre 2015. Il piccolo cresce sereno, è molto simpatico e spiritoso. Impara, dalla mamma e dal papà, fin da piccino, l’amore per il volontariato e il rispetto della natura. La vita di questa famiglia scorre in modo tranquillo, spesso al servizio della comunità.

A gennaio 2022, Adrianna, che vive in Italia ma è polacca, ha un’esperienza molto particolare. La famiglia si trova in visita nel Principato di Monaco, quando Adrianna, in una chiesa, resta da sola, incantata davanti ad un’immagine di Carlo Acutis. Si accorge che vi sono, in quel luogo, delle reliquie del giovane milanese, di cui a malapena ha sentito parlare.

Colpita e attratta dall’immagine, inizia a pregare. Ad un tratto, mentre si trova inginocchiata e assorta nella preghiera, sente una voce, nitida, chiara, che le dice, nella sua lingua madre, il polacco: “Andrà tutto bene”. Lei non capisce: cosa deve andare bene? Non c’è nulla fuori posto, nella loro vita. Custodisce, però, quelle parole nel suo cuore.

Sei mesi dopo, il 2 giugno 2022, all’improvviso, una diagnosi terribile, che nessun genitore vorrebbe mai sentire: Michele ha la forma più aggressiva di glioma celebrare, tumore di recente scoperta e studiato ancora pochissimo. Nonostante due interventi al cervello e le numerose cure sperimentali, Michele non ce la fa: lascia i suoi cari il 4 giugno 2023, giorno in cui si festeggia la Santissima Trinità.

Eppure, questi due genitori testimoniano oggi di aver ricevuto un miracolo, anche se il figlio apparentemente ha perso la sua lotta contro il cancro: ed è la grazia di una pace non spiegabile in mezzo a tutto quel male umanamente non sopportabile.Michele non è guarito – spiega papà Davide – ma la cosa incredibile è che, nel tempo della malattia, rispondeva ‘Io sempre bene’ a chiunque gli chiedesse come stava”. Erano proprio le parole che Adrianna aveva udito pregando Carlo.

Non gli abbiamo mai nascosto quale fosse il male che lo aveva aggredito – racconta la mamma – sapeva bene ed era cosciente del suo destino, così come lo può essere un bimbo di sette anni”.

Durante tutto il tempo della malattia, supportato dai genitori, Michele raramente si lamenta del suo lento degrado (perde l’equilibrio, non riconosce più i colori e lui, esperto costruttore di Lego, non riesce più neppure ad incastrare due “Duplo”). Non si dispera per questo, al contrario, spiega sempre la madre: “Era lui che rasserenava noi genitori, ridendo anche del suo essere immunodepresso. Usava molto questa parola, quasi sbeffeggiando la malattia. Era buffo quando, ad esempio, stavamo giocando e lui esordiva: ‘Dai lasciami vincere, io sono immunodepresso!’”.

Ricorda il papà che una volta, “sfidando la malattia”, è riuscito a camminare da solo per ottocento metri: la gioia nel suo volto era quella di un atleta che ha appena vinto una medaglia. Michele, col suo sorriso e la pacifica accettazione della situazione che deve vivere, contagia e scuote persone che sono solite arrabbiarsi per molto, molto meno.

Per questo bimbo speciale, ogni nuova alba era un dono e a fine giornata voleva spegnere una candelina, solo per dire grazie del giorno appena trascorso. I medici gli avevano dato al massimo un anno di vita. Michele ha vissuto esattamente un anno e un giorno: quel giorno in più rappresenta tutta la sua grinta.

Al funerale, i genitori, seppur tristi per il distacco, manifestano un cuore “lieto”, perché sanno che Michele li aspetta in Cielo. Era stato lui a dirglielo, pochi giorni prima di ‘partire’: “Vi aspetto lì”. Ed era tranquillo, come se fosse la cosa più normale del mondo.

Michele era molto incuriosito dal Paradiso. Una volta, dopo un coma, dal quale si è risvegliato avendo rischiato la vita, ha raccontato di aver visto qualcuno che gli aveva mostrato un luogo bellissimo, promettendo di venirlo a riprendere poco tempo dopo, perché non era ‘ancora’ il momento. Si è svegliato deluso, perché quel posto era troppo bello e lui voleva andarci subito.

I genitori, nonostante questi segni, avrebbero voluto ritardare quel saluto il più possibile, ma, sostenuti dalla grazia, non hanno rinnegato Dio, quando è successo. Se qualcuno chiede loro perché non sia stato concesso il miracolo della guarigione, rispondono: “Perché il miracolo era lui“. Da quel figlio hanno imparato che si realizza davvero nella vita chi sa trasformare in dono per gli altri ogni attimo e la sofferenza in amore.

E per questo oggi Adrianna racconta: “Dopo la morte di nostro figlio Michele, grazie al supporto di Davide, ho iniziato differenti esperienze di volontariato presso l’ospedale Gaslini di Genova, nel reparto dove per un anno è stato ricoverato Michele, durante la sua malattia. Attraverso “Radio tra le note” con Don Roberto Fischer, la biblioteca ed il servizio spiaggia con “Il sogno di Tommy” e “Dottor Sogni”, clown in corsia, con l’associazione “Theodora” cerco di strappare un sorriso ai bambini ricoverati ed ai loro genitori così come è stato fatto per Michele e per noi”.

I genitori attribuiscono a Carlo Acutis la grazia di aver portato la malattia come se quel peso non fosse solo loro e, in tantissimi modi, continuano a vedere Carlo e Michele uniti. Nell’ospedale di Genova dove sono attualmente volontari c’è una statua della Madonna, che tiene le mani aperte. In un palmo la foto di Michele, nell’altro quella di Carlo.

Chi incontra Davide e Adrianna, come è capitato a me, può testimoniare che questi due genitori sono davvero sereni. Piegati, a volte (e non lo negano, perchè la deolezza è umana, è la grazia ad essere divina) ma non spezzati.

Il papà arriva ad affermare: “Non sopporto quando le persone ci dicono poverini. Abbiamo avuto una prova grande, ma non siamo poverini, perchè la consolazione di Dio è grande!”. Oggi questi coniugi, che hanno fatto seppellire il proprio figlio in una tomba circondata di lego colorate, come avrebbe voluto il figlio, sono testimoni della resurrezione e continuano a portare consolazione e speranza a tutti coloro che davanti alla morte non vedono un oltre.

La storia di Davide e Adrianna è riportata nel libro “Raccontami di Carlo. La bellezza della santità nelle parole e nei gesti di Carlo Acutis” (Editrice Punto Famiglia, 13 euro), acquistabile di seguito: https://www.famiglia.store/prodotto/raccontami-di-carlo/

Il libro propone un itinerario per conoscere la sua spiritualità del giovane Acutis, ma anche delle testimonianze di persone che in questi anni hanno ricevuto delle grazie o tratto ispirazione da questo santo millenial.

Cecilia Galatolo

Santa Gianna Beretta Molla: la tenerezza nel matrimonio e il “sì” alla vita

Non so quanti di voi hanno letto “Lettere”, a cura di Elio Guerriero (Edizioni San Paolo, 2012): è una raccolta di epistole che si sono scambiati Santa Gianna Beretta Molla e il suo Pietro. Sono lettere che raccontano il loro amore, dapprima nel fidanzamento e poi negli anni del matrimonio.

Pietro era spesso fuori per lavoro, non sempre per brevissimi periodi. Scrivere, in quei lunghi giorni di lontananza, era l’unico modo per restare in contatto, in un’epoca in cui non c’erano ancora tutte le tecnologie e i mezzi di comunicazione che conosciamo oggi.

I due sposi, nelle loro conversazioni, si mostrano attenti l’uno all’altra, proiettati verso la felicità del coniuge; si raccontano, si aprono, condividono stati d’animo, gioie e fatiche. E soprattutto si dimostrano l’un l’altra, in tutti i modi possibili, che si vogliono sinceramente bene.

L’ultima lettera è stata scritta da Pietro nel 1961, pochi mesi prima che la moglie morisse, dopo aver dato alla luce la loro quarta figlia. Gianna, infatti, ha sacrificato sé stessa per far nascere la sua bimba, Gianna Emanuela (oggi ancora viva e fervente testimone di fede).

Era sorto un fibroma: sarebbe stato sufficiente asportare l’utero per poter continuare a vivere, ma in quell’utero era custodita già una fragile vita, che Gianna voleva salvaguardare ad ogni costo. Proseguire la gravidanza ha significato per la donna una morte prematura, a 39 anni, e dover lasciare anche altri tre bambini.

Pietro, allora, ha assunto su di sé tutto il carico della famiglia, certo della vicinanza, in modo nuovo, della moglie, operante dal Cielo.

Ha trascorso quasi 50 anni da vedovo. Eppure, dopo la morte della sua amata, non ha mai smesso di ricordarla, di parlarne coi figli, di ringraziarla per averlo condotto ad una “vita nuova”. Geloso di quelle lettere, ha chiesto ai figli di non renderle pubbliche fino a che non avesse raggiunto la sua Gianna.

Oggi, quelle conversazioni sono un dono, soprattutto per i fidanzati e gli sposi: delle vere e proprie catechesi sulla vita coniugale. Questi sposi di Magenta, in provincia di Milano, si sono solo scelti ogni giorno: ed è il miracolo più grande che possa accadere in un matrimonio. Il loro segreto? Avevano Dio al centro.

È bellissimo questo: l’amore vissuto da Pietro e Gianna è cresciuto nel tempo, invece di consumarsi; non si è spento con l’arrivo dei figli, ma è maturato, diventando sempre più saldo. Gesù ha garantito anche a loro il vino buono negli anni.

La tenerezza di Pietro verso la moglie è toccante. È il 7 aprile 1957, si trova lontano da casa per un viaggio di lavoro e scrive: “Non saprei riposare se prima non mi mettessi in affettuosissima comunicazione con te, che vorrei avere sempre vicina, con te, affettuosissima sempre e premurosissima. Ti penso in questo momento con Pierluigi nelle braccia… E bacio e ribacio con tutto l’affetto la fotografia che ho di entrambi”.

La storia di Gianna Beretta Molla mi è entrata nel cuore, quando ero solo una ragazzina, grazie a mia madre, ora in Cielo anche lei. La venerava molto, la stimava, perché la ispirava.

Poco dopo la morte di mamma, decisi di dedicare un romanzo a Santa Gianna, a lei tanto cara. Così, venne alla luce “Tutto procede come imprevisto. Il tunnel diventato ponte grazie a Gianna Beretta Molla” (Mimep Docete, 2020).

Protagonista della storia è Gaia, una ragazza dei nostri giorni, diligente e studiosa, che frequenta l’università di medicina. Nel suo cassetto, tra i desideri da realizzare, ci sono un matrimonio felice e una laurea, magari a pieni voti, per poter diventare medico.

Un giorno, però, il mondo sembra crollare sulle sue spalle. Scopre, infatti, che il fidanzato la tradisce. È in quel momento che “perde la testa”. In un momento del tutto inaspettato, scopre che nel suo grembo c’è una nuova vita: che fare?

Una breve operazione e tutto sarà come prima”, le dicono le amiche, ma Gaia non ci riesce. I genitori la ricattano: non le pagheranno gli studi, se terrà quel figlio. Gaia rivuole indietro solo la sua vita: ha come obiettivo laurearsi. Non può occuparsi di un bambino, crede; di sicuro non senza l’appoggio di nessuno, come sta accadendo. Al tempo stesso non vuole abortire, lei è sempre stata sostenitrice della vita. Che dissidio, che sofferenza.

Nel reparto che la giovane protagonista definisce “il più inutile dell’ospedale” (una cappellina), farà un incontro inaspettato e decisivo, con una persona…

Non vi svelo come, ma anche Gianna Beretta Molla entra nella vita di Gaia e quel tunnel, che sembra senza fine, la condurrà, in realtà, ad una nuova luce.

“Il mondo ha più bisogno di testimoni, che di maestri”, diceva Paolo VI. È proprio così: l’esempio trascina più di mille parole…

Gianna è davvero una testimone credibile e ci ricorda che il nostro è il Dio delle sorprese. Gianna continua a dire con la sua storia di dolore e resurrezione: “Affidati alla Provvidenza e sarai felice”.

Cecilia Galatolo

Per avere maggiori informazioni sul romanzo: Tutto procede come imprevisto | Casa Editrice Mimep Docete

Gli Ulma: la prima famiglia dichiarata beata, dal primo all’ultimo membro

L’anno scorso, la Mimep Docete mi chiese di scrivere un libro sugli Ulma, una famiglia polacca sterminata durante la persecuzione nazista e proclamata beata, dal primo all’ultimo membro, nel dicembre 2022. Mi dissero che erano andati incontro al martirio, per difendere degli amici ebrei che avrebbero avuto morte certa. Mi informai bene sul loro conto, poi accettai l’incarico, entusiasta, sebbene mi rendessi conto che si trattasse di una vicenda drammatica, senza un apparente lieto fine.

La furia nazista, infatti, portò all’uccisione non solo degli ebrei rifugiati in quella casa, ma anche dei coniugi Ulma e dei loro sette figli. In effetti, è una storia in cui il male sembra vincere: una storia che potrebbe farci perdere la speranza e disincentivare il nostro impegno a vivere nell’amore. Eppure, anche la crocifissione di Gesù deve aver lasciato questo senso di amaro, di delusione, di sgomento. Deve aver fatto dire a tanti, mentre lo vedevano appeso a quel legno: “Chi ce lo ha fatto fare a seguire uno che muore così? Che senso ha rischiare la vita per lui, con lui?”

Magari questi inconfessabili pensieri avranno attraversato persino la mente degli apostoli, chiusi in quel cenacolo… dopo averlo abbandonato. Poi, però, è arrivata la Resurrezione, che ha ribaltato ogni cosa e dato senso a ogni ingiuria, a ogni piaga, persino alla morte peggiore che si possa pensare. Le ferite, le piaghe di Cristo, sono diventate feritoie per la luce. Lo sono anche per noi cristiani, oggi e sempre!

Gli Ulma a me hanno trasmesso questo: la Luce di una vita nuova, trasfiguarata dall’amore, e mi hanno ricordato che vale la pena vivere già qui con la fiducia nella Resurrezione. Mi hanno ricordato che l’odio dei nemici può uccidere i nostri corpi, ma nessuno può strappare le nostre anime a Cristo, se gliele abbiamo consegnate.

Dopo decenni, questa famiglia brilla, accanto a tanti altri santi. Li sappiamo vivi, nell’eternità, conosciamo nomi e cognomi, mentre dei loro assassini, vittime più o meno consapevoli del sistema di morte che imperava, nessuno ricorda né il volto, né i nomi. Perché solo l’amore crea e il frutto di chi ha amato rimane.

Tuttavia, a colpirmi molto è stato il modo in cui gli Ulma vissero, prima ancora del modo in cui morirono, ovvero all’insegna della soliderietà e della giustizia. Inoltre, mentre leggevo della loro vita famigliare mi arrivava il calore, l’affetto, la complicità, che regnavano tra quelle mura domestiche. La preghiera scandiva le giornate, insieme al lavoro umile ma onesto.

Le famiglie si evangelizzano attraverso altre famiglie e io mi rendevo conto che gli Ulma avevano tanto da insegnare, anche a me, anche a noi. Decisi, allora, di far tesoro di quanto mi stavano trasmettendo e di impostare il libro non solo come un racconto biografico e nemmeno come un romanzo, bensì pensai ad un percorso a tappe, ad un itinerario per le famiglie di oggi.

Ogni capitolo avrebbe portato il lettore a riflettere su una qualità della famiglia cristiana: fiducia nella provvidenza, apertura delle porte di casa al prossimo, rapporto di solidarietà con il vicinato, cura per ciascun figlio come se fosse l’unico, dedizione per il lavoro. È così che nacque “Un angolo di Cielo in famiglia: i coniugi Ulma, modello di carità” (Mimep Docete, 2024), con cui volevo provare a mettere in luce i carismi propri della famiglia cristiana.

Capitò, però, qualcosa di molto significativo, proprio durante la stesura di questo testo. Ad agosto del 2023, quando la Casa Editrice stava già pensando di assegnarmi questo lavoro, mi scoprii incinta. Iniziai a definire il progetto a settembre e a scrivere in ottobre, mentre nel cuore serbavo la gioia per la vita che portavo in grembo. Proprio in ottobre, però, persi il mio bambino.

Mi colpì un dettaglio: mentre io vivevo il mio terzo aborto spontaneo e consegnavo, non senza dolore, anche quel figlio al Cielo, certa che prima o poi lo avrei conosciuto, mi ritrovai a scrivere di questa famiglia dove l’ultimo membro beatificato è proprio un figlio non ancora nato! Quando la sua mamma è stata uccisa, infatti, lui si trovava ancora nel grembo. Lo lessi come un segnale forte per me. Mi parve di sentirmi dire che la morte non è la fine, ma una linea di confine: la vita continua, va ben oltre, anzi, si rinnova.

Ritornata dopo il ricovero in ospedale, mi rimisi a scrivere più convinta di prima. Lo feci anche in nome di tutte le vite non ancora nate, per ricordare che non finiscono nell’oblio ma dritte dritte nel cuore di Dio. A volte mi domandano: “Perché raccontare storie di santi?” Oggi sento di rispondere: “Per ricordarci qual è la meta. Per ricordarci che siamo fatti per l’eternità e che la nostra anima non morirà mai più”.

Solo così potremo dare davvero senso prima di tutto alla vita quaggiù! Solo così potremo diventare “eroici” nell’amore: infatti, chi si tiene stretta la propria vita (accumulando denaro, voltandosi dall’altra parte se qualcuno ha bisogno, scendendo a compromessi per assicurarsi una comoda tranquillità) la perderà, mentre chi la perde (ovvero la dona, senza paura di nulla!) per il Vangelo …vivrà per sempre. Così è stato e continua ad essere per gli Ulma. Così può essere per ognuno di noi.

Cecilia Galatolo

Conoscete il rito croato del matrimonio?

È risaputo che la fede cattolica è molto sentita sia in Croazia sia nelle popolazioni croate che abitano in Erzegovina ma, forse, è meno conosciuta l’usanza che ne caratterizza il rito del matrimonio cattolico, noto come rito croato. Esso non ha nulla di diverso rispetto a quello tradizionale nel senso che non toglie né modifica nulla, semmai integra con alcuni elementi molto significativi.

Innanzitutto la coppia è solita procurarsi – o ricevere in regalo – un crocifisso benedetto di legno, meglio se fabbricato da religiosi francescani, ordine religioso tra i più diffusi in questo Paese, che vanta una presenza secolare, circondata da un affetto profondo e radicato da parte della popolazione. Tale crocifisso è il protagonista, insieme agli sposi, nel momento dello scambio delle promesse: la moglie appoggia la sua mano su di esso al quale si aggiunge poi quella del marito; in questo modo l’intreccio dell’amore umano trova la sua base sulla croce di Cristo, vero ed autentico fondamento del matrimonio, tanto dal punto di vista spirituale quanto da quello fisico.

All’unione sponsale delle mani si aggiunge il gesto benedicente del celebrante al quale segue il “sì” reciproco degli sposi. Infine, il crocifisso sarà portato a casa, appeso oppure esposto in un luogo ben visibile per benedire l’abitazione e i suoi abitanti, permettendo così alla famiglia di pregare alla sua presenza.

In questo rito ci si sposa davvero in tre perché la presenza di Gesù non è solo immaginata ma reale e concretamente tangibile: in questo modo la croce non fa paura in quanto non è vista come immagine di domani indefinito nel quale ci saranno delle prove bensì come colonna portante di un’unione familiare non votata a sicure sciagure ma costruita ad immagine dell’amore più grande che esista, appunto quella del Signore che proprio su quel legno si è immolato per tutta l’umanità.

L’offerta di Gesù, infatti, ha scardinato completamente il significato di quel tipo di morte, che per i romani era la più ingiuriosa oltre che la più dolorosa; come ha magistralmente spiegato San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi: “La parola della croce infatti è stoltezza per quelli che si perdono, ma per quelli che si salvano, ossia per noi, è potenza di Dio. Sta scritto infatti:  «Distruggerò la sapienza dei sapienti e annullerò l’intelligenza degli intelligenti» […] quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti” (1 Cor 1, 18-19 e 27).

La “croce sponsale” del rito croato, allora, si configura come la roccia sulla quale costruire la casa della nuova famiglia, sicuri che resisterà alle tempeste della vita; il mondo, infatti, con i falsi dogmi della bellezza, della ricchezza, del successo e del piacere a tutti i costi, porta le coppie a edificarsi su una sabbia che inevitabilmente i venti delle difficoltà soffieranno via facilmente. Quante separazioni, quanti divorzi, quanti matrimoni spezzati!

Ecco allora che, semplice ma potentissimo nello stesso momento, il rito croato ci fa capire come quella croce non sia un soprammobile né un portafortuna ma la presenza vita e vivificante della e nella coppia, prima, e della e nella famiglia, poi. In questo modo l’indissolubilità del sacramento acquisterà un significato veramente centrale perché tradire l’unione sponsale sarebbe come tradire Gesù, ossia Colui che marito e moglie hanno stretto fisicamente tra loro nel momento decisivo in cui lo sono diventati.

Questo rito è diffusissimo, come accennavo poco righe più in alto, nella popolazione croata ma anche in quella dell’Erzegovina, la parte meridionale della Bosnia a maggioranza cattolica, la stessa porzione nella quale il tasso di divorzi è tra i più bassi d’Europa: sarà un caso? È proprio da Medjugorje e da Široki Brijeg – cittadina a pochi kilometri di distanza, ricordata per aver avuto Padre Jozo come parroco per lungo tempo – che questa tradizione si sta diffondendo; anche se è ancora poco conosciuta, ritengo che sia cosa “buona e giusta” darle visibilità in quanto permetterebbe a tante coppie di vivere con più profondità il matrimonio, a partire proprio dalla preparazione, fase importantissima per il dopo che verrà.  

Quando nel 2007 il sacerdote che ci avrebbe spostato – nonché guida spirituale del gruppo di preghiera da noi frequentato da anni – ci ha fatto scoprire e proposto il rito croato abbiamo accettato con entusiasmo non solo perché il buon Dio ci ha fatto conoscere proprio al festival dei giovani a Medjugorje ma perché abbiamo ritenuto che solamente affidandoci a quella Croce avremmo potuto affrontare e superare le tante, piccole o grandi, croci della vita.

Ora, dopo quasi diciassette anni di matrimonio, possiamo dirvi che ogni qualvolta guardiamo a quel Crocifisso non vediamo un pezzo di legno ma una presenza reale che ci sostiene e  supporta in tutto, soprattutto nei momenti difficili perché, proprio come recita il famoso canto di Monsignor Frisina, “Tu guidaci verso la meta, o segno potente di grazia. Nostra gloria è la Croce di Cristo, in Lei la vittoria. Il Signore è la nostra salvezza, la vita, la Risurrezione. Tu insegni ogni sapienza e confondi ogni stoltezza. In Te contempliamo l’amore, da Te riceviamo la vita”.

Fabrizia Perrachon

Affidatevi al miglior muratore di sempre

Dal Sal 117 (118) […]La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo. Questo è stato fatto dal Signore: una meraviglia ai nostri occhi. Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci in esso ed esultiamo! […]

Questo Salmo è pregato durante l’ottava di Pasqua, noi ne abbiamo riportato solo un versetto, ma esso è più lungo e più ricco perciò vi esortiamo a leggerlo e pregarlo tutto. Ovviamente questo versetto si riferisce al Cristo risorto, il quale è quella pietra scartata (sulla croce) ma che poi è divenuta la pietra sulla quale regge tutta la struttura.

Sappiamo bene che Gesù è risorto (e asceso poi al Cielo), e noi con il Battesimo siamo incorporati alla Sua morte e alla Sua risurrezione. Grazie a questo accesso alla Grazia di Cristo, noi abbiamo la possibilità di risorgere a vita nuova, che dovremmo aver sperimentato anche in questa Santa Pasqua. Ma il Signore è magnanimo e non limita la Sua azione misericordiosa al solo tempo quaresimale e/o pasquale, ma noi possiamo risorgere ogni qualvolta cadiamo in basso a causa dei nostri molti peccati, anche più volte al giorno se necessario.

Recentemente abbiamo incontrato diverse coppie di sposi che ci hanno testimoniato come il Signore le abbia prese da una situazione di crisi matrimoniale per alcuni, di malattia per altri, di lontananza dalla fede per altri ancora, e li abbia fatti rinascere nuovamente, una rinascita ad una vita nuova nella gioia del Risorto, nella Sua pace che non è quella che dà il mondo.

Questi sposi benedicevano quella situazione di crisi, di malattia o altro, perché essa è stata la causa della loro risurrezione, la causa di incontro col Risorto, senza quella il loro cuore non si sarebbe gettato nelle braccia misericordiose del Signore e Lui non avrebbe potuto compiere nuovamente la risurrezione a vita nuova.

Cari sposi, qual è la vostra pietra scartata? E perché l’avete scartata?

Ogni coppia di sposi può esaminare la propria storia passata o presente e trovare una pietra scartata dalla coppia stessa, ma non scartata dal Signore. Molte coppie vivono situazioni complesse e complicate dalla propria ottusità, dalla propria mancanza di fiducia nella onnipotenza del Signore; basterebbe prendere questa pietra e metterla nelle mani, o meglio sulla cazzuola, del miglior muratore, il quale sa prenderla e trasformarla in una pietra angolare.

Molti sposi ci hanno testimoniato che nella loro storia c’è un prima e un dopo rispetto a quella crisi, a quella malattia, a quella conversione, esso è divenuto uno spartiacque tra prima e dopo, tra la vita vecchia e la vita nuova nel Risorto. Per essi quella pietra che avevano scartata perché ritenuta di scarso valore, è divenuta invece la pietra angolare, quella su cui si regge la costruzione.

Il Signore non butta via niente della nostra vita, prende tutto e trasforma.

Vi riportiamo un solo un esempio: San Giovanni Bosco rimase orfano di padre alla tenera età di 2 anni e crebbe con la mamma Margherita, seconda moglie del padre dopo la precoce vedovanza dalla prima. Quindi se la prima moglie del suo papà non fosse morta, non sarebbe nato Giovanni, inoltre la mamma diventò poi un’indispensabile aiuto alla missione del giovane sacerdote torinese, il quale, fortificato dall’esperienza della precoce orfanità paterna divenne un grande padre per centinaia, forse migliaia di ragazzi: un grande santo.

Come vedete, il Signore non butta via niente, ma Lui fa nuove tutte le cose!

Se Lui non le butta, perché dobbiamo farlo noi?

Coraggio sposi, basta affidarsi al miglior muratore di sempre.

Giorgio e Valentina.

La Divina Misericordia nelle relazioni familiari

Domenica sarà un giorno speciale: quello dedicato alla Divina Misericordia. Di che cosa si tratta esattamente? E che rapporto c’è tra essa e le relazioni familiari, tra coniugi e con i figli?

Innanzitutto è importante dire che la Divina Misericordia è considerata – come si recita nelle litanie stesse – “il massimo attributo della divinità”: questo significa, l’abbiamo appena sperimentato nella Resurrezione, che il Signore non è solo giusto giudice ma è anche un Dio che perdona chiunque si penta dei propri peccati, riconosca i suoi sbagli e ritorni a Lui con cuore pentito. Diciamo la verità: se Gesù non fosse stato misericordioso come avrebbe potuto dire “Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,34), all’apice delle sofferenze fisiche e morali, straziato e appeso al legno della croce? Egli ci ha lasciato un esempio grandissimo e rivoluzionario, capace non solo di superare la cosiddetta legge del taglione – occhio per occhio, dente per dente – ma di offrire uno sguardo nuovo sui rapporti tra noi e tra noi con Dio.

La Chiesa, nella prima domenica dopo la Santa Pasqua, ci invia a riflettere sul mistero della misericordia: per noi adesso, concretamente, che cosa significa festeggiare e onorare la Divina Misericordia? Che cosa può aiutarci nel comprendere, prima, e nel mettere in pratica, poi, l’invito di Gesù:siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36)? Ci sono due componenti che dobbiamo essere capaci di fondere insieme: quella liturgico-spirituale e quella affettivo-familiare. Per penetrare con il cuore questa caratteristica unica del nostro Dio – distante anni luce dalle logiche umane, di ieri come di oggi – è fondamentale sapere, o ricordare, che oltre agli accenni evangelici tutto ciò che ruota attorno alla Divina Misericordia è stato rivelato da Gesù a Faustina Kowalska, santa suora polacca vissuta agli inizi del Novecento e universalmente nota come “apostola” della misericordia. Capiamo la portata di questa manifestazione? È Dio stesso che ha desiderato svelarci le fattezze del Suo volto, donandoci la bellissima preghiera della Coroncina e indicandoci le tre del pomeriggio come “ora della misericordia”, per ricordarci il momento esatto in cui Cristo spirò.

Disse Gesù a Santa Faustina: “Desidero che la festa della Misericordia sia di riparo e rifugio per tutte le anime, e specialmente per i poveri peccatori (…) riverserò tutto un mare di grazie sulle anime che si avvicinano alla sorgente della Mia Misericordia. L’anima che si accosta alla confessione ed alla Santa Comunione riceve il perdono totale delle colpe e delle pene. In quel giorno sono aperti tutti i canali attraverso i quali scorrono le grazie Divine. Nessuna anima abbia paura di accostarsi a Me, anche se i suoi peccati fossero come lo scarlatto” (Diario, 699). Riveló anche: “La sorgente della mia Misericordia venne spalancata dalla lancia sulla croce per tutte le anime; non ho escluso nessuno” (Diario, 1182). E ancora: “L’umanità non troverà pace finché non si rivolgerà con fiducia alla Mia Misericordia” (Diario 300).

Come detto prima, però, oltre alla conoscenza ed alla pratica nella preghiera è necessario essere in grado di trasformare in vita gli inviti ricevuti, a proposito dei quali è sempre Gesù che ne ha indicato la via: “Devi mostrare Misericordia sempre e ovunque verso il prossimo; non puoi esimerti da questo, né rifiutarti né giustificarti. Ti sottopongo tre modi per dimostrare Misericordia verso il prossimo: il primo è l’azione, il secondo è la parola, il terzo la preghiera. In questi tre gradi è racchiusa la pienezza della Misericordia ed è una dimostrazione irrefutabile dell’amore verso di Me. In questo modo l’anima esalta e rende culto alla Mia Misericordia” (Diario, 742).

Ecco dunque che il Cielo ci ha fornito sia la ricetta che il farmaco: essere misericordiosi verso il coniuge, i figli o chiunque entri in relazione con noi significa guardare oltre la pagliuzza che c’è nei loro occhi, oltre i difetti, le povertà materiali o spirituali e al di là delle mancanze o delle leggerezze perché in essi c’è innanzitutto una persona voluta e amata da Dio. Non possiamo invocare la misericordia e poi essere i primi tiranni, i primi accusatori, i primi giudici degli altri! Approcciarsi alle persone in questo modo non significa solo tradurre nella pratica il comandamento dell’amore ma provare ad amare Dio nella maniera che Lui stesso ha voluto.

La misericordia, attenzione, non è un premio vinto una volta per tutte ma un percorso, una scelta da compiersi ogni giorno e nessuno può dirsi esperto né arrivato perché le relazioni, a volte, mettono a dura prova; la cosa importante è non lasciarsi abbattere ma vincere quotidianamente pigrizia e mentalità dominante per amare e lasciarsi amare, sentirsi perdonati e sforzarsi di perdonare. Guardare al marito, alla moglie, ai genitori, ai figli, ai parenti, agli amici o ai colleghi con gli occhi della misericordia, allora, non vuol dire essere illusi, disincantati e disposti a subire passivamente offese o soprusi ma provare ad andare al di là della scorza puramente umana per scorgere l’anelito divino e la bontà che Dio ha posto nel fondo del cuore di ciascuno di noi. Solo così potremo essere veramente coerenti con quanto pronunciamo nel Padre Nostro: “rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”.

Che bellezza, che grandezza, che sconcertante modernità l’amore misericordioso di Gesù! Altro che favolette per deboli … questa sì che è roba forte! Preghiamo, quindi, di essere capaci di accogliere e vivere questo messaggio straordinario ed essere pronti ad unirci, con le labbra ma soprattutto con il cuore, al coro che inneggia: “Misericordias Domini in aetenum cantabo!”.

Fabrizia Perrachon

Ci credo perchè anche io sono risorto grazie a Lui!

La resurrezione. Cosa è la resurrezione? Ci crediamo davvero? Crediamo davvero che Gesù è morto e risorto? Cosa significa nella nostra vita che Gesù è risorto? Cosa ha cambiato? Se ha cambiato qualcosa. Nel nostro matrimonio quanto c’entra la resurrezione?

Queste sono delle domande che ieri, in un momento di meditazione personale, mi sono posto. A me stesso. Perchè se non credi che Gesù sia il risorto non ti cambia la vita. Tanti credono che gli insegnamenti del Cristo siano belli e condivisibili. Tanti pensano che Gesù sia un esempio di vita. Ma tanti non credono che sia davvero risorto. Ci credono forse a parole ma poi nei fatti vivono come se la resurrezione non c’entrasse davvero con la loro vita.

Durante la notte della Veglia Pasquale durante la benedizione del cero abbiamo ascoltato tra le altre cose questa affermazione che risale a un’omelia di sant’Agostino: Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!

Io sono arrivato a credere che nella nostra vita per arrivare davvero a comprendere la resurrezione abbiamo bisogno di passare dalla sofferenza. Per me è stato così, per Luisa è stato così. Mi è piaciuta molto la definizione di don Luigi Maria Epicoco di resurrezione. La resurrezione è un imprevisto.

Ci sono dei momenti in cui nella nostra vita non riusciamo a vedere una luce. Le cose non vanno bene. Ci sentiamo bloccati. Può essere il lavoro, una malattia, un lutto, una ferita relazionale, una relazione andata male. Ognuno ha la sua storia. L’incontro con la resurrezione – dice don Luigi – è un fatto che risignifica la vita. Ma tutto parte da un fatto traumatico, da un dolore. San Paolo cade da cavallo. Dobbiamo fare esperienza – spesso attraverso il dolore – che non ci bastiamo. Che da soli non troviamo la via d’uscita.

La differenza è tutta nel modo con cui affrontiamo la prova. Se ci chiudiamo e davanti a noi non riusciamo a vedere null’altro che buio subentra la disperazione. Se invece ci apriamo ad accogliere l’imprevisto di Dio ecco che arriva – presto o tardi – la resurrezione. Nella storia mia e di Luisa è stato così. Ma non voglio parlare ancora di noi.

Mi viene in mente Ettore che scrive sul blog. Lui è risorto dalla separazione con la moglie proprio non chiudendo la porta a Dio ma restando in ascolto e in attesa di quell’imprevisto. Imprevisto che è arrivato. Ed è risorto. Non come si aspettava lui. E’ ancora separato dalla moglie ma ha trovato una guida sapiente in don Renzo Bonetti, una moltitudine di amici, un senso d’amore anche in quella separazione e ha compreso come potesse ancora rendere fecondo il suo matrimonio seppure nella separazione. Ora è una persona risorta e paradossalmente più consapevole ora dell’amore di Dio.

Auguro a tutti, qualsiasi sia la vostra situazione, la vostra storia e le vostre sofferenze, di poter dire: Gesù è risorto veramente! Ci credo perchè anche io sono risorto grazie a Lui! E se non vi sentite ancora risorti non smettete di attendere quell’imprevisto di Dio. Che non sarà probabilmente come voi vi aspettate e dove voi lo cercate.

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Le sette parole di Gesù per gli sposi

Siamo giunti così a sabato. Questa sera vivremo la veglia pasquale. Senza la Pasqua nulla avrebbe senso. Pochi ci pensano, ma Cristo su quella croce ha celebrato le sue nozze con noi. La croce è stata talamo consacrato. Sulla croce ha offerto tutto di sè. Tutto fino a dare la vita. L’amore di Cristo, inchiodato alla croce, è un amore che ogni sposo e ogni sposa dovrebbero prendere ad esempio e cercare di emulare. In quel momento così terribilmente importante, Gesù ci affida sette parole. Cercherò di declinarle e attualizzarle nella vita di una coppia di sposi.

Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. Lo sposo perdona sempre. Fa di più! Intercede presso Dio e offre la sua vita per la salvezza del coniuge. Noi lo facciamo o ci lasciamo vincere dal rancore e dall’orgoglio?

Oggi con me sarai nel paradiso. L’amore non guarda il passato. Ha la memoria corta per il male subito. L’amore ha memoria lunga solo per il bene ricevuto. La persona che ama si commuove del pentimento e non smette di credere nell’uomo o nella donna che ha sposato.

Donna, ecco tuo Figlio … Chi ama davvero è come Gesù. Non pensa a sè. Gesù è sulla croce, sta morendo, ma si preoccupa delle persone che ama. Non di se stesso. Questo è l’atteggiamento che dovrebbe caratterizzare l’amore degli sposi. Lo sguardo sempre verso l’altro.

Ho sete. Siamo fatti per essere amati. Gesù soffre la sete del corpo certamente. C’è un’altra sete più profonda, La sete di un cuore che vorrebbe essere riamato da quegli uomini a cui ha dato tutto. Così anche noi sposi. Non smettiamo di dissetarci alla fonte del nostro amore. Non cerchiamo di spegnere la nostra sete con altro. Mettiamo al primo posto Dio nel nostro matrimonio e la nostra famiglia. Prima del lavoro, prima dei soldi, prima delle famiglie di origine, ecc.

Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Ci passiamo tutti prima o poi. Sperimenteremo, o abbiamo già sperimentato, momenti si solitudine profonda. Momenti in cui il nostro matrimonio diventa croce. Non riusciamo più a vedere la presenza di Dio nella nostra storia. Coraggio! Gesù stesso ci è passato. Lui ci insegna che non dobbiamo mollare.

Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Anche nel nostro matrimonio è importante conoscere, anzi riconoscere, che il nostro sposo (sposa) non è Dio. Non è è lui/lei che ci può rendere felici e dare senso alla vita. Solo l’abbandono in Dio ci può rendere capaci di essere sposi liberi di amare gratuitamente e incondizionatamente la persona che abbiamo sposato.

È compiuto.  Il nostro amore è compiuto quando riesce a spingersi oltre ogni egoismo e ogni difficoltà. Solo così le nostre morti diventano occasione di resurrezione e di nuova vita, per noi, per il nostro coniuge e per la nostra relazione.

Non mi resta che augurare a tutti una meravigliosa celebrazione della Pasqua.

Antonio e Luisa

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Segniamo la porta del nostro cuore con il sangue dell’Agnello.

Stamattina mi sono alzato presto.  Sono andato in chiesa. Oggi è il venerdì in cui Gesù viene giudicato, offeso, condannato, frustato e infine caricato della croce e condotto sul Golgota a morire. La chiesa è nella semioscurità. C’è l’atmosfera giusta per immergersi in Gesù, per fare un salto nel tempo e trovarsi nella Gerusalemme di circa duemila anni fa. Penso alla solitudine di Gesù, all’abbandono da parte di tutti o quasi. Solo la madre, poche donne e il discepolo amato sotto la sua croce.

Quel sangue versato per noi, per tutti noi, per dirci che ci ama e ci desidera come nessun altro. Ho pensato a tante cose e mi sono sentito profondamente indegno del suo sacrificio. Il suo sacrificio capace di salvarci dalla morte e di rendere nuova ogni cosa. Capace di andare oltre le nostre miserie, i nostri fallimenti, le fragilità e gli errori.

Capace di prendere sulle spalle, insieme alla croce anche il peso della nostra incapacità di amare e trasformare il nostro matrimonio. Gesù che ieri, giovedì, stava ricordando con i suoi apostoli la pasqua ebraica (Pèsach) . Stava ricordando la liberazione del suo popolo dall’Egitto oppressore.

Non tutti erano felici di lasciare l’Egitto e seguire Mosè. Alcuni preferivano rimanere schiavi perché almeno avevano un tetto sopra la testa e un pasto sicuro. A volte ci comportiamo allo stesso modo. Talvolta ci aggrappiamo alle nostre “schiavitù”, convincendoci che le cose non vanno poi così male. Dopotutto, ci sono persone che stanno ancora peggio di noi. Ci aggrappiamo alla nostra zona di comfort e ci rifiutiamo di lasciarla.

Attraversare il deserto costa fatica. Il nostro matrimonio può diventare santo, ma dobbiamo volerlo. Il nostro matrimonio, se noi lo desideriamo, attraverso quel sangue versato, può risorgere dalla morte del peccato. Il nostro matrimonio è come la porta delle dimore di quegli ebrei schiavi in Egitto.

Dio ci chiede di segnare la porta del nostro cuore e  del nostro matrimonio con il sangue dell’Agnello sacrificato. Solo cosi la morte del peccato non ci toccherà e passerà oltre. Non basta però il sacrificio di Gesù per noi, ma è necessario il nostro riconoscerci bisognosi e desiderosi di segnarci del Suo sangue, serve che ci professiamo cristiani non solo con le parole, ma portando il segno del suo sacrificio aderendo ai suoi insegnamenti e aprendo il nostro cuore alla Sua Grazia che salva.

Come in modo significativo predicava un vescovo del IV secolo: Per ogni uomo, il principio della vita è quello, a partire dal quale Cristo è stato immolato per lui. Ma Cristo è immolato per lui nel momento in cui egli riconosce la grazia e diventa cosciente della vita procuratagli da quell’immolazione.

Questo giorno è un momento decisivo. Non per Cristo, che ha già preso la sua decisione, ma per noi. Anche noi abbiamo tradito molte volte. Possiamo seguire l’esempio di Giuda e lasciarci consumare dal rimorso, oppure trasformare il nostro tradimento in una nuova vita. Come fece Pietro, quando, di fronte a Gesù incatenato che lo guardava con amore nonostante lui l’avesse appena rinnegato, non riuscì a trattenere le lacrime. Fu proprio quel pianto a spalancare finalmente il suo cuore. Da quel momento Pietro divenne veramente la roccia che Gesù aveva intravisto chiamandolo “Pietro”.

Antonio e Luisa

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Il matrimonio secondo Pinocchio /25

Pinocchio mangia lo zucchero, ma non vuol purgarsi: però quando vede i becchini che vengono a portarlo via, allora si purga. Poi dice una bugia e per castigo gli cresce il naso.

Affrontiamo ora il capitolo XVII di questo racconto che si sta svelando come un grande aiuto per la nostra vita poiché le vicende che il burattino affronta sono comuni all’umano vivere di ogni epoca.

Da questo capitolo traiamo tre spunti di riflessione: il primo sull’intervento della Fata, il secondo sulla paura delle medicine e il terzo sulle bugie.

1. L’intervento della Fata. Dopo il consulto pittoresco e inconcludente dei tre medici, la Fata prende in mano la situazione e prepara da sé il farmaco per la guarigione, si può notare come il Grillo non basti più: per poter cambiare vita non è sufficiente l’intervento, che pure è necessario, della coscienza e del suo giudizio sui nostri atti, abbisogniamo dell’intervento della realtà, l’unica che ci può somministrare la medicina, ovvero della Chiesa, qui raffigurata dalla Fata.

Chi vorrebbe un Gesù senza la Sua Chiesa, è come se pretendesse di conoscere/incontrare uno sposo senza mai conoscerne/incontrarne la sposa, essa però è la dispensatrice della Grazie del Suo sposo divino. Certamente qualcuno potrebbe obiettare che Dio è infinito e che, di per sé, non abbia alcun bisogno della Chiesa, in quanto Dio fa quello che vuole, quando vuole e come vuole; questo è vero, ed è talmente vero che ha deciso di volersi servire ordinariamente della Chiesa per far passare la Sua Grazia, poi che in modo straordinario Lui operi comunque non è un nostro problema anche se non v’è sicurezza che avvenga, lasciamo a Dio fare il Suo mestiere, ma noi siamo corpo di questa sposa che si sottomette al Suo sposo.

Ma qual è la medicina che ci dà la Chiesa ? I sacramenti.

2. La paura delle medicine. In un passaggio significativo Pinocchio così si esprime:

-Egli è che noi ragazzi siamo tutti così! Abbiamo più paura delle medicine che del male.

Quanta verità in queste poche parole, se applicate alla nostra vita spirituale si apre la nostra seconda riflessione. Perché i sacramenti sono così snobbati dalla maggior parte dei cristiani cattolici? Sicuramente per una serie di motivi che non vogliamo tirare in ballo, ci basti però ricordare la verità espressa da quel pezzo di legno parlante, e cioè che molti battezzati preferiscono restare a lamentarsi (come Pinocchio che cerca ogni scusa pur di non prendere la medicina) nel proprio stato di peccato piuttosto che di affidarsi alle cure esperte della Chiesa, quella Fata che, senza usare “effetti speciali e colori ultravivaci”, si serve di umili elementi (acqua, olio, pane, vino) per operare i più grandi miracoli. Lasciamo alla sapienza del compianto cardinal Biffi spiegarci in poche righe questo passaggio:

Ma il “principio sacramentale”, che piace poco a noi, piace molto a Colui che unico ci può salvare, forse perché è conforme al suo vivo senso dell’umorismo. Egli probabilmente si diverte a vedere che per avere il cuore trasformato uno non debba soltanto dibattere i suoi problemi entro il tribunale dell’anima, ma anche farsi lavare la testa nel Battesimo e farsi ungere nella Confermazione, così come si compiace di assegnare un uomo (Gesù) come capo e salvatore degli angeli. […] …tra la magia ed il sacramento la differenza è assoluta : nella magia l’uomo cerca di piegare la divinità al proprio volere con mezzi assurdamente sproporzionati; nel sacramento l’uomo cerca di piegare la sua volontà individualista e orgogliosa fino a farla entrare nell’allegro gioco di Dio, che ha deciso di elevare le creature più umili (acqua, pane…) alla dignità di strumenti salvifici per la creatura più alta (l’uomo).

3. Le bugie. Sicuramente uno degli elementi che fa decidere a Pinocchio di dire alcune bugie alla Fata è la paura, ma non è curioso che il Gatto e la Volpe siano ritenuti degni della sua verità mentre la Fata no? Eppure anche questo atteggiamento è rivelatore, non è forse vero che quando la tentazione ci assale conosca la verità di noi stessi nel profondo delle nostre fragilità personali? Perché allora di fronte alla medicina che la Chiesa ci vuole somministrare nascondiamo le nostre malefatte, scusandole ed arrogandoci il diritto di decidere cosa è bene e cosa è male?

Cari sposi, anche il sacramento del matrimonio è una medicina per la nostra anima e per la nostra umanità malata e ferita dal peccato originale, impegniamoci quindi a non rifiutare tale medicina: dobbiamo riscoprire che il nostro consorte è quello giusto per noi, per combattere le nostre cattive inclinazioni, per distruggere il nostro orgoglio e la nostra presunzione, per dilatare il nostro cuore ad amare sempre meglio e sempre di più, per imparare la via del sacrificarsi per l’altro, per non mettere al centro solo noi stessi. Coraggio!

Giorgio e Valentina.

19 marzo, San Giuseppe: “Ecco perchè oggi festeggiamo i papà!”

Giuseppe, lo sappiamo, di Maria era promesso

ma qualcuno, tra loro, fece il suo ingresso;

da un sguardo caduto sul suo addome

egli s’accorse che era un pancione:

“Maria che hai fatto?” pensò nel cuore

e si allontanò per diverse ore.

Nel sonno, però, venne un angelo da Lassù:

“Non temere, è arrivato Gesù!

I tuoi piani non stravolgere completamente,

di lui sarai padre veramente, 

qui sulla terra insieme a Maria

come aveva profetizzato perfino Isaia”.

Un po’ sconvolto e un po’ turbato

Giuseppe dalla fidanzata è tornato:

“Maria, una famiglia noi siamo,

insieme a Gesù lo sai che ti amo”.

Fu così che iniziò una grande avventura,

anche se i conti con una mezza sciagura

di fretta e di furia dovette affrontare:

“Veloci a Betlemme a farvi registrare!”.

Giuseppe e Maria si mettono in cammino

anche se è imminente l’arrivo del Piccino;

quanti passi fatti a piedi, senza lamento,

con lo sguaro su Maria vigile e attento.

In città non c’è posto per loro

si sentono dire come in un triste coro;

“Gesù dove nascere potrà?”

“Vieni, c’è una grotta poco più in là”.

E così, forse un po’ impaurito,

Giuseppe solo ha assistito 

alla nascita del Redentore,

nel momento in cui tutte le ore

per un attimo si sono fermate

perché le leggi per sempre erano cambiate. 

“Così tenero, piccolo e delicato,

eppure per il mondo è stato mandato,

per sconfiggere la morte e il peccato 

affinché ciascuno di noi sia riscattato”.

Giuseppe sapeva ma a nessuno diceva

che la sua sposa era una nuova Eva,

madre e figlia nello stesso momento

per dono di Grazia e vero portento.

Quante cose ha dovuto sopportare,

quanto legno ha saputo lavorare,

quanti sguardi d’amore per il fanciullo

anche quando tutto si faceva brullo

e di nuovo, improvvisamente, scappare

perché la vita di Gesù bisognava preservare.

Che dire poi di quel giorno nel tempio 

quando, scambiato per empio,

Gesù sembrava da tutti scappato:

“Con chi mai si sarà allontanato?”.

Ancora un volta, in silenzio e preoccupato,

Giuseppe in marcia si era incamminato,

sempre accanto alla sua Maria:

“Speriamo di trovarlo, mogliettina mia”.

Gesù, invece, tranquillo se ne stava

perché la Legge del Padre ora insegnava:

“Non sapevate che Lui devo testimoniare 

affinché la gente si possa salvare?”

Giuseppe capisce che l’ora si sta avvicinando

e che quel figlio la storia sta mutando,

“Chissà quanti giorni ancor qui passerà 

prima che in croce trafitto sarà”.

Giuseppe non vide quel grande tormento 

ma dal Cielo senz’altro ne fu sgomento:

guardare il figliolo con cattiveria oltraggiato

e senza pietà percosso e flagellato;

come il peggior criminale mai esistito, 

non gli fu risparmiato nemmeno un dito

ma tutto grondante di sangue e sudore

alle tre tornò dal Padre, il nostro Creatore.

 

Non una parola di Giuseppe è stata riportata

eppure la Bibbia è un’opera accurata;

forse perché è più importante ricordare

non come egli abbia potuto parlare

ma quello che i fatti hanno raccontato:

grande esempio ben proporzionato

tra rispetto, fede e obbedienza,

amore, dedizione ed esperienza.

San Giuseppe fu sposo e papà,

autentico maestro di somma pietà

perché a Maria e a Gesù ha donato 

ciò che mai sarà dimenticato,

tanto appoggio e altrettanta virilità 

il tutto condito da profonda umiltà. 

Ecco perché oggi festeggiamo i papà!

In Giuseppe hanno un’immagine di santità 

a cui tutti sono chiamati:

fatevi forza, non siete scusati!

Questo falegname, com’è scritto nel Vangelo,

vi fa da apripista per il Cielo;

si può essere Lassù, felici e beati,

anche se padri e da anni sposati 

anzi è proprio questa condizione

ad essere sicuro segno di vocazione: 

se moglie e figli con amore e affetto

si portano nel cuore, oltre che sul petto,

per vivere ogni giorno con pazienza e fedeltà 

perche è così che alla vita un sapore si dà.

 

Immagine potente di castità e purezza 

in te abbiamo un modello di saggezza 

e quel giglio bianco e profumato,

semplice simbolo per te usato,

ci ricorda che Dio mai ci abbandona 

pur se la tempesta a volte risuona

perché mai lasciato solo è 

chi confida nell’unico Re. 

Anche se le prove non mancheranno 

tutti in Giuseppe un appiglio riceveranno:

vera impronta del Padre onnipotente

egli è patrono di ogni morente 

perché tra le braccia di Maria e Gesù 

è passato da questa terra alla vita di Lassù,

per sempre in Paradiso beato 

dopo aver tanto faticato.

Anche questo a noi succederà 

se già in vita avremo praticato la carità:

ti preghiamo, Giuseppe, resta a noi vicino 

finché un dì saremo con te, accanto al Bambino.

Fabrizia Perrachon 

Don Antonio: ho sempre riconosciuto una sensibilità per la pastorale familiare

Mi presento. Sono don Antonio. Un uomo di 46 anni e da 21 sacerdote. Sono parroco di due parrocchie in provincia di Salerno. Ho studiato prima nel seminario di Potenza, e poi presso S. Anselmo a Roma dove ho compiuto la licenza in Teologia sacramentaria. Sono stato educatore nel seminario di Salerno per 9 anni, e dal 2005 insegno teologia dei sacramenti ai futuri sacerdoti. Sono impegnato nella formazione permanente del clero e nell’accompagnamento di fidanzati e coppie sposate. In passato anche della vita consacrata femminile.

Fin da quando ero in seminario, ho sempre riconosciuto una sensibilità per la pastorale familiare. Devo ringraziare l’impegno pastorale presente in Italia in modo particolare ad opera dei sacerdoti don Renzo Bonetti e don Carlo Rocchetta. Li ho incontrati personalmente una sola volta. Ma grazie ai social sono come dei padri spirituali per la mia formazione pastorale. Sono loro riconoscente per il fatto che “penso la mia vita sacerdotale” sempre in relazione “alla vita familiare” e sono incamminato nel Regno divino “dell’amore sponsale” impegnandomi nella virtù della “tenerezza”.

Qualche tempo fa, un pomeriggio, lessi un commento su questo blog ad un post di Antonio. Era un forte giudizio, ormai diventato comune, su papa Francesco e sul suo collaboratore il card. Fernandez. Si accese un moto interiore e scrissi un messaggio in privato ad Antonio … e conversando anche a viva voce ricevetti la proposta di condividere le mie riflessioni con voi. Io sto con il papa. Questo o quello. Senza magistero papale non c’è Chiesa di Gesù, e allora non c’è neppure Gesù. Quello degli apostoli. Pur sapendo che Gesù agisce anche fuori dai “confini” della sua Chiesa. Ma intanto che io vivo nel suo corpo della Chiesa, non posso stare qui e anche fuori lì. Perciò io sto sempre con la Chiesa.

Forse perché da giovane le sue rughe, scavate sul Volto, a causa della sua umana fragilità, mi hanno spaventato e allontanato da Lei e quindi da Gesù. Poi ho imparato che puntare il dito significa non amare, non perché si giudica, ma perché si vuole prendere le distanze. Io, prete, attendo dalla famiglia che nasce dal sacramento del matrimonio di essere aiutato ad amare di più questa Chiesa, la Chiesa di oggi, che cresce e si sviluppa a partire dalla Chiesa di ieri, e vuole diventare sempre più per domani la Chiesa di Gesù Cristo.

La famiglia, piccola Chiesa domestica, riflette e incarna l’amore di Gesù per la Chiesa, ma anche quello della Chiesa per Gesù. Perciò, io che sono prete, ho bisogno veramente di questo sano amore della famiglia per la Chiesa, affinché io possa amare la mia chiesa parrocchiale così come il sacramento dell’amore ogni giorno edifica la Chiesa e la società.

Ritornando e concludendo la mia presentazione, con Antonio abbiamo pensato che i miei interventi saranno dei “frammenti sui sette segni”. In questo primo contatto ho voluto dare voce soltanto al frammento sulla mia persona affinché dietro a questa firma – don Antonio Marotta – ciascuno d’ora in poi possa essere certo del mio intento: risvegliare la Chiesa nelle anime (R. Guardini) – fu il messaggio di papa Benedetto XVI nel suo ultimo discorso pubblico – che esplicitato su questo blog significa voler ri-leggere i tratti familiari dei sette sacramenti. La dimensione ecclesiale dei sacramenti. I sette sacramenti per la chiesa domestica.

Don Antonio Marotta

Il matrimonio secondo Pinocchio /24

La bella Bambina dai capelli turchini fa raccogliere il burattino: lo mette a letto, e chiama tre medici per sapere se sia vivo o morto.

Il Collodi si inventa la morte apparente per poter continuare il racconto, richiesto a gran voce dai piccoli lettori e dall’editore, dobbiamo ringraziare questa insistenza che ci ha permesso di leggere un’opera indimenticabile per l’infanzia e dal grande valore educativo. Si inserisce quindi una nuova figura, la bella Bambina, che potrebbe sembrare distrarre Pinocchio dal suo rapporto con Geppetto.

In realtà scopriremo, nei prossimi capitoli, che questa figura femminile non entrerà mai in conflitto con la figura paterna del falegname, al contrario, la sua funzione sarà quella di aiutare Pinocchio nella relazione col proprio padre.

Come non vedere in questa graziosa Bambina l’immagine della Vergine Maria?

Senza fare nessuna forzatura, la quale andrebbe a snaturare il racconto, possiamo rilevarne alcune caratteristiche che richiamano la Madonna: i capelli turchini, la (sempre) giovane età, la capacità di comandare con garbo e serietà nello stesso tempo, il rispetto con cui tratta Pinocchio da “morto apparente” salvaguardandone la dignità nonostante sia solo un burattino, e lo si denota da come si rivolge al Falco prima e al Can-barbone poi:

– Orbene: vola subito laggiù: rompi col tuo fortissimo becco il nodo che lo tiene sospeso in aria e posalo delicatamente sdraiato sull’erba a piè della Quercia. […] – Su da bravo, Medoro! – disse la Fata al Can-barbone; – Fai subito attaccare la più bella carrozza della mia scuderia e prendi la via del bosco. Arrivato che sarai sotto la Quercia grande, troverai disteso sull’erba un povero burattino mezzo morto. Raccoglilo con garbo, posalo pari pari su i cuscini della carrozza e portamelo qui.

Tra le caratteristiche mariane della Fata, ne scegliamo solo una per la nostra riflessione: il rispetto e la delicatezza, il garbo con cui tratta i burattini, ovvero come la Madonna ci tratta nonostante le asinate che combiniamo, per usare un eufemismo.

Ella non ci ripaga secondo le nostre opere, da chi avrà mai imparato?, ma usa sempre parole gentili e rispettose, nonostante i rimproveri ed i consigli accorati siano sempre quelli, quanta pazienza… proprio come fa una mamma comune. Cari genitori, dobbiamo chiederci se anche noi usiamo questo garbo e rispetto nei confronti dei nostri figli, malgrado siamo costretti tutti i giorni a ripetere sempre le solite, identiche cose alle solite, identiche persone… le mamme infatti spesso vengono etichettate dai figli come un disco rotto. Ma non per questo dobbiamo scoraggiarci e smettere con la solita cantilena, fa parte del nostro dovere.

Se pensiamo a quanta fatica si faccia per far entrare un concetto in quelle “zucche vuote”, non è niente rispetto alla fatica che si fa per farlo entrare nel cuore affinché lo facciano proprio e si decidano a viverlo da soli: è un’impresa molto più ardua.

Cari sposi genitori, dobbiamo imitare la delicatezza di questa bella Bambina dai capelli turchini, la quale usa tanto garbo e delicatezza soprattutto quando Pinocchio si dimostra un burattino e non vive da figlio, ella non gli toglie la dignità.

Quando dobbiamo riprendere i nostri figli, se li trattiamo calpestando la loro dignità e non li rispettiamo, non crescerà la loro autostima né la loro consapevolezza di creature ad immagine di Dio; se, al contrario, li trattiamo con garbo (anche deciso e risoluto) e rispettoso della loro dignità di figli, già questo atteggiamento dirà loro: “Tu vali di più dell’asinata che hai combinato, tu sei fatto per grandi imprese, tu sei capace di fare meglio”. Coraggio sposi, impariamo dalla Madonna chiedendone l’intercessione.

Giorgio e Valentina.

Con cuore di vedova

Sono rimasta vedova a quarantacinque anni con quattro figli ancora in età scolare (all’epoca avevano 19 anni, 17, 15 e 10), dopo vent’anni di matrimonio. Il momento della morte del proprio coniuge è una di quelle cose che non si vorrebbe mai accadessero e se poi arriva troppo presto si aggiunge, al dolore del lutto, la fatica di crescere la famiglia da sole.

Il Signore mi ha dato la grazia di arrivare a quel momento preparata, perché sapevo che la malattia di Francesco era terminale, e il giorno del suo funerale per me era già in cielo. Lui ha vissuto la sua vita matrimoniale spendendosi tutto per Dio e per la famiglia e, quando è arrivata la malattia, l’ha accettata sapendo dove lo stava conducendo. Non ho mai avuto dubbi sulla sua resurrezione perché, come ho sperimentato di persona e scritto in uno dei miei libri: “Vivi la perdita del tuo amato esattamente come hai vissuto l’amore per lui. Il tipo di amore che hai sperimentato in vita diventerà anche il tipo di lutto che sperimenterai quando il tuo sposo morirà.

Quando è iniziata la mia vita da vedova però, mi sono accorta che questa certezza della risurrezione era condivisa da poche persone. Ricordo che, prima di aprire la pagina Facebook (e la sua gemella Instagram) “Con cuore di vedova”, sfogliavo altre pagine Facebook dedicate a chi aveva perso un proprio caro. Alcune avevano tantissimi follower e un sacco di commenti ai post, ma erano tutte improntate soltanto al ricordo del “caro estinto”. Mancava ogni riferimento alla risurrezione che, invece, per me è la testata d’angolo su cui costruisco ogni giorno le mie giornate.

Da qui è nata l’esigenza di testimoniare l’esperienza di risurrezione che Dio ha portato nella mia vita: Dio è rimasto fedele al sacramento del matrimonio donandomi un amore che va oltre la morte. Con questo spirito ho aperto la pagina “Con cuore di vedova” che ad aprile 2024 compirà tre anni.

Tre anni in cui ho proposto post di vario genere – ma sempre improntati alla fede cristiana – indirizzati alle vedove che, come me, stanno portando ogni giorno questa pesante croce.

La vedovanza è un cammino pressoché sconosciuto alla gente perché, in genere, non se ne parla. Così questa pagina, col tempo, è diventata anche un momento di confronto con altre vedove per condividere “come si fa” a sopravvivere a un dolore che sconquassa da cima a fondo e che non passa mai. Come si può ricostruire la propria identità di donna, tornare a sorridere (è il tema della Quaresima 2024 che ho proposto nelle meditazioni settimanali) e crescere una famiglia da sole. Spero che abbia fatto del bene alle persone che l’hanno incrociata anche soltanto per un post.

È anche un’occasione di dare voce a chi non ha voce.

La perdita del proprio sposo è una realtà che, comunemente, non viene toccata in nessun ambito ecclesiale. A parte i rari (e bellissimi) discorsi dei papi alle vedove consacrate, a parte le catechesi dei sacerdoti in occasione della giornata dei defunti, a parte una discreta scelta di libri sul lutto (ma non su come si vive “il dopo”, da sole) direi che manca una realtà che accompagni con costanza chi porta quotidianamente la croce della vedovanza, specifica per loro. Queste pagine web “Con cuore di vedova” sono un modo di dare voce a una realtà che passa sotto silenzio.

Inoltre questa pagina è anche un modo di affrontare la vedovanza alla luce della Parola di Dio. Per me sarebbe impensabile farne a meno: è semplicemente fondamentale. Ed è bello leggere anche le testimonianze che offrono le sorelle di fede vedove: è davvero arricchente e stimolante. Benvengano queste testimonianze perché aprono la prospettiva sulle realtà celesti. Ancora adesso una delle cose che mi fa più soffrire è vedere quante persone, anche cattoliche, anche che vedo a messa, non siano sicure di dove sia l’anima del loro sposo defunto. C’è tanto da annunciare!

Infine un altro obiettivo di questo “servizio” è diffondere gli interventi della chiesa, dei papi, del magistero, dei padri della chiesa, dei laici sul tema della vedovanza, sperando che lettrici e lettori ne possano trarre beneficio, insegnamento, riflessione. Io stessa scrivo le riflessioni che mi suscita la preghiera, o le poesie che mi nascono da dentro. Ci tengo a precisare che ogni cosa che scrivo nasce dalla preghiera.

Vorrei concludere con uno dei discorsi più belli alle vedove, fatto da Papa Pio XII nel 1957. È un po’ la Magna Charta di tutti i documenti successivi:

 “La morte, anziché distruggere i legami di amore umano e soprannaturale contratti con il matrimonio, può perfezionarli e rafforzarli. È fuori dubbio che sul piano puramente giuridico e su quello delle realtà sensibili, l’istituto matrimoniale non esiste più. Ma sussiste tuttora ciò che ne costituiva l’anima, ciò che le conferiva vigore e bellezza, cioè l’amore coniugale con tutto il suo splendore ed i suoi voti di eternità. [.. .] Se il sacramento del matrimonio, simbolo dell’amore redentore di Cristo e della sua Chiesa, trasferisce agli sposi la realtà di questo amore[..], ne consegue che la vedovanza diventa, in qualche modo, il compimento di questa mutua consacrazione[..]. Ecco la grandezza della vedovanza quando è vissuta come prolungamento delle grazie del matrimonio e come preparazione del loro dischiudersi nella luce di Dio!

Vi ringrazio di avermi dedicato questo spazio e di aver consentito di aprire una finestra sul mondo della vedovanza.

Elisabetta Modena vive e lavora in provincia di Verona, ed è scrittrice di narrativa e poesia (pubblica sia con il suo nome, che con lo pseudonimo Judith Sparkle)

Intervista su Tv 2000

Su Aleteia sono apparsi due suoi articoli: 1 2

Ariticolo su Punto Famiglia

Una sua testimonianza è stata raccolta e pubblicata da Cecilia Galatolo nel libro “Vivere il lutto insieme a Dio” per l’editore Mimep docete.

Ha dedicato un libro di poesie a suo marito, con illustrazioni della figlia, dal titolo: “Come un campo di girasoli” (Amazon).

Fino alla fine. Un libro fuori dal coro

Qualche giorno fa è uscito il libro di un mio caro amico, nonché teologo, Marcelo Fiães che, presso il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II (Roma), ha ottenuto la Licenza in Sacra Teologia (Summa cum Laude, e premio seconda migliore tesi di licenza dell’Istituto per l’anno 2021), con la tesi intitolata “Il significato della separazione fedele”. Da questo lavoro è nato questo libro, Ti amerò fino alla fine (Il significato della separazione fedele nel matrimonio cristiano), nella collana “Saggi” di Mistero Grande, con la prefazione di Don Renzo Bonetti e questa è la sua presentazione:

Il matrimonio è da anni una realtà in crisi, con metà delle coppie che divorzia e intreccia nuove relazioni. I cattolici non fanno eccezione a questo trend e anche fra molti battezzati è diventato usuale “rifarsi una vita” dopo una separazione matrimoniale. Non tutti i credenti, però, ritengono questa una scelta obbligata. Alcuni, nonostante siano stati traditi o abbandonati dal coniuge, decidono di rimanere fedeli al Sacramento delle nozze e non cercano nuovi legami. Perché lo fanno? Qual è il significato di una scelta giudicata come insensata e fondamentalista agli occhi dei più? Cosa spinge i separati fedeli a continuare ad amare chi – per vari motivi – ha voltato loro le spalle? L’autore, a partire da una solida base teologica e dalla viva testimonianza di separati fedeli, propone alcune piste di riflessione per approfondire un tema poco conosciuto e raramente affrontato, anche in ambito ecclesiale. Un libro “fuori dal coro” che ha lo scopo di ricordare come il matrimonio cristiano, anche quando il legame fallisce, non perde il suo valore sacramentale e profetico, poiché conserva l’immagine delle nozze definitive dell’umanità con Cristo.

È un libro che ritengo molto importante, non solo perché ha basi teologiche solide e riporta testimonianze di separati fedeli, ma perché sottolinea il fatto che il Sacramento del matrimonio è efficace e generatore di frutti anche se il coniuge non è più fisicamente accanto. Non è una cosa facilmente comprensibile, perché nella stragrande maggioranza dei casi, i separati fedeli vengono visti come persone menomate che, poverini, sopravvivono in qualche modo, come fossero uccelli ai quali vengano legate le ali.

Questa è una visione errata, perché la capacità di amare e lo svolgimento della missione non sono legati alla presenza del coniuge: quest’ultimo è certamente un aiuto importantissimo nel crescere nell’amore gratuito, nell’unità, nel perdono, nella pazienza, nella tenerezza, nella reciprocità e complementarità, ma nel Sacramento del matrimonio viene benedetta la relazione e, poiché Gesù non divorzia mai da nessuno, qualsiasi cosa succeda, rimane ugualmente in piedi.

Paradossalmente il coniuge a volte può essere non un aiuto, ma un peso nello svolgimento della missione, se si limita tutto solo alla coppia e alla propria famiglia, senza guardare fuori, ritenendo che gli sposi “bastino a sé stessi”: è un atteggiamento che può portare alla fine di una relazione.

I separati fedeli sono chiamati non tanto a svolgere servizi vari in parrocchia o aiuto ai parroci, ma a rendere fruttuoso il loro Sacramento, a essere protagonisti nella Chiesa e per la Chiesa, non per i propri meriti, ma per la Grazia che deriva proprio dal Sacramento: ovviamente mostrano un volto particolare di Gesù, quello ferito, ma che lo Spirito Santo rende efficace, perché continua ad amare nonostante tutto.

Anche Papa Francesco ha voluto sottolineare l’importanza di questa scelta: Per evitare qualsiasi interpretazione deviata, ricordo che in nessun modo la Chiesa deve rinunciare a proporre l’ideale pieno del matrimonio, il progetto di Dio in tutta la sua grandezza…..Comprendere le situazioni eccezionali non implica mai nascondere la luce dell’ideale più pieno né proporre meno di quanto Gesù offre all’essere umano (Amoris Laetitia, 30).

Se qualcuno pensa che questa strada sia percorribile realmente solo da alcune persone, quelle magari particolarmente convinte o con le dovute qualità, sta di fatto mettendo un freno, un limite alla potenza di Dio e allo Spirito Santo: ho visto persone semplici, che non hanno studiato, rimanere fedeli attraverso una fede sincera e un totale affidamento a Gesù, seguendo il desiderio del proprio cuore.

Anche io m’inserisco fra le persone che, senza studi teologici, senza particolari doti e senza la presunzione di capire tutto, si sono messe in cammino giorno per giorno, confidando nella Provvidenza e ottenendo frutti inaspettati, gioie, consolazioni e tanti amici. Grazie Marcelo per questo tuo libro che sarà utile a tanti sposi!

Ettore Leandri (Presidente Fraternità Sposi per Sempre)

Quanta sete abbiamo?

Dai Sal 41-42 (42-43) Come la cerva anèla ai corsi d’acqua, così l’anima mia anèla a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio? Manda la tua luce e la tua verità: siano esse a guidarmi, mi conducano alla tua santa montagna, alla tua dimora. Verrò all’altare di Dio, a Dio, mia gioiosa esultanza. A te canterò sulla cetra, Dio, Dio mio.

Qualche settimana fa, in occasione del famoso giorno di S. Valentino, abbiamo sentito o letto frasi d’amore romantico da strappacuore, al limite del tenerume, alcune ci sono sembrate quasi esagerate, chi le avesse lette tutte si sarà fatto un’indigestione di romanticismo… tanta dolcezza da rischiare il diabete amoroso.

Ma nessuna di queste frasi amorose ha toccato vertici come lo fanno le parole di questo Salmo, forse perché quest’ultime sono state ispirate da Colui che è la fonte dell’amore, anzi, ci dice S. Giovanni, è l’Amore stesso.

Una delle esperienze più vivide dell’umano vivere è quella della sete: tutti abbiamo fatto esperienza di quanto sia preziosa l’acqua dopo che ne abbiamo vissuto la mancanza, quanto è buono e dissetante il primo bicchiere dopo tante ore senza poter bere! Ebbene, il salmista fa riferimento proprio a quest’esperienza corporale per farci meglio comprendere come dovrebbe essere il nostro desiderio di vivere in Dio, o meglio, che Dio possa vivere in noi.

Quando due sposi si amano intensamente sperimentano quella comunione di cuori presente già nella natura, e questa unione è destinata ad aumentare con l’aumentare dell’amore che i due si scambiano, e già questa esperienza ci fa intravedere che la vita non può essere tutta qui, sarebbe troppo riduttivo, e ci si chiede dove sia la fonte di tutto questa bellezza.

Già vivendo questa esperienza naturale i due vivono desiderando che l’altro possa vivere dentro sé in ogni istante; quando uno dei due vive una bella esperienza vorrebbe che l’altro fosse lì, per esempio se sta ammirando un tramonto particolare o un altro spettacolo del creato il desiderio non è solo che l’altro sia lì ma che addirittura possa guardare coi propri occhi, si vorrebbe che i propri occhi fossero una telecamera cui l’altro possa collegarsi come si fa con il wi-fi.

Tutto ciò fa parte dell’amore umano, ma quando la Grazia interviene (ovvero quando il matrimonio diviene Sacramento), prende questa bellezza e la eleva, la perfeziona e la trasfigura ad immagine di Colui che di questo amore ne è la fonte. E’ allora che questo desiderio di comunione sempre più profonda fa diventare la sete della presenza dell’altro in sete della presenza di Dio che nell’altro si manifesta, prende forma carnale in un volto ben preciso: il mio coniuge.

La presenza dell’altro con le sue manifestazioni sensibili ci aiuta ad aprire sempre più il nostro cuore a Colui che di quelle manifestazioni è la fonte, esse sono segno nel tempo di Chi vuole essere ricambiato nel Suo amore eterno.

Il Signore è il primo ad avere sete del nostro amore, ce lo ha dimostrato sulla croce (cfr <<Ho sete>> Gv 19,28), sembra un’assurdità, quasi che a Dio, perfettamente sussistente in se stesso, manchi qualcosa se non lo ricambiamo col nostro amore. Il Salmo ci mette sulla bocca le stesse parole di Gesù sulla croce per farci comprendere con quale intensità dobbiamo vivere il nostro amore a Dio per poter trasfigurare il nostro matrimonio ad immagine del suo amore crocifisso. Coraggio sposi, non lasciamo morire di arsura il nostro coniuge.

Giorgio e Valentina.

Gelosia divina

Cari sposi, siamo approdati a metà del nostro cammino quaresimale. Abbiamo iniziato nel deserto per poi salire sul monte della trasfigurazione domenica scorsa ed oggi entriamo con Gesù nel tempio a Gerusalemme.

L’evangelista Giovanni colloca questo fatto nella prima Pasqua di Gesù e appena dopo il primo “segno” compiuto a Cana, discostandosi così dalla narrazione dei Sinottici.

Anzitutto vediamo il contesto in cui avviene il racconto. Siamo poco prima di Pasqua, quindi in piena primavera e per quella grande festa giungevano a Gerusalemme anche centomila persone, procedenti dalla Spagna al Medio Oriente. Ogni pellegrino poi offriva nel tempio generalmente un agnello e si calcola che in pochi giorni venivano immolati circa 18-20 mila agnelli. Immaginate il giro di soldi che questo comportava! E tutto questo trafficare avveniva proprio nel recinto del tempio. Siccome poi i pellegrini venivano da ogni parte dell’Impero Romano era chiaro che ci volevano pure i cambiavalute, come nei nostri aeroporti, che cambiassero i sesterzi, i denari, gli aurei in sheqel.

Un’ultima annotazione importante: la legge ebraica non proibiva affatto questo tipo di attività economica che avveniva appunto attorno al Tempio, nel cosiddetto emporion mentre Gesù è proprio lì che pronuncia il suo discorso e attua la cacciata. Se allora, Gesù non è venuto a cambiare nemmeno una virgola della Legge ebraica (cfr. Mt 5, 18), allora in ciò che dice e fa c’è un senso molto più profondo.

È molto interessante, nel testo greco del Vangelo, vedere come Giovanni, parlando del tempio, non usa il vocabolo comune, che è nàos, ma piuttosto ièron, cioè proprio quella parte intima in cui era custodita l’Arca dell’Alleanza e dimorava perennemente la Shekinah, la Presenza di Dio.

Detto questo si può già arrivare a un’importante conclusione. Gesù non sta dicendo banalmente di non fare sacrifici nel tempio, difatti essi erano un anticipo del Vero Sacrificio che Lui avrebbe fatto di lì a poco.

La sfuriata di Gesù non è affatto un colpo di testa, un segno di burn out o di accumulo di stress. Piuttosto, la collera di Gesù è quella di uno Sposo che si sente ingannato dalla Sposa e ha appena scoperto i segni del suo tradimento. È come quando un coniuge scopre certi messaggini sul cellulare o alcune chat sul computer oppure siti particolari nella cronologia di Google

Gesù in questa scena sta provando un’indignazione solenne per constatare che il Suo Amore è vilmente svenduto! Tutta quella gente lì stava correndo dietro a cose sacrosante ma in realtà stavano dimenticando per Chi lo facevano. Gesù Sposo, allora, reclama a grida il cuore della Sposa che al contrario è tutta dedita ad affari e sta mettendo in secondo piano l’Amore Vero.

Ecco allora che la parte più interna del tempio è direttamente collegata alla nostra coscienza, all’intimo del nostro cuore. Il Catechismo, difatti, afferma che: “La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità propria” (1777).

Gesù Sposo conosce meglio di chiunque altro il nostro cuore e in questa Quaresima è il più interessato a renderlo puro, cioè, innamorato di Lui. La scena evangelica odierna è esattamente quanto Gesù intende compiere nel cuore di voi sposi, come coppia e singolarmente. E come lo fa?

Anzitutto con i Sacramenti e con lo Spirito. Il Battesimo che abbiamo ricevuto è esattamente il lavacro che ci ha rigenerati e per voi esso è culminato nel Matrimonio, con cui Gesù vi ha uniti a sé in un’alleanza eterna di amore. L’Eucarestia è il Suo Corpo dato per amore che vi rende ogni volta che La ricevente concorporei, consanguinei a Lui. Ed infine lo Spirito è Colui che rende fruttuosi i sacramenti e vi guida in questo cammino di purificazione.

Cari sposi, dobbiamo accettare che il nostro cuore è perennemente visitato da idoli, da intrusi che tendono a farci distogliere dallo Sposo, la vita odierna non fa che bombardarci quotidianamente. Ci distraggono, ci confondono, ci disorientano e vogliono mettersi al posto di Cristo, vogliono rubarci l’anima. Gesù lo sa bene, non si scandalizza, anzi, perciò in questa Quaresima anela profondamente a darvi un cuore nuovo, un orientamento nuovo nella vostra via cristiana.

Lasciamoci guidare, permettiamo che lo Sposo continui a mondarci e a liberarci, anche se può far male, in modo che la vostra fede e il vostro amore sia sempre più simile all’amore con cui Cristo Sposo ama la Sua Sposa.

ANTONIO E LUISA

Gli idoli di cui parla padre Luca non sono necessariamente vizi o distrazioni. Può essere un idolo anche nostro marito o nostra moglie. Gesù è geloso quando facciamo dell’altro il nostro tutto, il nostro dio. In realtà sa bene che solo nella relazione con Lui – mettendo Lui al primo posto – potremo amare davvero l’altro nella gratuità e non fare del nostro matrimonio quel mercato che ha indignato Gesù. Perchè non solo noi siamo tempio di Dio ma lo è anche il nostro matrimonio che è abitato dalla reale presenza di Cristo.

Dio vede in voi una meraviglia

Il Vangelo del padre misericordioso – proposto oggi dalla liturgia – è uno dei passi più conosciuti, letti, riletti e approfonditi. Cosa può ancora dirci? Tanto! Innanzitutto perché lo ascoltiamo in momenti diversi della nostra vita. Quello che ci può toccare oggi non è quello che ci ha toccato le volte precedenti. Cambiamo sempre e quindi cambia ciò che la Parola provoca in noi.

Detto questo, parto da una riflessione di don Fabio Rosini di un po’ di tempo fa. Mi è sembrata molto centrata ed efficace. Una prospettiva forse un po’ diversa da quella solita. Gesù rivolge una serie di tre parabole agli scribi e farisei. Lo fa per rispondere al loro atteggiamento verso di Lui. Sono scandalizzati che lui abbia relazioni, che si intrattenga e mangi insieme a pubblicani e peccatori. Gli scribi e i farisei credono di essere i soli meritevoli, mentre gli altri non meritano né considerazione né rispetto. Non hanno dignità. Sono considerati la feccia.

Gesù racconta la parabola del Padre misericordioso per mostrare la diversa esperienza vissuta dal padre da parte dei suoi due figli. Il figlio peccatore che torna a casa ha commesso molti errori. È vero, il suo comportamento è stato davvero sbagliato. Ha sprecato tutto ciò che il padre gli aveva dato, vivendo una vita dissoluta. Tuttavia, c’è un punto di svolta. Questo porta Gesù a dire in un’altra occasione, in Matteo 21: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio“. Quando tocca il fondo, il figlio comprende la miseria della sua condizione e del modo in cui ha vissuto. Il peccato lo ha reso vulnerabile e spoglio. Tornando a casa, l’abbraccio del padre lo fa sentire amato, nonostante abbia deluso, disobbedito e si sia perduto. L’abbraccio del padre diventa per lui un’occasione per sentirsi amato per ciò che è, e non per ciò che ha fatto o non fatto. È un amore autentico e incondizionato.

Arriviamo all’altro fratello. L’altro ha sempre condotto una vita onesta. Non lo ha fatto per amore, ma per senso di responsabilità. Per sentirsi in pace. Questo lo fa sentire come se il Padre fosse un padrone e lui un servo. Tutto diventa gravoso. Capite la differenza nella relazione tra i due figli e il Padre? Non voglio dire che il peccato sia positivo, ma potrebbe essere un’opportunità per rinascere.

Anche io ho toccato il fondo nella mia vita e lì ho scoperto lo sguardo di un Dio che mi voleva bene anche così, beh è cambiato tutto. Credo di avere avuto la mia vera conversione.

Quanti sposi e quante spose si sentono miseri e misere, sentono di non farcela, sentono di avere un sacco di problemi, di fragilità e di difetti. Quante coppie credono di avere un matrimonio povero che non brilla. Quante coppie guardano con invidia altre coppie che sembrano più belle e sante. Quella è l’occasione di alzare lo sguardo verso Dio e specchiarsi in ciò che lui vede. Lui vede una coppia bellissima, lui vede una coppia che ha tutto per mostrare qualcosa di Lui al mondo. Per farlo anche nella difficoltà più o meno grandi che la vita ci riserva. Lui non smette mai di credere in noi, perché non dovremmo crederci anche noi, sempre, nel nostro matrimonio?

Dovremmo fare nostre le parole che cantano i The sun nella canzone Johnny Cash:

Alla fine ho accettato il fatto che Dio pensava ci fosse in me qualcosa che valesse la pena di salvare e chi ero io per dirgli che aveva torto, non sono mica Dio, non sono mica Dio.

Coraggio Dio vi guarda e vede una meraviglia, cercate di vederla anche voi.

Antonio e Luisa

Quando fare l’amore può essere un fioretto quaresimale

Ho ricevuto una mail da Agata (nome di fantasia) che mi ha fatto riflettere. Anche perché simile a un aneddoto che ci raccontava sempre padre Raimondo – il frate che ci ha seguito e dato una regolata da fidanzati – che mi aveva colpito già tanti anni fa.

In questa mail Agata, che conosciamo già da un po’ di tempo e sappiamo che ha problemi a lasciarsi andare nell’intimità con il marito, ci ha confidato di aver scelto per questa quaresima un fioretto diverso dal solito: ha scelto di non avere rapporti sessuali con il marito per tutta la durata della quaresima.

Un fioretto di questo genere può essere davvero gradito a Dio? Lo può essere nella misura in cui ci aiuta a crescere e a perfezionare il nostro matrimonio. Faccio un esempio. Se io sposo faccio fatica a rispettare i tempi dei metodi naturali e sono spesso in difficoltà ad accogliere i periodi di astinenza per esercitare la mia paternità responsabile, ecco che un fioretto di questo tipo può essere positivo. Vissuto però con la consapevolezza che lo sto attuando per essere capace di amare di più e consapevole che mi sta costando fatica perché voglio rendere quella fatica feconda. Soprattutto deve essere condiviso con la mia sposa che non può non essere coinvolta in una situazione che non riguarda me ma riguarda noi.

La comprensione e l’accettazione dei sacrifici necessari nel matrimonio possono portare a una crescita personale e spirituale. Affrontare le sfide con l’obiettivo di migliorare la relazione con il proprio coniuge dimostra un impegno profondo e un desiderio sincero di amore e reciprocità. Questa consapevolezza può portare a una maggiore armonia e intimità, creando così una base più solida per il matrimonio.

Non è proprio il caso di Agata. L’autrice della mail sta usando Dio per coprire una difficoltà che lei e il marito hanno nel vivere l’intimità. A lei non costa nessuna fatica rinunciare al sesso con il marito! Per quaranta giorni ha la “scusa” buona. Anzi, ha trovato il modo di rendere “santa” una scelta che invece è sbagliata per la coppia. Perché li allontana sempre di più! Meno si sta vicini – e l’intimità fisica è il massimo della vicinanza – e meno desiderio si avrà di cercarsi.

Per questo ho dato ad Agata lo stesso consiglio che padre Raimondo diede a quella coppia: che fatica fareste a non fare l’amore? Io in Quaresima vi invito a farlo di più, impegnatevi a cercarvi e a curare la vostra relazione.

Un fioretto ha senso quando fatto per il bene e a volte non ci chiede di rinunciare a qualcosa ma di impegnarci, per amore, a superare fatiche e difficoltà.

Antonio e Luisa

C’è un giudice in Alabama!

Parafrasando la celeberrima espressione di Bertold Brecht, con grandissima soddisfazione possiamo affermare che c’è un giudice in Alabama (finalmente)! Mi riferisco alla notizia più importante che ho letto negli ultimi giorni, quella relativa alla sentenza emessa dalla Corte Suprema del suddetto Stato americano che ha decretato che anche gli embrioni congelati per la fecondazione artificiale sono bambini quindi essere umani veri e propri

La cosa più curiosa di tutta la vicenda sono i titoli utilizzati nei giornali nostrani: quelli che hanno deciso di pubblicarla hanno usato espressioni come “sentenza shock”, “clamorosa”, “che mette a rischio i diritti riproduttivi”, “sentenza senza precedenti”, “che ostacola la riproduzione assistita” ma anche “scandalosa e inaccettabile”. Secondo voi cosa significa tutto questo? Non è, forse, già stato emesso un giudizio e quindi la diffusione stessa della notizia? I lettori, proprio a partire dal titolo, sono indubbiamente influenzati ad allinearsi al pensiero dominante: in questo modo si vizia forzatamente la loro capacità di giudizio, come se non la possedessero nemmeno. Per questo è fondamentale che ciascuno si formi in coscienza e conoscenza, proprio per liberarsi dalle pressioni di un mainstreaming che ci vuole tutti “zitti e buoni” al cospetto di pseudo-verità distanti anni luce dalla moralità evangelica.

Che ci sia vita umana fin dal concepimento è talmente evidente che, ben prima e ben oltre le assicurazioni scientifiche moderne di un gruppo sempre più nutrito e consapevole di specialisti, è stato scritto diversi secoli prima di Cristo; ora tutto questo viene addirittura fatto passare come shoccante e scandaloso: siamo veramente alla fiera dell’assurdo! Penso che non servano molte parole né commenti perché basta leggere il Salmo 139 per edificarsi e capacitarsi che nel nostro DNA è impresso quello del Creatore e che non servano chissà quali esperimenti per capire che, anche se minuscoli e appena concepiti, siamo creaturine e non un grumo di cellule. “Sei tu che hai formato i miei reni e mi hai tessuto nel grembo di mia madre […]Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto,ricamato nelle profondità della terra.  Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi; erano tutti scritti nel tuo libro i giorni che furono fissati quando ancora non ne esisteva uno.” (Sal 139, 13 e 15-16). Che saggezza, che ricchezza la Parola di Dio! Questi sono gli autentici fondamenti non solo della fede cristiana ma della vita umana, che sicuramente si scontrano con la mentalità attualmente dominante ma non dobbiamo indietreggiare perché Gesù ci ha rassicurato: “Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!” (Gv 16, 33).

È di grande gioia e conforto sapere che il giudice dell’Alabama, Tom Parker, ha utilizzato gli stessi riferimenti e detto le stesse cose che affermo da tempo, sia quando parlo con parenti, amici o parrocchiani sia quando vengo chiamata a dare mia testimonianza sull’esperienza dell’aborto spontaneo, vissuto con mio marito quasi dodici anni fa. Questo mi dimostra, una volta di più, ciò che recita un altro Salmo: “La legge del Signore è perfetta, rinfranca l’anima; la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice. I precetti del Signore sono retti, fanno gioire il cuore; il comando del Signore è limpido, illumina gli occhi.” (Sal 19). Non serve essere dei luminari per assaporare ed apprezzare ciò che dice Dio perché è sufficiente aprire il cuore: questo permetterà di spalancare occhi e orecchie alla Verità e fuggire da quanto cerca di propinarci il sistema dominante, che sembra proprio abbia come obiettivo quello di appiattire l’esistenza ad un misero susseguirsi di fatti dettati solo dal “dio-io”.

A volte sembra che ogni cosa sia sbagliata: hai desiderio di diventare mamma? Sei retrograda perché i figli rovinano la carriera, l’indipendenza e la libertà, si può essere donne pienamente realizzate senza assolvere all’obbligo di diventare madri! Però se vuoi un figlio a tutti i costi, scontradoti magari con situazioni che non lo permettono o forzando il piano della Provvidenza, avanti, accomodati, puoi provare ogni tecnica possibile e immaginabile, congelando perfino embrioni per essere usati a piacere, tanto non sono persone! Vedete che paradossali e assurdi cortocircuiti mentali abbiamo davanti a noi? Ma siamo più intelligenti di così e meritiamo ben altro, sicuramente molto di più del tutto e del contrario di tutto con cui tentano di anestetizzare le nostre coscienze, anche perché basta così poco per smascherare queste assurdità e ripensare completamente al valore sacro della vita, dono unico ed irripetibile di Dio! Abbiamo da secoli la Bibbia, santi sacerdoti e validissimi predicatori, possiamo informarci in ogni modo e con ogni mezzo e, grazie a Dio, abbiamo anche qualcuno che finalmente ha utilizzato la propria autorità umana per aprire il vaso di Pandora e ci ha messo davanti all’evidenza … c’è davvero un giudice in Alabama!

Fabrizia Perrachon 

P.S.: per ascoltare le mie testimonianze è sufficiente accedere ai miei profili social (Instagram e Facebook) oppure collegarsi ad uno dei seguenti link: testimonianza al Santuario del Bambin Gesù di Arenzano, intervista con Paolo Belluccio oppure intervista pubblicata sul canale Il Tempo di Maria. Da sola posso fare poco da insieme possiamo qualcosa di grande e nuovo: dar voce a tutti i bambini non nati!

Incatenati, ma non per sempre

Dal Sal 78 (79) Aiutaci, o Dio, nostra salvezza, per la gloria del tuo nome; liberaci e perdona i nostri peccati a motivo del tuo nome. Giunga fino a te il gemito dei prigionieri; con la grandezza del tuo braccio salva i condannati a morte. E noi, tuo popolo e gregge del tuo pascolo, ti renderemo grazie per sempre; di generazione in generazione narreremo la tua lode.

Abbiamo tratto le nostre riflessioni per tanto tempo dai brani evangelici e dalla cosiddetta Prima lettura, oggi traiamo spunto dal Salmo della Liturgia odierna. Per chi non ne fosse a conoscenza, spieghiamo telegraficamente che il libro dei Salmi fa parte del Vecchio Testamento e contiene 150 preghiere (la loro numerazione/catalogazione dipende dalle versioni della traduzione), praticamente ce n’è una per ogni tipo di situazione dell’umano vivere: gioia e dolore, fatica e riposo, guerra e pace, carestia e prosperità, paura e audacia, e tante altre.

Questo Salmo fa appello alla misericordia di Dio, chiede il Suo aiuto nello stile della Quaresima, ma quello che vorremmo sottolineare è il versetto centrale dove i mittenti della preghiera, ovvero noi, si definiscono “prigionieri” rincarando poi la dose alla fine della frase con l’espressione “condannati a morte“.

Ad un primo superficiale approccio sembrerebbe un’esagerazione appositamente studiata al fine di impietosire colui al quale si rivolge la supplica, ma in realtà nasconde una presa di coscienza reale di chi sia l’uomo. Poiché il nostro interlocutore non è un semplice sovrano, anch’esso umano come noi, ma è il Dio eterno, ecco che allora auto-definirsi “condannati a morte” non è per niente un’esagerazione… e non solo per ribadire la verità fondamentale che la morte fisica è un passaggio obbligato per ogni uomo, ma anche per marcare una linea di confine tra la nostra finitezza di creature e l’eternità infinita del Creatore.

Ma se scendiamo più in profondità scopriamo che forse siamo un po’ tutti dei prigionieri, ma di cosa?

La Quaresima è proprio il tempo ideale per spogliarci dell’uomo vecchio e rivestirci dell’uomo nuovo, ovvero il tempo propizio per abbandonare il peccato e vivere da liberi figli di Dio… liberi sì, ma da che cosa?

Liberi dalla schiavitù, che per l’antico Israele corrispondeva all’Egitto, antica prefigura di un’altra schiavitù ben più grave e profonda: la schiavitù del peccato. Ecco allora che comincia a prendere senso quel “prigionieri“, perché siamo ancora nel pieno del cammino quaresimale, e dobbiamo riconoscere ancora una volta in tutta sincerità di non esserci ancora scrollati di dosso molti peccati, abbiamo ancora parecchia strada da fare sulla via della conversione (detta anche penitenza), perciò ci possiamo ancora sentire prigionieri.

E se qualcuno non venisse in nostro aiuto come nostro liberatore noi ci sentiremmo sempre più dei “condannati a morte”, non tanto intesa come morte corporale (da la quale nullu homo vivente po’ scappare) ma come morte dell’anima, che diventa poi la morte eterna nell’aldilà.

Dopo aver pregato questo Salmo avendo riconosciuto il nostro stato di prigionieri e condannati a morte, vien spontaneo chiedere che venga presto un liberatore, ecco perché questo Salmo accompagna così bene la Quaresima in attesa del tanto sospirato Salvatore, l’unico che può liberarci [e che ci libera] dalle catene del peccato.

Cari sposi, anche nel matrimonio possono esserci catene che ci schiavizzano e ci tengono prigionieri molto peggio che in un carcere umano, il quale può mettere in catene solo il corpo, ma l’anima no. Dobbiamo chiedere al Signore di liberarci dalla schiavitù della lussuria, oppure da quella dell’ira, forse da quella dell’invidia o dalla gola… ogni coppia ha la propria lista.

Il primo passo è riconoscere di avere delle catene e guardarle, poi quello di riconoscere che solo Uno può liberarci perché da soli non siamo capaci, solo così si comincia un percorso di guarigione e di libertà, altrimenti il nostro matrimonio resterà sempre dalla sponda egiziana del Mar Rosso.

Coraggio sposi, il matrimonio è uscito direttamente dalle mani del Creatore, e Lui fa solo cose belle.

La bellezza salverà il mondo. (Fëdor Dostoevskij)

Giorgio e Valentina.

Rinunciate alla vostra mania di fare tutto e di avere tutto sotto controllo

Oggi riprendiamo il Vangelo di ieri che ci ha proposto la trasfigurazione. Non a caso questa Parola è posta durante il periodo di Quaresima. La Quaresima è un periodo fecondo. Non è solo rinuncia. Non servirebbe a nulla. La rinuncia è buona quando permette di fare posto. Quando è appunto feconda. Quando ci permette di rigenerare qualcosa che abbiamo forse un po’ perduto.

Non è importante solo per un individuo, ma anche per una coppia. Abbiamo bisogno di liberare spazio nei nostri cuori per permetterci di riaprire alla meraviglia che siamo. Perché, sì, una coppia di sposi è veramente una meraviglia. Se non riusciamo più a riconoscere questa meraviglia, potrebbe essere il momento di fermarsi un attimo a riflettere sulle nostre vite. Lo so, la nostra vita è così caotica. Abbiamo figli piccoli o grandi, dobbiamo far fronte al lavoro, agli impegni, alle scadenze e alla burocrazia. Sempre di corsa, non c’è mai abbastanza tempo!

E poi litigi, nervosismo, stress, crisi. Cominciamo ad avere qualche dubbio che la nostra famiglia sia poi così meravigliosa. Cominciamo a vedere solo i difetti. Guardiamo con invidia altre coppie o altre famiglie che ci sembrano perfette. Fermatevi. Voi siete una meraviglia! Non riesco a credere che non possiamo trovare un momento per fermarci e guardarsi negli occhi. Fermatevi per raccontarci quanto sia importante la presenza dell’altro/a. Fermatevi per pregare insieme. Fermatevi per riscoprire quell’emozione che provoca la vicinanza dell’altro e il suo sguardo che si posa su di noi.

Non sono romanticherie e tenerume da ragazzini. E’ ciò di cui abbiamo bisogno per riscoprirci belli e belli insieme. La Quaresima deve essere il tempo della rinuncia, dei fioretti. Fatene uno per voi. Fatene uno davvero gradito a Dio. Rinunciate alla vostra mania di fare tutto e di avere tutto sotto controllo. Lasciate i vostri figli qualche volta ai nonni o a una baby sitter. Lasciate anche un po’ di disordine per casa e cancellate qualche impegno non proprio urgente e necessario. Trovate tempo per voi. Uscite, guardatevi, parlatevi non solo delle cose da fare o da comprare, trovate tempo per la vostra intimità. Fatelo per il vostro matrimonio. Fatelo per i vostri figli. Fatelo per la vostra vocazione. Allora si che la vostra relazione tornerà meravigliosa e l’amore sarà trasfigurato. Un’esperienza di cielo sulla terra. Esattamente come è stato per i tre apostoli.

Antonio e Luisa

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La nostra fede tra i monti Moria e Tabor

Cari sposi, domenica scorsa vedevamo Gesù nel deserto, sospinto lì per fare l’esperienza della prova e tentazione. Si diceva appunto che il deserto è un luogo di passaggio nella Bibbia e non costituisce mai la dimora definitiva che invece è la Pasqua.

Ecco allora che anche oggi tutta la Parola ci presenta un passaggio, un viaggio. Non è in orizzontale ma in verticale, è una salita e poi una discesa da due monti. Nella prima lettura Abramo è chiamato a sacrificare il suo unico figlio Isacco sul monte Moria mentre nel Vangelo Gesù conduce Pietro, Giacomo e Giovanni sul Tabor. Queste due cime, per le vicende che vi accadono, costituiscono due modi ben precisi di vivere la fede.

Vediamo prima di tutto Abramo. Lui è da poco arrivato nella terra promessa, Canaan, un luogo in cui le popolazioni praticavano abitualmente il sacrificio dei propri figli alle loro divinità. Il gesto di Abramo è allora sconvolgente! Dopo tanto penare per avere un figlio, ecco che ora accetta che perisca in modo così cruento! Forse Abramo credeva che il suo Dio fosse come quelli cananei, un Dio assetato di sangue, un Dio che va placato a suon di sacrifici, un Dio spietato ed esigente, che fondamentalmente chiede e non dà, un Dio che non cerca il nostro bene.

Per cui, è affascinante la scena in cui invece Abramo scopre che il suo Dio ha solo voluto purificare ed aumentare la sua già grande fede e abbandono! Abramo sul monte Moria conosce chi è davvero Dio. Un po’ come accadde pure a Giobbe, Geremia, Giona…

Da contraltare a tutto ciò è appunto un’altra salita, quella di Gesù sul Tabor. In questo caso Dio non chiede ma dona tutto di sé. Infatti, Dio Padre non fa altro che donarci Gesù e l’unica cosa che ci chiede è di ascoltarlo. E questo perché il Dono possa essere davvero accolto da noi. In fin dei conti, cosa ci chiede il Padre se non abbandono e fiducia nella sua Parola?

Come cambia la prospettiva di vita tra il Moria e il Tabor! Dovremmo sostare a lungo in contemplazione su tale Parola! Tabor e Moria rappresentano due vissuti di fede che forse abbiamo un po’ sperimentato tutti noi. In questa domenica il Signore ci invita a passare da un Dio che chiede a un Dio che dona sé stesso. E tale passaggio avviene tramite una prova che però diviene così il momento per approdare a un rapporto con il Signore più vero e autentico.

Cari sposi, anche voi, assieme ad Abramo e ai tre apostoli, siete oggi chiamati ad un passaggio importante nella vostra vocazione nuziale. Siete già stati chiamati al matrimonio ma con questa Parola si coglie l’invito ad una “seconda chiamata”. Essa costituisce la maturità nella fede, quella fase adulta da sposi che implica essere disposti a perdere tutto, a mettere in secondo piano le nostre aspettative su o da Dio per accogliere invece Dio come dono.

Così, guardando Abramo si capisce quanto è costato al Padre donarci Gesù, lo stesso Gesù che abita con voi come Dono permanente e vivente di amore.

ANTONIO E LUISA

Noi abbiamo un sacco di aspettative quando ci sposiamo. Le coltiviamo nei confronti del nostro partner e della vita che sogniamo di costruire insieme. Con il tempo ho capito che c’è un passaggio fondamentale nel nostro matrimonio. È importante abbandonare tutte le nostre aspettative per incontrare veramente Gesù. Passare da una fede che cerca di soddisfare le nostre richieste a una fede che ascolta Gesù. In questo modo, il matrimonio diventa incredibilmente sorprendente. Ogni giorno diventa un’opportunità per donarsi reciprocamente, proprio come siamo e nelle circostanze in cui ci troviamo. Ed è meraviglioso, perché quando la vita ci porta lontano dalle nostre aspettative, sperimentiamo un amore che riempie, rigenera e diventa fecondo per noi e per gli altri. Questo vale per ogni coppia che si affida a Cristo! Ne conosciamo davvero tante.

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Donna, conosci te stessa!

Torniamo a parlare di challenge, sfide lanciate sul web e raccolte nella realtà dai giovanissimi: avevamo affrontato nei precedenti articoli la NNN e la DDD per i mesi di novembre e dicembre. Purtroppo, quasi ogni mese ne propone una ed è il caso della FFF: Free Finger Friday. Rivolta solo alle ragazze, chiede di astenersi da qualsiasi tipo di rapporto o piacere per tutto il mese.

Come già ricordato in precedenza, speriamo vivamente che queste sfide virtuali non siano raccolte da nessuno e restino solo argomenti da clickbait per i siti di gossip. Tuttavia, c’è chi le ha pensate e lanciate e, probabilmente, anche chi le ha seguite e diffuse. Scelgo di parlarne per due motivi: il primo è che esistono e non possiamo ignorare il mondo in cui i nostri adolescenti vivono. Ciò che leggono o trovano sul web è un minestrone in cui siamo chiamati a mettere le mani, per non farci trovare impreparati di fronte alle sfide dell’adolescenza. Il secondo motivo è usarle (e non subirle) per parlare di tematiche calde, che possano interessare noi sposi, educatori, genitori. Sfruttarle è ciò che mi propongo, dal momento che non è possibile eliminarle.

In questo caso, soffermiamoci a guardare le ragazze, future donne del domani, noi spose cristiane: quante conoscono veramente il proprio corpo? Quante sanno cosa avviene e come, al suo interno, ogni mese? Quante sanno parlare di fertilità? Quante, più profondamente, conoscono il valore di sé stesse e della verginità (sempre più qualcosa da perdere in fretta)?

Alla donna, interlocutrice del serpente nell’Eden, è affidato molto: l’accoglienza dell’uomo ed eventualmente di un altro essere umano. Accettare l’unione con un uomo significa accettare l’eventualità di una gravidanza (anche quando nel matrimonio si usano i metodi naturali ndr): scindere questi due aspetti, per la Chiesa, è negare la Verità e implica l’uso dell’altro per mero piacere.

Ripensiamo a quanto sappiamo, noi donne, del nostro corpo e di come funziona: chi ci ha veicolato queste informazioni? Dove le abbiamo cercate? Torno spesso al tema del “campo di ricerca” perché se avere domande è sintomo di vitalità, cercarle nei luoghi sbagliati può essere dannoso. Oggi le risposte vengono, oltretutto, offerte da ogni lato. Basta accedere la televisione e si hanno risposte preconfezionate per molti dubbi – prodotti per la casa, shampoo indispensabili, aggeggi tecnologici imperdibili. E ci ritroviamo a desiderare questo o quell’oggetto, quella vacanza, quel vestito. Eppure, nessuno ha fatto domande!

Le risposte offerte prevengono le domande. Marketing spicciolo ma anche dinamica che va a stuzzicare ciò che nell’uomo è molto profondo: il desiderio. Orientarlo è compito suo ma ci sono mille distrazioni che tentano di ricalcolare il percorso.

Tornando al corpo della donna, va da sé che dalla televisione arrivano risposte fuorvianti, schizofreniche, pericolose: devi essere sempre giovane e bella ma anche accettarti per quello che sei; la bellezza non è tutto ma ci sono mille prodotti e creme per migliorare (perché dovresti); non bisogna oggettivizzare il corpo femminile ma poi in ogni talk ci sono vallette seminude. Da questo bipolarismo se ne esce silenziando gli stimoli che non ci aiutano a volerci bene: perché, in fondo, il messaggio è sempre uno. Tu non vai bene così come sei. Non sei abbastanza (e metteteci l’aggettivo che preferite).

Pensate, giovani spose, a quanto questo meccanismo possa essere intrusivo nella vita matrimoniale: non andiamo bene così come siamo, quindi nemmeno per il nostro sposo. Dovremmo cambiare, migliorarci, modificarci. Non potremo mai rilassarci perché a distrarci chissà che succede. Il risultato di tutto questo è un rapporto nevrotico che sfinisce.

Se tu, sposa, impari ad avvicinarti sempre più a Cristo, vedrai che attorno a te questi inciampi si faranno sempre più radi: silenziare il mondo non significa starne fuori. Significa mettere Gesù davanti ai nostri occhi, per evitare di cadere in trappole che ci faranno sempre più fragili e timorose. Ho parlato di televisione ma sono soprattutto i social il principale interlocutore di adulti e ragazzi: cara sposa, hai mai pensato ad un sano detox digitale?

Anche se i contenuti che visualizzi sono cristiani e portano valore alla tua vita, a volte c’è bisogno di far tacere tutto e far parlare Dio. Nessuna pagina ti farà pregare: per quello serve che stacchi internet, prendi in mano il Vangelo, fai un bel segno di croce e lasci che la Parola ti attraversi.

La Quaresima sia un’occasione per fare spazio, silenzio, preghiera. Capire dove cerchiamo le nostre risposte e ricalibrare il tiro quando le accettiamo da luoghi malsani, che non vogliono il nostro bene. Il nostro Matrimonio ne gioverà: perché una buona autostima è lavoro di tutta una vita e ne abbiamo un fondamentale bisogno per non creare rapporti nevrotici. Coraggio, dunque!

Buttiamoci in questo deserto quaresimale con letizia! Buon cammino di Quaresima!

Giada di @nesentilavoce

“Se Dio è con noi siamo la maggioranza”

Questa frase, pronunciata da San Giovanni Bosco, ben riassume le catechesi con cui Don Renzo Bonetti e Padre Luca Frontali hanno incoraggiato il gruppo di blogger ed evangelizzatori social che si sono dati appuntamento domenica 18 febbraio 2024 presso l’auditorium del Santuario di Caravaggio (BG). A tratti non mi sembra ancora possibile di far parte di questa rete, meravigliosa e variegata, piena di carismi diversi ma tutti importanti e preziosi. Il Buon Dio ha voluto farmi davvero un dono grande nel permettermi di conoscere persone, coppie, famiglie e associazioni che spendono vita, energie, immaginazione e buona volontà per la fede, nella logica squisitamente evangelica del “gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Mt 10, 8); sapere che non si è un piccolo Davide davanti al Golia del mondo è davvero rassicurante e ci permette di proseguire sulle strade di Cristo con la certezza di non essere soli ma di avere vicino tanti fratelli e sorelle che camminano nella stessa direzione.

Questa rete di testimonianze cristiane, diffuse attraverso vari social network, è qualcosa di assolutamente inedito nel panorama nazionale; ci è stato ribadito, domenica, con forza e chiarezza, per renderci consapevoli – e nello stesso tempo responsabili – di ciò a cui ci sta chiamando Gesù: un progetto grande ben più di ognuno di noi e ai quali dobbiamo guardare non come un punto di arrivo ma di partenza.

Lo Spirito Santo dev’essere il collante, il “septiformis munere” che guida e illumina contenuti, post e quanto pubblichiamo online, affinché sia sempre veicolo autentico e veritiero della Buona Novella. Le nostre parole, insomma, non devono mai tradire né adombrare la Parola, l’unica vera, certa ed eterna e l’affetto sincero deve accompagnare i nostri rapporti, fondati sulla roccia che è Cristo, il quale ci ha detto che“Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13, 35), in quanto “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4, 19”).

La ricchezza dello scambio, infatti, non è solamente tra noi – blogger, scrittori, evangelizzatori, animatori liturgici, volontari di associazioni, conduttori radiofonici ecc … – ma soprattutto con il nostro pubblico o con i fruitori dei servizi che offriamo; la collaborazione, insomma, non è ristretta o riservata, anzi, si rivolge a tutti, nella diversità degli aspetti trattati e nella comunione con Cristo, per Cristo e in Cristo. Che potenza straordinaria in tutto questo! L’unione non fa solo la forza ma piuttosto la differenza; come dico spesso, da sola posso fare poco ma insieme possiamo fare qualcosa di davvero nuovo: comunicare la bellezza e la gioia della fede. La cosa ancora più eccezionale è che lo scambio non è mai a senso unico ma si muove in entrambe le direzioni: dono quanto ricevo e viceversa, in una scambievole e rinnovatrice fonte di informazioni, stimoli e preghiere.

Il testimone insomma, e ciascuno di noi è chiamato ad esserlo, riceve qualcosa senza trattenerlo per sé ma donandolo a sua volta, allineandosia ciò che proclama il Salmo: “la testimonianza del Signore è stabile, rende saggio il semplice” (Sal 19, 8). Nessuno è un super-eroe ma con la forza di Gesù si diventa capaci di proclamare ed annunciare le meraviglie del Suo amore nel contesto in cui siamo chiamati non solo a testimoniare ma a vivere.

Seppur la nostra rete graviti intorno alla sacralità del sacramento del matrimonio, gli argomenti toccati sono molteplici: Padre Luca ne ha evidenziati ben tredici e chissà Dio, nei suoi piani, che altro vorrà donarci per condurci alla pienezza. Il Cielo è generoso oltre ogni umana immaginazione e risponde a una logica che è vantaggiosa innanzitutto per noi, laddove si concretizza nel “Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante” (Lc 6, 38); questa misura, che quasi non si può contenere, è tutto ciò che manca al mondo e ai suoi meccanismi, sempre improntati al guadagno, al risparmio di tempo e di denaro, all’utilitarismo cieco che finiscono con lo svuotare di senso le relazioni, i sentimenti e le amicizie, travolgendo tutto e tutti con un vuoto cosmico che sembra fagocitare qualsiasi sprazzo di bello sia rimasto in questa vita. Ma noi siamo stati creati per cose ben più belle e durature!

È importante capire che, se sono in grado di veicolare contenuti spirituali, sui social è possibile spendere anche del tempo di qualità, per arricchire le giornate – o i ritagli di tempo – con qualcosa di veramente prezioso, ben al di là di reel o post che, pur magari attraendo con immagini e musiche di tendenza, si scoprono poi essere decisamente carenti, se non totalmente vuoti, di concetti meritevoli non solo dal punto di vista religioso ma anche da quello umano o educativo. Se è vero, infatti, che dovremo rendere conto a Dio di ogni istante della nostra vita, capiamo che l’urgenza della presenza cattolica sui social è quanto mai indispensabile e necessaria. Che gioia sapere che Maria ci chiama ad essere le sue “mani tese”, come più volte ha detto a Medjugorje! Rimanendo uniti a Gesù e tra di noi siamo davvero la maggioranza più forte ed importante che si sia, capace di attirare moltissime persone perché, lungi dal criterio del numero chiuso,  “il Signore è vicino a chiunque lo invoca” (Sal 145, 18).

Tutti siamo chiamati a collaborare, a testimoniare, ad annunciare perché basta un’immagine, una massima, una condivisione a far circolare la fede. Certo, l’impegno costante porterà frutti maggiori senza e solo se si mette al centro Dio. Concludo lasciandovi una frase che ci ha detto Don Renzo domenica: “I blogger sono i missionari moderni: seminano comunicazione per raccogliere comunione“.

Fabrizia Perrachon 

Che ora è oggi?

Dall’acclamazione al Vangelo di questo Lunedì:

Ecco ora il momento favorevole, ecco ora il giorno della salvezza! (2Cor 6,2b)

Il mondo odierno sembra essere riuscito nel suo intento di convincere molti cristiani che la fede cristiana serva solo per guadagnarsi un posto in un fantomatico aldilà, ma che concretamente non c’entri nulla con questa vita. Ma siccome il Signore ha altri canali di trasmissione che non sono quelli che usa il mondo, ecco che la Sua Parola ci ricorda che la nostra vita futura (eterna… ricordiamocelo) si gioca tutta in questa corta vita : ” 70, 80 per i più robusti” recita il Salmo 89.

Se ci pensiamo bene la misura è esageratamente sproporzionata, è come paragonare una goccia ad un oceano… sarebbe qualcosa come un investimento finanziario di 1 centesimo per guadagnare 10 miliardi. Capite la proporzione? E’ incalcolabile, ma del resto il nostro Signore agisce così, quando si tratta di amore è uno “sprecone”, non bada a spese, diremmo.

Se la guardiamo così, la vita terrena appare proprio un investimento: cosa sono 80 anni in confronto all’eternità? Niente. Eppure il Signore ha deciso di giocare il tutto per tutto negli anni che concede ad ognuno di noi in questa vita. Lui non si lascia scappare nemmeno un secondo per donarci la Sua salvezza, e noi?

Non saremo mica di quelli che: intanto vivo come mi pare… domani mi convertirò… vero? nella vita spirituale non si può fare come con la famosa “dieta del Lunedi” della settimana mai dell’anno mai.

Se qualche coppia di sposi avesse ancora dubbi su quale sia il momento giusto per mettere mano alla manutenzione del proprio matrimonio e quindi della propria relazione, del proprio modo di amarsi… il versetto di acclamazione al Vangelo (tratto dalla Parola di Dio) non lascia spazio ad equivoci: Ecco ora il momento favorevole … non domani, ma ora, non dopo che avrete finito di leggere questo povero articolo, ma mentre state leggendo.

Perché se qualcosa si smuove nel cuore anche mentre stai leggendo, potrebbe essere un’intuizione che il Cielo, nella Sua infinita misericordia, ti manda, e allora non indugiare neanche cinque minuti imitando così i pastori del Natale.

Spesso gli sposi si lasciano imbrigliare come dentro una ragnatela dalle cose da fare, dalla gestione della casa a quella dei figli, dalla gestione del lavoro alla programmazione degli impegni in parrocchia, e chi più ne ha più ne metta… perdendosi il qui ed ora della propria salvezza. Se è vero che Gesù è la nostra salvezza, se è vero che Gesù significa proprio “Dio salva”, e se è vero che Gesù è realmente presente, inabita nella relazione sponsale sacramentale… allora il versetto dell’acclamazione è proprio vero.

Cari sposi, domani non sappiamo se ci saremo ancora su questa terra, ma oggi sì, ci siamo.. e quindi se oggi siamo sposi, è oggi che Gesù, salvezza nostra, abita nel nostro sacramento, quindi : ecco ora il giorno della salvezza!

Non aspettiamo domani per far abitare il Signore Gesù nel nostro matrimonio, Lui ha fretta di salvarci.

Coraggio, siamo ancora in tempo.

Giorgio e Valentina.